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Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

BELEM (BRASILE) – La parola chiave della Cop30, la trentesima conferenza delle parti sul clima che inizia ufficialmente oggi a Belém in Brasile, è “pressione”. Mai, nella storia di questi vertici, c’è stata così tanta pressione su un sistema di multilateralismo – quello dove in teoria oltre 190 Paesi hanno lo stesso voto e peso nel decidere su come affrontare la crisi climatica – che potrebbe o uscirne finalmente rafforzato o giungere definitivamente al capolinea. Il perché è evidente. Questa Cop, quella della “verità” la definisce il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, arriva in un contesto preciso: siamo a 10 anni dall’Accordo di Parigi che, dati alla mano, difficilmente sarà rispettato. L’accordo prevedeva sforzi e impegni delle nazioni del mondo a rimanere sotto i +1,5 °C nel tempo. Nel 2025, dopo una serie di anni “più caldi della storia” uno dietro l’altro, siamo però già oltre quella soglia e le attuali proiezioni – se ci basiamo sui piani climatici (Ndc) annunciati dai vari Paesi – ci dicono che ridurremo le emissioni di appena il 10% rispetto al 60% necessario e a fine secolo rischiamo di ritrovarci a +2,5 gradi, il che vorrebbe dire bye bye a ecosistemi come l’Amazzonia, ai ghiacciai della Groenlandia o piogge e temperature miti del passato, perché tutto sarà intensificato e tendente – soprattutto nei “punti di non ritorno” – al collasso.

Ci sono diversi tipi di pressione in questa Cop. C’è quella del tempo che scarseggia: sia per completare i lavori dei padiglioni (a 24 ore da inizio conferenza sono ancora in alto mare) sia per ottenere decisioni che non siano solo parole, ma fatti concreti. Va indicato per esempio il sistema con cui tirare fuori 1,3 trilioni di dollari all’anno per i Paesi meno sviluppati che senza quei soldi rischiano di non riuscire ad affrontare la crisi del clima. Servono, parola d’ordine, anche più soldi per l’adattamento. Bisognerà poi validare e confermare l’ampliamento dei piani climatici nazionali, trovare accordi per fornire fondi alle popolazioni indigene e per ridurre disuguaglianze climatiche e sociali, ma anche per esempio provare ad affrontare di petto la vera causa del riscaldamento globale, le emissioni di gas petrolio e carbone, quelle che per ora a parte per Paesi come la Colombia e pochi altri, che chiedono una immediata decarbonizzazione, sembrano essere uno dei grandi elefanti nella stanza.

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L’altro grande elefante è ovviamente Donald Trump, motivo di estrema pressione. Il presidente degli Stati Uniti non solo ha ritirato gli Usa dagli Accordi di Parigi e a poche settimane dalla Cop30 ha definito il surriscaldamento globale “una grande truffa” ma – puntando sempre di più su trivellazioni, deep mining e aumento dei combustibili fossili (mentre affossa le rinnovabili) – sembra anche voler boicottare concretamente la Cop30, dove gli Usa sono appunto assenti se non per la rappresentanza di qualche sindaco o governatore.

Nei corridoi della Cop che sta per iniziare (si parte alle 10 del mattino con la plenaria di apertura) c’è infatti una strana sensazione: quella che lo spettro di Trump, con le sue minacce e pressioni, si concretizzi all’improvviso. Prima della Conferenza gli Stati Uniti sono riusciti, con pressioni commerciali e minacce di sanzioni, a far posticipare di un anno il piano per la decarbonizzazione dei trasporti e delle emissioni marittime chiamato IMO Net-Zero Framework. Grazie alla pressione a stelle e strisce si è arrivati a rinviare di 365 giorni il voto e questa semplice mossa è apparsa come un primo segnale della potenza Usa nel destabilizzare accordi e multilateralismo. Nel frattempo, alla vigilia del vertice, Trump si è messo a scrivere sui social e se l’è presa con il Brasile di Lula che per fare la Cop “deforesta” l’Amazzonia, dice. Questi e altri messaggi fanno pensare ai delegati che il governo Usa possa, nel solo tentativo di far “crollare il castello”, inviare all’improvviso delegati a Belem. Insomma, c’è la sensazione che Trump intenda boicottare, a distanza o meno, possibili accordi per esempio legati al mondo del fossile (che sarà comunque ben rappresentato qui a Belém da centinaia di lobbisti).

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Ad aumentare la pressione c’è poi ovviamente il contesto geopolitico internazionale che, già da anni, ha visto le Cop scivolare lontano dai riflettori. Il ministro italiano dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, atteso a Belém, lo ha proprio detto: “Le aspettative non sono molto alte perché negli ultimi anni l’equilibrio globale è cambiato in modo significativo, con conflitti su più fronti e la formazione di blocchi”. Nella polarizzazione di tutto, tra Paesi che sembrano schierarsi radicalmente contro gli Usa e altri che li appoggiano (vedi Argentina), aumenta dunque la pressione per quella che deve a tutti costi essere una Cop concreta, pragmatica, di risultati e annunci finali quantificabili e realizzabili. Infine, elemento non da poco, a Belém torna la pressione anche da parte della società civile. Dopo tre anni di Cop dal dissenso negato viste le sedi nei petrol-stati, torneranno ad esserci proteste, manifestazione, persone che alzano la voce.

Già alla vigilia del vertice Belém è apparsa improvvisamente cambiata: nelle strade della città sono arrivati, dopo un lunghissimo viaggio intrapreso da ogni parte del Brasile e dell’America Latina, i rappresentanti dei popoli tradizionali che hanno dato vita alla “flotilla indigena”, il viaggio con direzione Cop30 per portare un messaggio e una richiesta di maggior potere alle soluzioni naturali, quelle di cui i popoli originari sono i grandi custodi. Chi custodisce la natura e la sta vedendo cambiare – proprio come avviene anche in queste ultime ore con tifoni e uragani distruttivi dalla Giamaica fino alle Filippine – vuole essere ascoltato e partecipare al processo della transizione energetica ed ecologica. Partecipare attivamente, con risposte concrete: non a caso andrà in scena il Vertice dei Popoli che si terrà all’Università Federale del Pará e prevede la partecipazione addirittura di 15.000 persone e 546 organizzazioni nazionali e internazionali.

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La presenza di migliaia di attivisti, giunti anche dall’Europa, sarà quindi motivo per tenere alta la pressione nei confronti della richiesta fatta dallo stesso Brasile: fare sì che questa Cop venga ricordata come quella dell’azione, quella in cui anziché fare nuove promesse si concretizzino gli impegni presi in passato. Uno di questi impegni ha un nome, si chiama “transition away”, la fuoriuscita graduale dalle fonti fossili, l’accordo preso due anni fa a Dubai durante la Cop28. Riusciranno dunque i Paesi a trovare sotto pressione – nel Brasile che strizza l’occhio al petrolio – una formula per far diventare operativa questa promessa? Per scoprirlo osserveremo lo sviluppo dei negoziati da oggi fino al 21 novembre, ultimo giorno, in teoria, della Cop30, anche se nessuno vista la posta in palio scommette su una risoluzione in tempi brevi.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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