10 Novembre 2025

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    Shefflera, come coltivare la “pianta dell’ombrello”

    Pianta sempreverde appartenente alla famiglia delle Araliacee, la schefflera è originaria delle aree tropicali del Sud Africa e delle isole del Pacifico. Il suo aspetto è elegante, la sua coltivazione semplice, il che la rende una pianta perfetta per spazi interni, come appartamenti e uffici. Non importa essere pollici verdi di eccellenza: la Schefflera non richiederà troppe attenzioni. Andiamo alla scoperta della “pianta ombrello”.

    Schefflera: la pianta d’appartamento più elegante
    Ne esistono oltre 900 specie, sempreverdi e perenni, dal portamento soprattutto arbustivo. Pochi i casi di specie arboree o rampicanti. La schefflera è una pianta dall’estetica semplice, ma bellissima. Le sue foglie, di solito di un numero che va dalle 5 alle 9, sono portate da un picciolo da cui si dispongono a raggiera. Sono di forma ovato-oblunga e il loro aspetto è coriaceo. Il colore? Di solito verde brillante, ma alcune varietà potrebbero presentare macchie bianche o gialle mixate al fondo verde.

    Le varietà di schefflera più diffuse
    Resistente, elegante e dalla crescita rigogliosa, la schefflera si presenta in diverse varietà. Tra quelle più coltivate in Italia spiccano due specie: la schefflera actinophylla, maestosa e scenografica, e la schefflera arboricola, più compatta e adatta agli interni.

    Schefflera actinophylla: la pianta dell’ombrello
    Conosciuta anche come “pianta dell’ombrello” o “albero dell’ombrello”, la schefflera actinophylla è originaria delle foreste pluviali dell’Australia settentrionale. In natura può raggiungere anche i dieci metri di altezza, con una chioma ampia e ordinata che ricorda proprio la forma di un ombrello. Le sue foglie lucide, ovali e di un verde intenso si dispongono elegantemente intorno a un fusto centrale. In primavera e all’inizio dell’estate produce spighe di fiori cremisi, lunghi e sottili, che emergono sulla sommità della pianta. Queste infiorescenze, in tonalità di rosso, bianco o rosa, attirano uccelli e pappagalli, rendendo la pianta un piccolo ecosistema tropicale. La schefflera actinophylla cresce meglio all’aperto, in climi miti e umidi, ma non sopporta il gelo intenso. È quindi più adatta a terrazze, giardini o verande luminose delle regioni costiere e meridionali.

    Schefflera arboricola: la versione “mini” perfetta per interni
    Più compatta ma altrettanto elegante, la schefflera arboricola (conosciuta anche come schefflera nana) è la varietà più comune negli appartamenti. Le sue foglie più piccole e lucide, talvolta variegate con sfumature crema o giallo chiaro, la rendono una scelta raffinata per ambienti interni e spazi di lavoro. Pur crescendo più lentamente rispetto alla sorella maggiore, mantiene la stessa struttura armoniosa e la resistenza tipica della specie. È una pianta che si adatta facilmente alla vita in vaso, richiedendo solo una buona esposizione alla luce diffusa e qualche nebulizzazione nei mesi più secchi.

    Coltivazione della schefflera: terreno e rinvaso
    Il terreno ideale per la schefflera deve essere ricco e ben drenato, capace di evitare ristagni idrici che potrebbero provocare marciumi radicali. L’ideale è un mix composto per l’80% da terriccio torboso per piante d’appartamento e terra di foglie o d’erica, con un 20% di sabbia silicea per favorire il drenaggio. Ogni 4-5 anni la pianta può necessitare di un rinvaso, preferibilmente in primavera o estate, quando è più attiva. In alternativa, si può rinnovare lo strato superficiale del terriccio ogni due anni. Il vaso in terracotta resta la scelta migliore: favorisce la traspirazione e mantiene stabile il microclima delle radici.

