In un vecchio film di Woody Allen, “Io e Annie”, il giovane newyorchese Alvy Singer, terrorizzato dall’imminente fine dell’Universo in espansione, chiede a sua madre: “Mamma, perché devo fare i compiti, se il mondo sta per finire?”. La madre, con disarmante pragmatismo, gli risponde che “l’Universo si starà anche espandendo, ma Brooklyn no”, e che dunque è il caso di continuare a fare i compiti. Un aneddoto cinematografico che cattura perfettamente la paralisi che nasce di fronte a una minaccia percepita come totale e ineluttabile: proprio quello che sta accadendo oggi con il cosiddetto catastrofismo climatico, incarnato mediaticamente da figure come Greta Thunberg. I danni di questo approccio sono evidenti, soprattutto nello spirito dell’opinione pubblica occidentale, la più toccata dal fenomeno: da un lato si genera una quasi rassegnazione, un’inerzia, un chissenefrega di massa; dall’altro si alimenta l’idea di una battaglia disperata da combattere “tutti insieme” cavalcando il concetto di catastrofe perennemente imminente ma sempre rimandata di qualche decennio.
È ora di rinunciare definitivamente a entrambe queste idee. Il cambiamento climatico – termine già di per sé infelice, perché presuppone l’esistenza di un clima fisso che non è mai esistito, ragion per cui oggi si preferisce parlare di crisi climatica – è un tema eminentemente geopolitico. Normalmente lo si affronta e lo si discute come una questione globale, ma non lo è affatto. La crisi climatica non “cambia” il mondo solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto dal punto di vista di chi lo percepisce, a seconda dei soggetti e delle collettività interessate. L’unica ragione per cui lo si presenta come un problema globale è la consapevolezza, giusta ma vana, talvolta espressa talaltra implicita, che senza un impegno solidale di tutti o quasi tutti è impossibile immaginare una soluzione in tempi accettabili. Per rendersi conto che le cose stanno diversamente bisogna guardare ai dati. Dopo anni di battaglie per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, codificate anche nelle tanto grandiose quanto inutili assemblee delle Nazioni Unite note come COP, non solo le emissioni non sono diminuite, ma sono aumentate su una base recente di circa lo 0,8% ogni anno. Questo significa che l’obiettivo net-zero, proclamato dalla cosiddetta comunità internazionale, potrebbe essere raggiunto nel 2050 solo invertendo drasticamente la tendenza e raggiungendo un obiettivo annuo di riduzione delle emissioni del 4,8%, decisamente molto lontano. Se, invece, ci ponessimo un obiettivo più realistico – ma già difficilissimo – di una diminuzione dell’1% annuo, dovremmo attendere fino al 2160 per raggiungere la neutralità climatica. È difficile, per non dire impossibile, mobilitare qualsiasi comunità verso un traguardo così lontano nel tempo; figurarsi l’umanità intera.
La conclusione logica è netta: se continuiamo a combattere la battaglia per la crisi climatica come stiamo facendo oggi – cioè fingendo di combatterla – saremo destinati a perdere. Anzi, questa battaglia è già persa. Bisogna prendere atto della radice geopolitica del problema, che impedisce strutturalmente una strategia globale, e cambiare radicalmente strada. Occorre affiancare alla strategia per la riduzione dell’anidride carbonica quello che in gergo si definisce eco-adattamento: non dobbiamo interessarci tanto alla questione della riduzione delle emissioni (non perché non sia importante, ma perché non è possibile risolvere la crisi con questo approccio) quanto piuttosto guardare altrove. Non agire “a monte” ma “a valle”, cioè riducendo e contenendo gli effetti concreti (e molto diversi) che la crisi climatica provoca sui territori, lavorando sulla scorta delle esperienze passate. Per un Paese come l’Italia, dal territorio estremamente difficile sotto il profilo fisico, questo approccio si traduce in azioni urgenti e concrete. Pensiamo alle “bombe d’acqua”, o alle esondazioni di fiumi e torrenti: invece di discutere di percentuali di CO2 che non riusciamo ad abbattere, dovremmo lavorare sul corso dei fiumi, che in tempi moderni sono stati spesso rettificati per migliorare lo sfruttamento idroelettrico, alterandone l’equilibrio naturale. Ogni anno ci ritroviamo con gli stessi fiumi e gli stessi torrenti che producono gli stessi danni, mentre il dibattito resta sterile. Approccio controproducente.
