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Paolo Giordano: “Noi, nel tempo delle crisi”

LUCCA – Verrebbe facile definire Paolo Giordano un inviato nelle zone di crisi. Ma non è così, lui stesso tiene a specificare: “‘Mi interessa andare nei posti per comprendere la mia mutata percezione degli eventi. A differenza di un giornalista inviato, io vado per capire me stesso”.

La verità sulle guerre

Dietro ai suoi reportage dall’Ucraina c’è tutta l’urgenza di comprendere meglio il mondo là dove qualcosa si è spezzato. Nella Chiesa di San Francesco, ospite a Lucca del Pianeta Terra Festival dedicato quest’anno ai “Sistemi instabili”, Paolo Giordano ha scelto di raccontare la sua inclinazione per il tragico, l’incombente. Sulla instabilità Giordano, che dal Covid-19 (narrato nel saggio Nel Contagio, Einaudi, 2020) fino ai territori occupati di Gaza raggiunti un mese e mezzo dopo il massacro del 7 ottobre 2023, come scrittore ha dato voce alle crisi più buie degli ultimi anni, ha molto da raccontare.

Giordano è autore di diversi romanzi, tra cui La solitudine dei numeri primi (Mondadori, 2016) e il più recente Tasmania (Einaudi, 2022). “In alcuni scrittori c’è una ricerca del dolore.”, – spiega dal palco dialogando con Stefano Catucci. – “Ma quel che accade più spesso nella vita di uno scrittore è che a un certo punto si ha bisogno di materiale umano, perché la scrittura è un’attività estremamente estrattiva. Il mio è stato un processo graduale, che mi ha portato a guardare fuori, perdendo via via interesse nella mia biografia per andare lontano. Poi, c’è da considerare un altro aspetto legato al presente, ossia quel giornalismo diffuso che negli ultimi dieci anni abbiamo scoperto non essere più affidabile e sufficiente. D’altra parte, il livello di pervasività che è stato raggiunto dalle tecnologie portabili ci obbliga a un bisogno profondo di verificare quanto di questa realtà che abbiamo sempre in tasca sia vero. E oggi, con due guerre così lunghe e complesse, siamo obbligati a riscoprire la testimonianza autorevole, diretta, per poter capire meglio i fatti. Da questa distanza tra il reale e la sua rappresentazione è nato il mio bisogno di andare, di disintermediare”. Oggi Gaza ha reso questa urgenza una necessità ineludibile.

Lo scrittore con Stefano Catucci nella chiesa di San Francesco di Lucca 

La distanza intollerabile tra il reale e l’irreale

Paolo Giordano incarna i dubbi della società civile di fronte agli orrori dei conflitti che sembrano non avere mai fine, né un senso lo hanno mai avuto. “Nel primo anno di guerra il passaggio della frontiera tra la Polonia e l’Ucraina che si faceva a piedi già restituiva tutto il senso di questo distacco enorme tra due realtà differenti. Quasi a rendere diversa anche la densità dell’aria”. Quella differenza intollerabile che prova un osservatore nella consapevolezza che può andar via quando vuole, lasciandosi alle spalle in poco tempo l’assurdo rischio di morire da un momento all’altro che vale solo per chi resta. “Lo scarto tra la realtà e l’irreale vissuto attraverso la guerra diventa allora intollerabile, se si ha un certo tipo di sensibilità,” – spiega Giordano – ”che porta alla necessità di agire, in qualche modo, come accaduto negli ultimi tempi per Gaza”.

Così la pandemia ci ha cambiato

“Il Covid per primo nel 2020 ha contribuito a generare un pensiero dirompente su questa dimensione di crisi”. Durante la pandemia Paolo Giordano, che prima di scrivere romanzi e reportage si è specializzato in fisica teorica delle particelle, ha deciso che i dati dei contagi non erano sufficienti per capire l’impatto di una crisi sanitaria di portata globale ed è andato a raccogliere i suoni e le voci, oltre al respiro, di chi l’ha attraversata. Lo ha raccontato in un podcast di Chora Media in quattro episodi, “Ossigeno”, “su come solo l’incontro fra pensiero scientifico e umanista può sconfiggere l’apnea che stiamo vivendo”. Il problema che si è posto Giordano era lo stesso che ha stravolto le vite di ognuno di noi: comprendere l’epidemia nella sua complessità.