    Concimazione: il giusto apporto di nutrienti
    La schefflera non è particolarmente esigente, ma una concimazione regolare aiuta a mantenerla vigorosa. Si consiglia un fertilizzante liquido per piante sempreverdi da interno, ricco di azoto, da somministrare due o tre volte in primavera e una in autunno. Questo stimola la produzione di nuove foglie e rafforza la pianta contro eventuali stress ambientali.

    Esposizione alla luce: calore, ma senza sole diretto
    Originaria delle zone tropicali, la schefflera ama la luce diffusa e le temperature miti, tra 22 e 25 °C. In casa trova facilmente il suo habitat ideale, purché non sia esposta alla luce solare diretta o a correnti fredde. Durante la stagione invernale, l’aria secca dei riscaldamenti domestici potrebbe stressare la pianta: meglio nebulizzare le foglie di tanto in tanto per mantenere la giusta umidità. Temperature inferiori ai 13 °C risultano letali, e i primi sintomi da freddo si notano con l’ingiallimento e il ripiegamento delle foglie. Un consiglio? Avere un occhio di riguardo abituale alle foglie, per capire come e quando agire. In estate, invece, la schefflera può essere collocata all’aperto in mezz’ombra, a patto di rinfrescare il fogliame quotidianamente con nebulizzazioni leggere.

    Innaffiatura: il segreto è l’equilibrio
    L’acqua per la Schefflera è essenziale, ma non deve essere eccessiva. Nei mesi caldi, ad esempio, il terriccio deve restare uniformemente umido nei primi 4-5 cm; in autunno e inverno, invece, le innaffiature vanno ridotte della metà. Attenzione sempre ai ristagni nei sottovasi, tra le principali cause di marciume e malattie fungine. Anche in questo caso, un controllo a cadenza settimanale di quanto il terreno sia umido va fatto.

    Potatura: pochi interventi, mirati
    La potatura della schefflera è minima. Basta rimuovere i rami secchi o danneggiati, preferibilmente in autunno. Se la pianta cresce troppo in altezza, si possono effettuare tagli di contenimento per riequilibrarne la forma e stimolare la produzione di nuove foglie.

    Malattie e parassiti della Schefflera
    Rustica e tenace, la schefflera resiste bene ai parassiti, ma non è immune. Può essere attaccata da cocciniglie cotonose, che spesso favoriscono la comparsa di fumaggine, un fungo che si sviluppa sulla melata prodotta dagli insetti. Altri nemici frequenti sono afidi e tripidi, piccoli insetti che colpiscono le foglie: vanno trattati con insetticidi specifici e, nei casi gravi, eliminando le parti infestate. Nei periodi caldi e secchi, possono comparire anche i ragnetti rossi, facilmente contrastabili mantenendo il terreno umido e nebulizzando l’acqua sul fogliame. Le malattie fungine più comuni, come macchie fogliari o marciumi del colletto, sono quasi sempre conseguenza di un’innaffiatura eccessiva. Prevenire significa bagnare con moderazione, migliorare l’aerazione e non eccedere con i fertilizzanti azotati. A volte pensando di “fare del bene” alla pianta, si rischia di ottenere l’effetto contrario. LEGGI TUTTO

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    Il lago “bollente” di Tefé: così siccità e caldo uccidono l’Amazzonia

    Un evento climatico estremo e catastrofico, l’ennesimo, appena documentato nel cuore dell’Amazzonia. Durante la siccità e l’ondata di calore senza precedenti del 2023, le acque di numerosi laghi amazzonici hanno raggiunto temperature mai viste prima: in alcuni bacini, addirittura, l’acqua ha superato la temperatura di 41°C, trasformando così l’habitat in una trappola mortale per le specie che vi dimorano. Ad attestarlo uno studio appena pubblicato sulla rivista Science, condotto dai ricercatori dell’Instituto de Densevolvimento Sustentável Mamirauá in Brasile (e di decine di altri istituti), che oltre a raccontare la moria di massa di pesci e delfini di fiume in seguito al surriscaldamento delle acque, ne ha identificato le cause principali (acqua bassa, sole e soprattutto assenza di vento, condizioni che hanno creato una “tempesta perfetta”) e ha lanciato l’allarme sulla drammatica vulnerabilità degli ecosistemi tropicali rispetto alla crisi climatica: i laghi amazzonici, in particolare si stanno riscaldando a un ritmo doppio rispetto alla media globale.

