“In Italia sono state censite 650 mila frane, due terzi del numero complessivo europeo: questo è un Paese fragile, per morfologia, e la presenza di 50 bacini idrici, con 370 corsi d’acqua minori, rappresenta un costante, potenziale rischio di inondazione per 650 mila cittadini. Non ci sono, complici gli effetti del cambiamento climatico, aree a rischio zero. Per questo, i nostri due nuovi Pai (acronimo di Piano per l’Assetto Idrogeologico) rappresentano una svolta epocale”. Marco Casini è il segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale (Aubac), ente pubblico responsabile della programmazione e della pianificazione territoriale per la gestione del rischio idrogeologico, la gestione e la tutela delle risorse idriche, la difesa delle coste, l’uso sostenibile del suolo dell’Italia centrale per una superficie complessiva di oltre 42 mila chilometri quadrati, 49 bacini idrografici limitrofi, incluse le rispettive acque sotterranee e costiere, all’interno delle regioni Abruzzo, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Molise, Toscana e Umbria.
L’iter dei due Pai (Piano di assetto idrogeologico), quello idraulico e quello ad hoc per le frane, è ampiamente avviato: i testi, pubblicati sulla Gazzetta ufficiale e realizzati con rilievi digitali avanzati, intelligenza artificiale e modelli idraulici e cartografie open source, sono aperti alle osservazioni pubbliche e oggetto delle conferenze regionali programmatiche. L’approvazione definitiva è prevista entro febbraio.
Casini, perché parla di svolta epocale? Cosa cambierà per il territorio?
“Questi strumenti sostituiscono di fatto i precedenti Pai locali, uniformando regole e procedure: erano strumenti anacronistici che necessitavano un aggiornamento ma soprattutto configuravano un approccio differente per un problema comune. Abbiamo finalmente criteri unici per classificazione delle aree a rischio, E poi c’è un tema fondamentale: il rischio è cambiato”.
Perché più frequenti e intensi sono i fenomeni climatici estremi.
“Esatto. Ma in generale perché le mappe non fotografavano più l’attuale situazione del territorio. I nuovi piani, che sono aggiornati e continueranno a esserlo, senza soluzione di continuità, consentono una gestione intelligente del territorio, indicando se e dove si può costruire attraverso prescrizioni chiare per l’uso del suolo. E, non ultimo, favoriscono una pianificazione integrata delle opere di difesa e mitigazione, che prescinda dalle strategie dei singoli Comuni”.
Il rischio principale è quello delle alluvioni: come viene letta la pericolosità?
“Attraverso il cosiddetto tempo di ritorno stimato di un fenomeno alluvionale. Le nostre mappe prevedono il rischio: ci dicono dove può arrivare una grande quantità di acqua, e dunque non è intelligente prevedere interventi di natura edilizia. Diventano strumento essenziale per leggere il territorio, senza per questo ingessarlo. Nell’area dell’Appenino centrale vivono 9 milioni di abitanti: di questi, 1 milione e 300 mila convivono con situazioni di potenziale pericolo”.
Come si mitigherà il rischio?
“Con interventi di messa in sicurezza del territorio, con la creazione di argini intorno ai fiumi, con un lavoro di prevenzione che la crescente antropizzazione e i cambiamenti climatici rendono oggi indispensabile e che richiedeva una conoscenza del territorio il più dettagliata possibile, regole chiare e uniformi e un quadro integrato che attraversa più realtà amministrative, scongiurando il rischio di opere a macchia di leopardo”.
Nell’interesse anche dei privati.
“Certo. Accelerare gli interventi di difesa del territorio, attraverso l’accesso a fondi strutturali previsti, è interesse delle comunità, delle imprese, del territorio. Oggi, con questi nuovi strumenti, siamo in grado di indicare al singolo cittadino il livello di pericolosità e di rischi dell’area in cui si trova, o di quella in cui intende investire”.
Ci indica un’area su cui state intervenendo?
“La Valle del Nera, in Umbria: con fondi Fsc abbiamo avviato lavori importanti di messa in sicurezza idraulica con arginature, casse di colmata e una riprofilatura dell’alveo che consenta di ridimensionare il rischio di esondazione”.
Bisogna aspettarsi un incremento generale, in Italia, dei fenomeni di esondazione?
“Il vero problema non sono, spesso, i corsi d’acqua principale ma gli affluenti, piccoli e privi di interventi di manutenzione, con una percentuale elevata di costruito intorno. Posto che tutti i corsi d’acqua presentano potenziali aree di pericolosità, amplificate dall’antropizzazione, direi che il nostro cosiddetto reticolo secondario è oggi il problema maggiore”.
Quali sono le aree più a rischio nell’Italia centrale?
“La crisi climatica, da quanto osserviamo, ci suggerisce di monitorare il rischio alluvionale nelle Marche, dove gli eventi cosiddetti notevoli di pioggia sono aumentati del 40% negli ultimi anni, e quello franoso nell’Abruzzo, per via della sua peculiare morfologia. Vanno inoltre considerati gli effetti diretti e indiretti degli eventi sismici negli ultimi anni, con danni strutturali al sistema di approvvigionamento naturale delle acque, come accaduto nelle Marche, vicino ad Ascoli Piceno. Perché il territorio risponde a tutte le sollecitazioni: conoscerlo meglio aiuterà a prevenire i rischi, mitigandoli”.