Accompagnata dal ruggito dei motori, una portacontainer attraversa il Mediterraneo lasciando dietro di sé fumi inquinanti, che contribuiscono all’acidificazione degli oceani e al riscaldamento globale. Oggi il trasporto marittimo è, infatti, responsabile di circa il 2-3% delle emissioni di gas serra, una percentuale da ridurre con urgenza. A cimentarsi in questo ambizioso obiettivo sono due giovani scienziate: Alisha Fredriksson, laureata in business e scienze ambientali alla Minerva University, e Roujia Wen, con una laurea all’Università di Cambridge, nel Regno Unito, cui è seguito un master in fisica teorica. Insieme hanno fondato nel 2021, a Londra, la startup Seabound, ricoprendo rispettivamente i ruoli di amministratore delegato e di consulente tecnica.
All’interno dell’azienda si è sviluppato il sistema chiamato Onboard Carbon Capture, una tecnologia basata sul principio del calcium looping, cioè su un ciclo chimico di assorbimento e rigenerazione del carbonio.
Come funziona il sistema
In pratica, i vapori di combustione prodotti dal motore della nave vengono convogliati in un contenitore riempito di piccole pietre bianche di calce viva, che reagiscono con l’anidride carbonica presente negli scarichi trasformandola in calcare, una sostanza solida sotto forma di minuscoli sassolini, facilmente stivabili a bordo.
Al termine del viaggio, questi ultimi vengono scaricati in porto e inviati a forni alimentati con energia rinnovabile, dove vengono riscaldati per liberare biossido di carbonio puro, destinato allo stoccaggio o allo sviluppo di carburanti sintetici (e-fuel). In questo processo, il materiale reagente si rigenera e può essere riutilizzato durante la navigazione, chiudendo così il ciclo – il cosiddetto loop – che dà il nome al modello.
Risultati positivi
L’idea ha portato, nel giro di un paio di anni, ai primi prototipi e alle prove in mare nel 2023 e nel 2024 su navi commerciali della compagnia Lomar. Nel corso dei test, la tecnologia ha catturato circa il 78% di anidride carbonica e oltre il 90% di ossidi di zolfo. A seconda dello spazio disponibile sull’imbarcazione, dei flussi di scarico e del numero di contenitori installati, la percentuale di assorbimento può variare tra il 25 e il 95%.
Soluzioni analoghe già sperimentate da altre società hanno ottenuto risultati inferiori: un altro sistema ha, per esempio, mostrato rendimenti di circa il 40%, mentre alcuni prototipi cinesi hanno raggiunto quota 86% in sperimentazioni specifiche.
Tra sviluppi futuri e limiti
Ora l’impresa sta collaborando con Heidelberg Materials, una delle maggiori aziende al mondo nella produzione di materiali da costruzione, nel suo stabilimento di Brevik, in Norvegia, per utilizzare il calcare generato sulle navi come materia prima nella fabbricazione di cemento. Un altro obiettivo è la realizzazione di calce green, dato che quella tradizionale comporta emissioni di biossido di carbonio.
La tecnologia messa a punto dalle scienziate è, inoltre, oggetto di ricerca in altri settori industriali, come produzione di energia elettrica, lavorazione dell’acciaio, impianti che accumulano calore per riutilizzarlo.
Tuttavia, al pari di tutti i dispositivi di cattura del carbonio, anche questo presenta alcune criticità. Anzitutto i contenitori occupano spazio a bordo e la rigenerazione della calce richiede energia. Poi, la gestione logistica di carico e scarico deve essere coordinata con le operazioni portuali. Infine, la calce tende a perdere capacità di assorbimento dopo diversi cicli e deve essere periodicamente sostituita o rigenerata. Il sistema, dunque, non sostituisce i carburanti a zero emissioni, ma offre semmai una soluzione di transizione finalizzata a ridurre fin da subito l’impatto delle flotte in attività.