    Il lago Tefé, epicentro della catastrofe
    Nel complesso, i ricercatori hanno monitorato dieci laghi della regione, osservando come le acque di cinque di essi abbiano superato i 37°C; quello più colpito è stato il lago Tefé, un bacino lungo circa 60 chilometri nello stato brasiliano di Amazonas, le cui acque, il 18 ottobre 2023, hanno toccato la temperatura record di 41°C. Per di più, non si è trattato di un riscaldamento solo superficiale: le misurazioni hanno confermato che colonne d’acqua fino a due metri di profondità avevano raggiunto uniformemente temperature estreme, il che ha impedito agli animali di trovare rifugio in profondità; nel lago si sono registrati sbalzi termici molto significativi, con variazioni diurne (tra giorno e notte) fino a 13,3°C. Queste condizioni così estreme sono durate parecchio: per 19 giorni nel solo mese di ottobre, scrivono i ricercatori, le acque del lago hanno stabilmente superato i 37°C durante il pomeriggio, e in questo scenario – cui ha contribuito la siccità, che aveva già ridotto del 75% la superficie del lago – le acque sono diventate praticamente inabitabili per molte delle forme di vita che vi nuotavano.

    Strage di delfini e pesci
    Le conseguenze sulla fauna, purtroppo, sono state immediate e devastanti. Lo studio documenta, testuali parole degli autori, una “mortalità massiccia e senza precedenti” di delfini di fiume amazzonici (Inia geoffrensis) e tucuxi (Sotalia fluvialitis): tra la fine di settembre e l’ottobre 2023, nel solo lago Tefé sono state recuperate oltre duecento carcasse di delfini, con un picco di 70 carcasse recuperate in un singolo giorno, il 28 settembre, quando la temperatura dell’acqua ha raggiunto per la prima volta i 39,5°C. Una “febbre” fatale, insomma: come se non bastasse, la moria ha colpito anche i pesci e l’acquacoltura locale, con un caso di 3mila pesci morti in un singolo stagno.

    “Gli animali tropicali come i pesci amazzonici”, scrivono i ricercatori, “si sono evoluti in ambienti stabili, e hanno intervalli di tolleranza termica molto ristretti: diversi studi di laboratorio avevano già mostrato che la sopravvivenza della maggior parte delle specie è compromessa da esposizioni prolungate a temperature superiori ai 33°C, e sappiamo che l’acqua calda trattiene meno ossigeno, portando alla morte per ipossia”, e le osservazioni sperimentali sono state la tragica conferma di queste considerazioni. Come se non bastasse, l’impatto si è esteso anche agli esseri umani: migliaia di persone che vivono lungo i fiumi sono rimaste isolate e senza accesso a cibo, acqua potabile e medicine proprio a causa dei livelli minimi dei corsi d’acqua, diventati non più navigabili.

    Una “tempesta perfetta”
    I modelli idrodinamici sviluppati dai ricercatori hanno evidenziato che l’evento estremo del 2023 è stato il risultato di una “tempesta perfetta” di fattori, tutti legati alla siccità e alle condizioni meteorologiche: acqua bassa (dovuta alla siccità) e torbida (la sospensione dei sedimenti ha causato un maggior assorbimento del calore), alta radiazione solare (la regione è stata colpita da una sequenza anomala di 11 giorni consecutivi senza nuvole) e bassa velocità del vento. Quest’ultimo elemento, in particolare, sembra essere stato quello cruciale: solitamente, il vento sulla superficie dell’acqua aiuta a raffreddarla tramite l’evaporazione, e l’assenza di vento di fine 2023 ha impedito questo processo di raffreddamento notturno.

