Omar Yaghi ha appena vinto il Nobel per la Chimica. Ma il suo è soprattutto un messaggio di pace. Quando gli si chiede una opinione su Gaza, viste le sue origini palestinesi, risponde: “Dobbiamo proteggere la sacralità della vita umana. E rifiutare la violenza, in tutte le sue forme. Per me la scienza è un linguaggio che può superare ogni barriera. È anche per questo che abbiamo bisogno della scienza: per educare le nuove generazioni, per impegnare le persone in attività che favoriscano la loro crescita intellettuale, per dialogare con coloro che percepiamo come avversari”. A lui è successo: la scienza l’ha salvato.
Nato in Giordania da una famiglia di rifugiati palestinesi, ha avuto una infanzia difficile, è volato negli Stati Uniti che era poco più di un bambino, ha lavorato e studiato duramente, fino a ottenere, a soli 60 anni, il più ambito riconoscimento per chi fa ricerca. La Reale Accademia Svedese lo ha premiato, insieme a Susumu Kitagawa e Richard Robson, per aver sviluppato “strutture metallorganiche” o Mof (Metal-organic framework). Dal 2012 insegna chimica alla Berkeley University, in California, ma i suoi studi lo hanno condotto spesso anche in Italia. “Collaboro da anni con Davide Proserpio dell’Università di Milano”, ricorda. E lo scorso dicembre ha ricevuto al Quirinale, presente Sergio Mattarella, il premio Balzan per lo “sviluppo di materiali nanoporosi per applicazioni ambientali”(l’undicesimo Premiato Balzan a prendere il Nobel). La prossima settimana sarà di nuovo a Roma per l’Apertura dell’Anno accademico ai Licei.
Professore Yaghi, ci spiega cosa sono i Mof?
“Materiali nei quali ci sono metalli che collegano tra loro molecole organiche, basate cioè sul carbonio. Le strutture così ottenute hanno spazi al loro interno. E dentro quegli spazi si possono intrappolare altre molecole. E’ possibile realizzare Mof ‘su misura’, a seconda della applicazione che se ne vuole fare, per catturare specifiche molecole. L’acqua presente nell’aria, anche in zone desertiche, per risolvere il problema della sete. La CO2 che è in atmosfera e innalza le temperature. Inquinanti presenti nelle acque di fiumi e mari. O anche sostanze tossiche che contaminano il sangue umano”.
Tutto questo è teoria o realtà? I dispositivi basati sui Mof sono prototipi o già esistono in commercio?
“Non parliamo di fiction, ma di realtà: noi possiamo già connettere le molecole ai materiali, ai dispositivi e infine alla società. Ci sono già Mof che sono commercializzati e utilizzati nei cementifici, tra gli impianti industriali con le maggiori emissioni di CO2. Per quanto riguarda il prototipo che abbiamo sperimentato nella Death Valley per catturare acqua dall’aria, esso sarà commercializzato a partire dal prossimo anno”.
Molta speranza è riposta su questi materiali, proprio per la cattura del carbonio presente in atmosfera. Finora le tecniche di carbon capture si sono rivelate troppo costose. In cosa consiste la novità introdotta dai Mof?
“Le vecchie tecniche di cattura della CO2 richiedono tantissima energia. Con i Mof in alcuni casi può bastare il calore generato dalla stessa industria che deve catturare la CO2, calore che altrimenti andrebbe disperso. Ma non esiste la soluzione miracolosa e immediata, serve un po’ di tempo. Però da un punto di vista scientifico, noi pensiamo di avere la carta vincente per la cattura della CO2. Tutto il resto è ottimizzazione commercializzazione”.
Lo sviluppo dei Mof risale alla fine degli anni Novanta. A cosa lavora oggi?
“Già nel 2005, con il mio team, abbiamo inventato i Cof, i framework organici covalenti. E questi materiali si sono rivelarti essere i migliori in assoluto nella cattura della CO2. Stiamo cercando di renderli meno costosi e di industrializzare il processo in modo da passare da alcuni chili di CO2 catturata a molte tonnellate. Siamo sulla buona strada”.
Una strada iniziata sessanta anni fa ad Amman…
“Sì, è lì che sono nato, cresciuto e mi sono innamorato della chimica all’età di dieci anni”.
Come si è trasferito negli Stati Uniti?
“Fu mio padre a incoraggiarmi. L’aveva fatto anche con i fratelli maggiori, e in effetti uno di loro già viveva negli Usa. Lo raggiunsi, ma dopo il primo anno dovetti trovare lavoro in un supermercato per mantenermi. Non ho frequentato la high school, ma un community college (una alternativa economica alle università e alle scuole professionali private, ndr). Ero il più piccolo della classe”.
Con queste premesse, come ha fatto ad arrivare al Nobel?
“Le avversità dell’ambiente circostante non mi hanno fermato. Mi è stato insegnato che se lavori duro sarai valutato per il tuo lavoro. Quando negli Usa me ne è stata data l’opportunità, ho passato così tanto tempo in laboratorio: era impossibile portarmi via da lì. Penso che sia stata proprio questa passione a permettermi di sopravvivere ai tanti fallimenti e di affrontare comunque grandi sfide. Come creare i Mof: all’epoca tutti pensavano che fosse impossibile realizzarli”.
Come vive le sue origini palestinesi?
“I media mondiali hanno alimentato un equivoco e vorrei che Green&Blue e Repubblica mi aiutasse a chiarirlo. In molti resoconti giornalistici è stato detto che sono originario di Gaza, lo riporta anche Wikipedia. E’ sbagliato: la mia famiglia viveva nella ‘vecchia Palestina’, in una città che si chiamava Masmiya, tra Giaffa e Gerusalemme. Poi si sono trasferiti in Giordania nel 1948, con la nascita di Israele. Sono orgoglioso delle mie origini palestinesi, della mia famiglia, dell’essere nato e cresciuto in Giordania, della cittadinanza onoraria saudita, dell’essere un cittadino statunitense”.
La sua storia può essere di incoraggiamento per il tanti bambini palestinesi che hanno sofferto in questi anni di conflitto? “Avere una infanzia molto faticosa, può produrre grande determinazione. Da bambino per frequentare la scuola dovevo camminare tre chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. E se pioveva stavo con i vestiti bagnati in classe tutto il tempo. Ma considero comunque la mia una vita benedetta”.

