in

Carbon credit, la grande illusione: “Non riducono il riscaldamento globale”

Altro che crediti di carbonio. Il meccanismo “premiale” usato da aziende e governi per dichiararsi neutrali rispetto alle emissioni sembra essere molto meno efficiente di quanto si pensasse, o si sperasse. A renderlo inefficace, secondo una revisione della letteratura scientifica sul tema appena pubblicata sulla Annual Review of Environment and Resources, sarebbero “problemi sistemici irrisolvibili” – ossia criticità intrinseche al meccanismo e non responsabilità di poche “mele marce” – che rischiano di minare l’impegno per il contrasto alla crisi climatica e gettano un’ombra scura su un mercato, il cosiddetto Voluntary Carbon Market (Vcm) che nel 2022 ha raggiunto il valore di 2 miliardi di dollari. Nel loro studio, gli autori, tre esperti della University of Pennsylvania, della University of California, Berkeley, della University of Oxford e della University of Sussex, hanno analizzato decenni di ricerche e dati, concludendo che la maggior parte dei programmi di compensazione del carbonio più diffusi “continua a sovrastimare enormemente il proprio probabile impatto climatico, spesso di un fattore da cinque a dieci o più”.

In teoria, il meccanismo del carbon credit, o crediti di carbonio, è semplice. Un’azienda o un governo che emette gas serra può “compensare” le proprie emissioni acquistando crediti, per l’appunto, generati da progetti che riducono, evitano o rimuovono la CO2 dall’atmosfera in un altro luogo. Ogni credito dovrebbe corrispondere a una tonnellata di CO2 equivalente (CO2e) non emessa o rimossa: esempi tipici di questi progetti sono la prevenzione della deforestazione, la costruzione di impianti di energia rinnovabile o la cattura dei gas dalle discariche. A fronte dell’acquisto di questi crediti, le aziende si fregiano infine dell’etichetta di net-zero o carbon neutral, che applicano sui loro prodotti o servizi. A quanto pare, però, non è tutto oro quel che luccica. La ricerca appena pubblicata, infatti, ha evidenziato diversi difetti strutturali che hanno afflitto il mercato dei crediti di carbonio fin dalla sua nascita, nonostante i ripetuti tentativi di riforma, e hanno reso la pratica pressoché inefficace, o comunque molto meno efficace delle aspettative (e delle dichiarazioni). Il primo problema, e il più critico, sta nella cosiddetta addizionalità: un progetto, dicono gli esperti, è “addizionale” solo se non si sarebbe realizzato senza i finanziamenti derivanti dalla vendita dei crediti di carbonio. Ma molti studi hanno dimostrato che un’enorme quantità di crediti è stata generata da progetti, come impianti eolici o idroelettrici, che sarebbero comunque stati costruiti perché già redditizi. E che quindi non rappresentano un vero “valore aggiunto”, anche perché, scrivono gli autori, “è impossibile sapere con certezza cosa sarebbe successo senza il meccanismo dei crediti di carbonio”.

Focus

Cop29, primo accordo sui crediti di carbonio: cosa cambia davvero?

13 Novembre 2024

Un altro problema è la sovrastima (overcrediting): le analisi hanno evidenziato che i programmi di compensazione sovrastimano sistematicamente le riduzioni di emissioni. Un meta-studio del 2024, citato nel lavoro appena pubblicato, ha stimato in particolare che meno di un credito su sei, tra tutti quelli studiati, rappresentava un una reale riduzione delle emissioni. Maglia nera per i progetti per la gestione forestale migliorata o per la prevenzione della deforestazione, per cui i tassi di sovrastima si sono rivelati particolarmente alta: nei casi peggiori i crediti “fantasma” sono in un rapporto di 12 a 1 rispetto ai benefici reali. E ancora: la questione delle perdite, un fenomeno che si verifica quando per esempio la protezione di un’area forestale sposta semplicemente altrove la deforestazione: se si paga un proprietario terriero per non tagliare i suoi alberi (acquistando così un certo credito di carbonio), le aziende che producono legname possono semplicemente acquistare un terreno vicino e proseguire la propria attività, annullando il beneficio climatico. E infine, ultimo ma non meno importante, il problema legato alla permanenza del carbonio: la CO2 legata ai combustibili fossili rimane in atmosfera per secoli, e i progetti di compensazione, specie (ancora una volta) quelli relativi alle foreste, non possono garantire una durata comparabile. Incendi, siccità, parassiti o cambiamenti nell’uso del suolo possono rilasciare nuovamente il carbonio immagazzinato, vanificando, e rendendo “impermanente” il beneficio nel tempo.

Facendo riferimento a una delle più banali leggi del mercato, quella del rapporto tra domanda e offerta, gli autori dello studio individuano nella domanda persistente di crediti di carbonio a basso costo una delle cause principali di scarsa qualità del mercato. Sostanzialmente, spiegano, dal momento che ogni credito ha un valore nominale di una tonnellata di CO2e, gli acquirenti sono incentivati a scegliere i crediti più economici, che tendono a essere quelli di qualità inferiore: si crea così una “corsa al ribasso” in cui gli sviluppatori di progetti competono sul prezzo anziché sulla qualità. A fronte di uno scenario così sconfortante, la raccomandazione principale degli autori del lavoro è drastica: bisogna abbandonare l’approccio basato sulla compensazione per la maggior parte dei progetti e concentrarsi solo su due direttrici: anzitutto, finanziare soltanto progetti di alta integrità, ossia addizionali, permanenti e senza perdite (per esempio alcuni progetti di ricattura dei gas delle discariche o di fornitura di cucine pulite ed efficienti); e poi passare da un modello di “acquisto” a uno di “contributo”: in altre parole, le aziende dovrebbero finanziare progetti senza illudersi di annullare le proprie emissioni, ossia “assumersi la responsabilità delle emissioni senza compensarle”. Possibile? Certamente. Probabile? Un po’ meno.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


Tagcloud:

Ecco come rimuoviamo la CO2 dall’atmosfera risparmiando energia