    Le simulazioni al computer hanno confermato che, con venti deboli, le temperature dell’acqua potevano facilmente salire oltre i 40°C. In ogni caso, gli scienziati sottolineano che l’evento osservato non è da considerarsi “straordinario”, ma purtroppo inserito in un trend allarmante: analizzando i dati satellitari di 24 grandi laghi amazzonici, lo studio ha rivelato che nell’ultimo trentennio (1990-2020) la temperatura media delle acque superficiali della regione è aumentata di oltre mezzo grado per decennio, un tasso che è quasi il doppio rispetto alla media globale di riscaldamento dei laghi, stimata in 0,34°C per decennio. “È assolutamente necessario e urgente”, concludono i ricercatori, “implementare sistemi di monitoraggio a lungo termine, perché i sistemi tropicali, finora poco studiati, si stanno rivelando tra i più vulnerabili. Le conseguenze sulla biodiversità e sulle popolazioni umane potrebbero essere ancora più gravi negli anni a venire”. LEGGI TUTTO

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    Dalle farfalle ai cani, così gli animali si adattano ai cambiamenti dell’ambiente

    Mosche e zanzare diventate immuni al Ddt, pecore di montagna con corna più piccole per sfuggire ai cacciatori, plancton che si adatta a mari più caldi, batteri che diventano resistenti agli antibiotici. E ancora, rane che modificano l’intestino per accumulare l’energia e rondini che accorciano le ali per sopravvivere ai Suv che sfrecciano sulle strade trafficate. Sono solo alcuni degli esempi di intelligenza ecologica raccontati nel libro Il genio della natura. Lezioni di vita dalla Terra che cambia, scritto da David Farrier, docente di letteratura inglese all’Università di Edimburgo, in Scozia, e di recente pubblicato da Touring editore. Circa 300 pagine, per un totale di sette capitoli, che uniscono scienza e filosofia, presentando la tesi di fondo: la dote essenziale dei viventi è la plasticità, ovvero la capacità di cambiare forma, di adattarsi per continuare a esistere. Un concetto che si declina, in concreto, in varie strategie.

    Il cane amico
    La prima è la coevoluzione: in pratica due specie mutano insieme nel tempo, trovando un bilanciamento che consenta a entrambe di sopravvivere. Un esempio è il rapporto tra il lupo e l’uomo: la vicinanza reciproca, nata migliaia di anni fa, ha trasformato il primo in cane e il secondo nel suo inseparabile compagno. Eppure questa antica collaborazione è stata oggi spinta all’estremo, generando nuovi squilibri. È il caso dei polli d’allevamento, selezionati per crescere a dismisura in poche settimane, che presentano corpi deformati, incapaci di respirare o camminare. Quando l’adattamento reciproco diventa dominio e sfruttamento, l’equilibrio si interrompe.

    Il polpo creativo
    Un’altra forma di adeguamento è la creatività: significa saper costruire con ciò che si ha, trasformando i limiti in risorse. A rappresentarla è il polpo, dotato di una mente fluida, diffusa, decentralizzata, capace di usare conchiglie, pietre, cocci per costruire rifugi perfetti. I suoi gesti non obbediscono a un progetto, ma all’improvvisazione. “Ogni forma nasce da vincoli fisici e opportunità locali”, chiarisce l’autore.

