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Quel grido di dolore degli Stati insulari destinati a scomparire

Tra gli oltre 190 Paesi che si riuniranno alla Cop30 c’è una serie di Stati che non lotta solo per adattarsi al nuovo clima, ma direttamente per evitare di scomparire per sempre. Dal 1900 ad oggi il livello medio dell’innalzamento del mare è stato di 1,5 millimetri all’anno: alcuni popoli dell’entroterra risentono solo marginalmente di questo cambiamento ma per le piccole nazioni insulari è un impatto devastante, la più grande sfida che hanno davanti. E così il paradiso delle Maldive, per esempio, sta diventando un inferno dato che l’80% delle sue isole è a meno di 1 metro sopra il livello del mare e anche un minimo innalzamento significa salinizzazione dei terreni e perdita della possibilità di coltivare, oppure erosione costiera o inquinamento delle fonti d’acqua. Qui, entro la fine del secolo, il livello alle attuali tendenze aumenterà di quasi 7 centimetri: gran parte delle Maldive sarà dunque inabitabile.

North Tarawi a Kiribati, una delle isole a rischio (foto: Josh Haner / The New York Times) 

Lo stesso vale per Kiribati dove il punto più alto dove “rifugiarsi” è di appena quattro metri. Nelle Isole Salomone in 70 anni almeno cinque isole sono già finite sott’acqua e altre sei hanno perso oltre un quarto della superficie costringendo le persone a spostarsi. Se il mare crescerà di un metro nelle isole Marshall quasi la metà degli edifici di Majuro, la capitale, finirà in parte sott’acqua. Non va meglio a Vanuatu, già alle prese con insicurezza alimentare a causa dell’innalzamento, oppure a Tuvalu, arcipelago diventato simbolo di come la crisi del clima sta trasformando la vita dei suoi quasi 11mila abitanti. Le proiezioni ci dicono infatti che Tuvalu, in meno di 30 anni, potrebbe essere uno dei primi Paesi a iniziare letteralmente a scomparire e a fine secolo è improbabile che esisterà ancora.

Non a caso, a Cop26, i politici dell’isola fecero un simbolico appello – per un’azione globale contro il riscaldamento – direttamente immersi nell’acqua con il mare che arrivava loro alla cinta. La crisi di Tuvalu e di altre isole del Pacifico è talmente evidente che, di recente, sta nascendo anche una nuova forma di aiuti e accordi internazionali: l’idea di creare visti per rifugiati climatici in modo che le persone, emigrando in Australia, possano salvarsi. Già 3000 cittadini di Tuvalu, quasi un terzo degli abitanti, hanno fatto richiesta di visto. L’idea di nuovi percorsi legali e diplomatici per permettere migrazioni necessarie alle isole minacciate dal clima sarà una questione centrale anche a Cop30, tenendo conto che per l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ormai ogni anno 50mila abitanti delle isole del Pacifico corrono il rischio concreto di dover essere sfollati a causa di impatti climatici che includono l’innalzamento e i fenomeni meteo estremi.

Ma gli abitanti di Tuvalu, dove il mare cresce di 5 millimetri, lottano per preservare la loro identità e cultura e sperano ancora di adattarsi per non fuggire: per riuscirci però servono fondi internazionali, dighe protettive per i terreni agricoli, infrastrutture come palafitte, impianti di desalinizzazione. Siccome le piccole isole in via di sviluppo sono quelle che sperimentano quotidianamente l’emergenza, oggi sono anche fra le più impegnate a sviluppare sia le energie rinnovabili sia i Piani climatici (Ndc): loro, isole che messe insieme rappresentano meno dell’1% delle emissioni, stanno dunque facendo i compiti, mentre le grandi realtà industrializzate (Europa compresa) o sono in ritardo o si sfilano. Per questo, a Cop30, il grido di aiuto delle isole sarà proprio un appello alla responsabilità dei Paesi più ricchi.

Majuro, Isole Marshall (foto: Josh Haner / The New York Times) 

Maina Talia, il ministro dell’Ambiente di Tuvalu, lo ha detto bene anche davanti all’Onu: “Non possiamo più rimandare, i finanziamenti per il clima sono necessari per la nostra sopravvivenza. Ne abbiamo bisogno ora”. Proprio a Belém Tuvalu, insieme ad altri, si farà quindi portavoce delle istanze dell’Alleanza dei piccoli stati insulari (Aosis) e delle piccole isole in via di sviluppo (Sids) per ricordare ai potenti che “se salviamo le isole, salviamo il mondo. L’obiettivo di restare entro i +1,5 gradi è fondamentale ma per centrarlo i Paesi più sviluppati dovranno essere più ambiziosi”.

La morìa dei coralli, a causa dello sbiancamento, alle Maldive (foto: Jason Gulley / The New York Times) 

Il livello del mare infatti non è il solo emblema del cambiamento in atto: se si osserva la perdita delle barriere coralline delle isole, arrivate a “un punto di non ritorno”, ma anche l’intensificazione di uragani ed eventi estremi che stravolgono le vite, è chiaro come le realtà insulari siano il perfetto esempio di cosa accadrà al Pianeta in un futuro prossimo. Finora, al netto di tanti annunci fatti durante le Cop, questi Paesi sono stati poco ascoltati. In Brasile, per la prima volta, ci sarà però una forte partecipazione dei popoli tradizionali dell’Amazzonia, per cui la speranza è che ci sia più voce per gli indigeni, compresi quelli delle isole oceaniche anche se molti non riusciranno a raggiungere Belém. Consapevoli di ciò, la speranza degli isolani è di avere una grande chance il prossimo anno, quando la Cop31 potrebbe svolgersi in Australia, con eventi anche sulle isole del Pacifico. Sarebbe, dicono, davvero importante per riuscire a far aprire gli occhi del mondo puntati sulle nazioni in crisi, prima che scompaiano per sempre.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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