“La guerra è la forma più odiosa di inquinamento”. La frase non è di un leader politico di oggi, ma di Olof Palme primo ministro svedese quando, insieme al segretario delle Nazioni Unite Kurt Waldheim inaugurava la prima Conferenza Onu sull’Ambiente. Era il 1972. Si tenne a Stoccolma, la città che decenni più tardi vide una ragazza di 15 anni, Greta Thunberg, incatenarsi davanti al Parlamento e diventare leader del movimento ambientalista internazionale Friday for Future. All’epoca di Palme e Waldheim però c’era ancora la Guerra Fredda e il conflitto in Vietnam con le devastanti conseguenze ambientali. Fu anche a causa di quelle immagini che per la prima volta 112 Stati e 44 organizzazioni decisero di riunirsi e discutere di ecologia, mentre i movimenti diedero vita a una contro conferenza, i Forum dell’ambiente.
Editoriale
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In realtà, di ambiente nel 1972 si parlò poco, ancora meno di clima. Pensata per rilanciare il ruolo delle Nazioni Unite, i lavori della Conferenza di Stoccolma naufragarono a causa dello scontro ideologico tra il blocco dell’Est e dell’Ovest complicato dalla crisi energetica. Bisognerà aspettare 23 anni, il 1995, per la prima Conferenza delle Parti (Cop) delle Nazioni Unite e veder riuniti gli Stati aderenti alla Convenzione sui cambiamenti climatici. Passando per il Protocollo di Montreal (1987) che sancì la scoperta del buco dell’ozono sopra l’Antartide e la prima Conferenza mondiale sui cambiamenti atmosferici di Toronto (1988) con la nascita dell’Ipcc il Gruppo Intergovernativo sul clima. Il primo report scientifico mostrò l’impatto dei gas serra. Un trattato sul clima non era più rinviabile. Obiettivi: ridurre le emissioni e l’uso delle risorse, definire impegni vincolanti per i Paesi industrializzati. Insomma, trovare un modo nuovo di vivere sulla Terra. La strada è tracciata: BerlinoNel 1995 a Berlino va in scena la prima Conferenza delle parti sul Clima della United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc). La Cop numero 1. E da quel momento le Cop scriveranno la storia della lotta al climate change, tra successi e fallimenti, pietre miliari e intese poco convincenti. I Paesi in quel 1995 elaborano il “Mandato di Berlino”, in cui si impegnano per la riduzione delle emissioni a partire dal 2000.Ma le difficoltà emergono già nel 1996 quando presidente di Cop2 è una giovane Angela Merkel: un teatro di scontri mentre esce il secondo rapporto Ipcc sul taglio delle emissioni. L’Europa spinge, Usa e Giappone no.
A Kyoto la prima sfida globale
È in Giappone con la Cop3 nel 1997 che viene adottato il primo impegno vincolante: il Protocollo di Kyoto. Entrerà in vigore solo nel 2005, ma 160 Paesi si impegnavano già a ridurre le emissioni di gas a effetto serra tra il 2008 e il 2012, di almeno il 5%. Per la prima volta le nazioni riconoscevano che il cambiamento climatico era un problema comune causato all’uomo. Vengono anche definiti i gas da “combattere” e parole come “neutralità climatica” e “decarbonizzazione” entrano nel dibattito pubblico. Sembra un punto di svolta, ma nel 2000 all’Aja, la Conferenza numero 6, molto attesa perché avrebbe dovuto dare concretezza proprio al Protocollo, viene sospesa a causa di un forte contrasto tra Ue e Usa: è la prima volta.
La road map per il futuro
Finalmente la Conferenza sul clima del 2005 a Montreal sancisce l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. Alla Cop11 si tenta anche di negoziare tagli più importanti alle emissioni, ma gli Usa si sfilano. Nasce comunque il Montreal Action Plan per estendere gli impegni oltre il 2012. Si tratta per creare la “mappa per il futuro”: tracciare una linea di continuità storica sui negoziati climatici. Si gettano le basi che porteranno a Parigi su finanza climatica e riscaldamento globale.