Un caso emblematico è Venezia: si pensa che possa finire sott’acqua in qualche decennio, malgrado gli adattamenti progressivi come quello del Mose. Diversi studi indicano che l’innalzamento delle acque della laguna, a prescindere dalla stabilizzazione delle temperature, potrebbe continuare per secoli. La nostra possibilità di incidere su questi cambiamenti è limitata. A maggior ragione dovremmo subito mobilitarci per gestire le conseguenze. Ma questa mobilitazione deve essere effettiva, su scala locale e nazionale o di intesa fra alcune nazioni, concentrando interventi e ricerca per ottenere risultati visibili e ravvicinati. Purtroppo, a oggi non si vedono ancora, nel nostro Paese, strategie di adattamento del territorio.
Gli Stati Uniti e il fattore Artico
La ragione precipua per cui l’approccio “globale” non è quello giusto è che la crisi climatica non è uguale per tutti. Per alcuni rappresenta una formidabile opportunità strategica. L’Artico è l’esempio più lampante, tanto che l’amministrazione Trump ne ha fatto una priorità non solo militare, ma anche economica e tecnologica, nel quadro di un riposizionamento geopolitico che delimita un impero non più globale ma concentrato su una sfera d’influenza nordamericana, che dagli Stati Uniti si estende verso il Polo Nord, a partire dal Canada e dalla Groenlandia oltre che ai Paesi europei dell’Alleanza Atlantica. La ragione principale di questo riposizionamento sta nel fatto che la sfida con la Cina, per Trump, si gioca soprattutto sull’intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale ha bisogno di tanta energia e di tante risorse minerarie, alcune delle quali si trovano proprio nelle regioni appena citate, e soprattutto ha bisogno di acqua per raffreddare i data center.
Quella che viene annunciata dalla maggior parte dei climatologi come una catastrofe, la fusione dei ghiacci artici, è in realtà per gli Stati Uniti una grande opportunità di accesso a enormi riserve idriche, per combattere problemi ambientali gravissimi, come dimostrano la desertificazione e gli incendi che hanno devastato la California. In questo senso, il fattore Artico appare una risorsa fondamentale, ma c’è anche dell’altro. Se effettivamente entro qualche decennio si arrivasse a una fusione dei ghiacci tale da permettere il transito lungo la rotta artica, quella che dall’Estremo Oriente cinese e giapponese, via Russia, va verso l’Europa settentrionale e infine verso l’America (una versione superiore del leggendario passaggio a Nord-Ovest), si verrebbe a creare una nuova rotta commerciale che presto diventerebbe la principale del Pianeta. E una rotta artica transitabile, rispetto a quella mediterranea già oggi resa più complicata dalla vicenda del mar Rosso e degli Houthi, avrebbe due enormi vantaggi. Anzitutto il tempo: per coprire il percorso dall’Estremo Oriente all’America ci vorrebbero dieci giorni in meno; poi, di conseguenza, i costi, che sarebbero seriamente abbattuti.
La polemica
Trump cancella le informazioni sulla crisi climatica ma rilancia sulle scie chimiche
15 Luglio 2025
Per noi, l’effetto sarebbe la trasformazione del Mediterraneo, che già oggi è in realtà un “Medioceano”, nel senso che connette l’oceano Atlantico con quello Indo-Pacifico, in poco più di un grande lago salato, marginalizzato dal punto di vista commerciale. Potremmo continuare a farci il bagno, ma commerceremmo molto meno: un colpo durissimo per l’Italia, che non avendo accesso diretto agli oceani come Spagna, Francia e Germania, si vedrebbe “costretta” nel bacino del Mediterraneo, a sua volta costretto in una posizione minore rispetto all’Artico “liberato” dalla crisi climatica.