Lo sguardo perduto

“Con il dottorato in fenomenologia del mesone, dopo tre anni di simulazione su quel decadimento, mi sono reso conto che da studioso non riuscivo più a condividere i miei risultati con colleghi con i quali avevo condiviso un percorso per cinque anni. Oggi abbiamo raggiunto un tale livello di specializzazione nelle discipline scientifiche così come nelle umanistiche, che le nostre conoscenze si sono capillarizzate. E questo ci ha fatto perdere la dimensione olistica dei saperi. “La pandemia è stato un esempio perfetto di mancanza di visione d’insieme di tutte le discipline. Mentre i biologi ci spiegavano nel dettaglio la vitalità della malattia, l’informazione e le istituzioni si sono aggrappati a dati e statistiche, finendo per trascurare altri aspetti fondamentali collegati all’epidemia e arrivando così a trasmettere alla gente una sensazione di schiacciamento, di imposizione dall’alto. Una sorta di timelapse che ritroviamo ne “La peste” di Albert Camus. Dove il paziente zero è il portiere del palazzo che raccoglie i topi morti a grappoli. Anche per il Covid, la caccia al paziente zero era diventata inesauribile, come se la ricerca del bandolo potesse risolvere tutto”.

Le stelle che non vediamo più

La rapidità non è la sola caratteristica di questi tempi instabili. “Ci siamo molto rapidamente abituati a non vedere il cielo di notte.” – riflette Giordano – “Pur avendo vissuto da sempre in un’epoca iper-industrializzata ed essendo relativamente giovane, ho fatto in tempo a ricordare quel che vedevo di notte e che non vedo più, abituato come tutti ormai anche al disturbo visuale dei satelliti che ci circondano nello Spazio. Ci dobbiamo preoccupare di questo? Beh, se in due decenni quel che vediamo è ben diverso dal cielo così come è stato osservato per millenni, allora forse possiamo almeno chiederci se non è rilevante. Il nostro sguardo ormai è ad altezza uomo e questa riduzione della nostra visuale pone nuovi interrogativi filosofici. Ne troviamo traccia nel romanzo illuminante di Samantha Harvey, Orbital (NN Editore, 2025) che racconta un giorno sulla Stazione spaziale internazionale con gli astronauti mentre osservano la Terra da lontano. Una “pastorale” struggente, una lettera d’amore per il pianeta”.

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Tornando alla guerra, la visione è di nuovo buia. “Un mese e mezzo dopo il 7 ottobre ero a Gaza e nonostante le dimensioni della guerra non fossero quelle di oggi (nei numeri e nella percezione) era già chiara la piega che avrebbe preso l’occupazione dei territori da parte di Israele. Quel che non avevo immaginato era la durata di questo conflitto e il concetto di “non freno” che l’attacco avrebbe poi assunto. L’immaginario che mi ha portato lì non era il conflitto, già noto da anni al resto del mondo, ma l’elemento letterario: l’immagine di quel rave nel deserto, ai limiti di un territorio piccolo come la Toscana e tutto quello che ha scatenato dopo”.

“Noi, nel tempo delle crisi”

Questo desiderio impellente di rincorrere l’instabilità, per comprenderne le cause, in Paolo Giordano diventa anche certezza dei propri limiti. “Uno degli slogan che mi affascinava durante la pandemia era ‘torneremo ad abbracciarci’, quel proiettarci invincibile tendendo alla normalizzazione a tutti i costi, per poter tornare a un’idea di mondo tranquillizzante che viviamo in tempi di crisi. Come una negazione disperata del punto di rottura, dopo il quale sappiamo bene in realtà che niente potrà tornare come prima”.

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