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La svolta a Parigi
L’accordo storico doveva essere raggiunto alla Cop15 a Copenaghen nel 2009, ma la conferenza fallì per le grandi divisioni. Si dovette ricominciare da zero e ci vollero sei anni per raggiungere nel 2015 a Parigi (Cop21) un accordo che ponesse l’obiettivo di rimanere “al di sotto dei 2 °C”, con raccomandazioni intorno a 1,5 °C come sostenuto dalla comunità scientifica. 196 Paesi firmarono il trattato fissando una revisione ogni 5 anni. In realtà l’Accordo nacque debole: gli obiettivi non erano vincolanti e il sistema di revisione avrebbe dovuto spingere un maggiore controllo. La realtà racconta un’altra storia.
“Ho 15 anni e sono svedese”
“Voi dite di amare i vostri figli, eppure gli state rubando il futuro”. È dicembre 2018 quando a Katowice. in Polonia, un’adolescente parla al summit sul clima Cop24. “Se avrò dei bambini forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”. È la prima apparizione internazionale di Greta Thunberg. Sarà il simbolo della mobilitazione giovanile per il clima. L’impatto mediatico globale è molto forte.
Il Patto per il clima
Un mondo sconvolto dalla pandemia, che ha mostrato quanto la crisi climatica non sia solo una questione ecologica ma di salute globale, assiste nel 2021 alla Cop26 a Glasgow, un mix di delusioni e passi avanti. Per la conferenza più importante dopo Parigi è un’occasione mancata. Soprattutto per la questione legata al carbone dove India e Cina riescono a far sostituire nel Patto per il clima la parola “fine” a “progressiva riduzione”. Stesso discorso per i sussidi ai combustibili fossili. Ci sono però passaggi importanti: la riduzione del 45% delle emissioni entro il 2030, mentre i diritti umani entrano nel meccanismo del “doppio conteggio”: la riduzione delle emissioni potrà essere conteggiata sia dal Paese che ha acquistato il credito, sia dove avviene l’effettiva riduzione. No invece ai 100 miliardi di dollari all’anno per i Paesi in via di sviluppo. Tutto rimandato.
Loss and Damage
Tra infinite discussioni a Sharm el-Sheikh nel 2022 (Cop27) viene istituto il fondo Loss and Damage destinato ai Paesi vulnerabili. Niente da fare per la messa al bando del carbone e dei sussidi alle fonti fossili. L’anno dopo a Dubai la Cop28 si inaugura tra polemiche, defezioni e boicotaggi. Nel Paese che produce milioni di barili di greggio la presidenza della Conferenza va a Sultan Ahmed Al-Jaber, Ceo della compagnia petrolifera statale. Punto debole anche della Cop29. A Baku presidente è Mukhtar Babayev, ministro dell’Ecologia e Risorse naturali dell’Azerbaigian, ex manager della compagnia petrolifera Socar. Eletto Trump che annuncia: gli Usa escono dall’Accordo di Parigi.
La Road map Baku-Belèm
Nata per rafforzare la cooperazione, la Road map Baku-Belém, promossa dalla presidenza azera e brasiliana, mira ad aumentare le risorse finanziarie destinate a sostenere lo sviluppo economico a basse emissioni e resilienti al clima dei Paesi più fragili. Obiettivo: mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Il Brasile spera di posizionarsi come leader della lotta al cambiamento climatico soprattutto in risposta al disinteresse degli Stati Uniti. Intanto però alcuni Paesi, tra cui lo stesso Brasile, ma anche India e Sudafrica, puntano il dito contro le politiche ambientali della Ue, responsabile secondo loro di aver posto restrizioni al libero commercio. Una controversia che rischia di piombare sulla Cop30 in Amazzonia. Ce la farà il presidente André Corrêa do Lago economista e diplomatico brasiliano a condurre i negoziati con successo? Il mondo ci spera.