La Russia e il Sud Globale
Sempre in tema di effetti “positivi” della crisi climatica bisogna citare anche la Russia, che analogamente agli Stati Uniti vede nel riscaldamento climatico l’occasione di favorire la sua agricoltura, già molto sviluppata, “liberando” le immense terre siberiane per espandere ulteriormente la produzione di grano e cereali. A corroborare ulteriormente il fatto che la crisi climatica stia avendo un impatto molto diverso a seconda della diversa capacità dei singoli Paesi ad affrontarne le conseguenze, e delle relative risorse e opportunità, c’è poi la situazione, dall’altra parte della barricata, del Sud Globale. Paesi come l’India, il Brasile e (in parte) la Cina hanno ottenuto degli “sconti” in sede COP rispetto al raggiungimento del net zero (Cina al 2060, India al 2070): questi Paesi si ritengono in diritto di perseguire quello stesso sviluppo che i Paesi ex coloniali ed ex imperiali si sono permessi per secoli. In sostanza, la prospettiva di questi due “blocchi” è opposta.
E questa divisione si basa anche sulla responsabilità storica: secondo calcoli orientati dai Paesi del Sud Globale, che tengono conto non solo dello scenario di emissioni attuale ma anche di quello pregresso, gli Stati Uniti sono responsabili del 25% delle emissioni “storiche”, l’Unione Europea del 22%, la Cina del 12,7%, l’India e il Brasile appena del 3% e dello 0,9%, rispettivamente. In sostanza, chi detiene capitali e tecnologie per le energie rinnovabili chiede a chi è in condizioni disperate, e ha inquinato meno, di rinunciare alla crescita. Questo che fa scattare l’accusa di “apartheid climatico”. Surreale, specie se si tiene conto che nel frattempo gli Stati Uniti, a suon di “drill, baby drill” (motto esaltato da Trump ma seguito anche dalle amministrazioni precedenti), stanno puntando sullo sviluppo di ogni forma di energia domestica, inclusi gli idrocarburi e il gas, eventualmente estratti con la traumatica tecnica del fracking, e causando danni ambientali immediati come dimostra per esempio il progressivo esaurimento del fiume Colorado, che sta cambiando l’intero ecosistema dell’America occidentale.
Il summit
Alla Conferenza di Bonn nessun accordo sulla finanza climatica. In attesa della Cop30
27 Giugno 2025
Le promesse dei Paesi ricchi
Infine, qualche considerazione economica. Oggi quasi la metà dell’umanità, circa 3 miliardi di persone, è particolarmente vulnerabile agli effetti della crisi climatica. Queste persone sono soprattutto concentrate in Africa, Medio Oriente e Sud-est asiatico. Per affrontare la crisi in queste aree servirebbero 9 mila miliardi di dollari entro il 2030 e altri 10mila tra il 2031 e il 2050. Ma i capitali sono altrove: l’84% dei fondi per la battaglia climatica è concentrato in Asia orientale, Nord America ed Europa; la Cina, da sola, stanzia il 51% dei finanziamenti per l’adattamento, primato mondiale. Le promesse che i Paesi ricchi hanno fatto a quelli poveri – 300 miliardi, stando a quanto emerso nell’ultima COP – sono briciole rispetto ai fondi necessari. E tra l’altro, visti i precedenti, molto probabilmente saranno elargiti solo in minima parte.
La strada da percorrere, dunque, è un’altra. È fondamentale passare dalla retorica ai fatti, ma soprattutto dalla battaglia persa sulla riduzione delle emissioni – persa perché non si può vincere, non perché non sia importante – a quella, se non vincibile ma quantomeno gestibile, della cura delle conseguenze per i luoghi che abitiamo. In questo senso, una speranza sta arrivando dalla tecnologia. E, ancora una volta, la Cina sarà protagonista: in Cina si stanno sviluppando tecnologie che permettono di contrastare gli effetti negativi del clima sul territorio, estendendo per esempio le aree coltivabili in zone desertiche. La strategia, insomma, dovrebbe puntare su interventi mirati, strategie concrete ed efficaci, contando su nuove tecnologie. Sempre che ci salvino davvero.