    Il corallo architetto
    Un approccio alternativo è la simbiosi, che vuol dire cooperazione e interdipendenza tra specie diverse. Un esempio viene dalle profondità marine: il corallo vive grazie a minuscole alghe che lo nutrono e le alghe vivono grazie alla protezione che ricevono dal corallo stesso. Quando il mare si surriscalda e le alghe muoiono, di conseguenza muore anche il corallo: un lutto che racconta la fragilità di un legame spezzato. La barriera corallina è una sorta di città vivente che ci ricorda che un organismo non è un’isola, ma fa parte di una comunità. LEGGI TUTTO

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    Jennifer Morgan: “Sul climate change non ci devono essere divisioni politiche”

    Dal 1995 a oggi, non ne ha persa una. Le prime 26 Cop le ha vissute da attivista, molte nel ruolo di direttrice di Greenpeace International. Le ultime tre come inviato speciale per il clima del governo tedesco. Pochi nel panorama internazionale hanno l’esperienza di Jennifer Morgan, 59 anni da Ridgewood, New Jersey, in fatto di Conferenze Onu sul clima. “Sarò anche a Belém, come ricercatrice senior della Fletcher School, istituto di relazioni internazionali all’interno della Tuft University, poco lontano da Boston“.

    Nonostante la fine dell’incarico a Berlino, dopo le elezioni che hanno relegato i Verdi all’opposizione, Morgan continua nel suo impegno. Le parliamo mentre è in attesa di un volo per Pechino: “Vado per partecipare all’incontro Amici dell’Accordo di Parigi. Un meeting che per molti anni è stato organizzato dallo storico inviato speciale cinese per il clima Xie Zhenhua. Qualche settimana prima della Cop riunisce molte delle persone che parteciparono ai negoziati di Parigi, perché si confrontino su come ottenere il miglior risultato possibile“.

    Jennifer Morgan, come ottenere il miglior risultato possibile alla Cop30 di Belém?
    “In Brasile non ci saranno grandi decisioni da prendere, come è stato per il fondo per il loss and damage nel 2022 a Sharm o per la transition away dai combustibili fossili nel 2023 a Dubai. Questa volta si tratterà soprattutto di accelerare l’attuazione delle decisioni prese in passato e di capire come colmare il gap tra gli Ndc presentati dai Paesi e i tagli alle emissioni necessari per essere in linea con l’Accordo di Parigi e il limite di 1,5 °C di riscaldamento“.

    Glielo chiedo in un altro modo: cosa deve accadere a Belém perché si possa considerare Cop30 un successo?
    “Per le ragioni che ho esposto, sarà una Cop sfidante soprattutto per la politica. Cop30 sarà un successo se ci saranno dichiarazioni forti da parte dei leader, che riaffermeranno l’impegno a rispettare l’Accordo di Parigi, accelerandone l’implementazione. E poi se ci saranno decisioni e azioni importanti che confermino questo impegno“.

    Che tipo di azioni?
    “Per esempio il Brasile ha proposto un dialogo tra consumatori e produttori per una effettiva e giusta transition away dai combustibili fossili. Molti Paesi stanno cercando di lavorare insieme per rimuovere le barriere che ostacolano la diffusione delle rinnovabili, per esempio per quanto riguarda le reti elettriche e gli accumuli. E poi naturalmente la finanza, con la riduzione del costo del denaro per la realizzazione di impianti rinnovabili in Africa“.

    Sarà la sua trentesima Cop. Qual è stata la più importante?
    “Quella di Parigi nel 2015. Perché riuscì a creare un accordo legalmente vincolante tra tutti i Paesi. Un accordo che poi è stato ratificato rapidamente ed è entrato in vigore. Prima c’era stato il protocollo di Kyoto, ma non era accettabile da abbastanza nazioni perché potesse avere un vero impatto“.

    Però in questi 10 anni molto è cambiato nella lotta alla crisi climatica…
    “È vero, ma non solo in senso negativo. La crescita delle temperature c’è, ma ha rallentato la sua corsa: le misure di decarbonizzazione prese dalle nazioni, pur insufficienti, hanno modificato verso il basso la traiettoria del riscaldamento. Le energie rinnovabili sono esplose, a un livello che non era nemmeno immaginabile dieci anni fa. E il loro successo è soprattutto dovuto a fattori economici: costano meno“.

    E cosa è cambiato in negativo da Parigi a Belém?
    “Il riscaldamento globale ha mostrato i suoi effetti in modo più rapido e intenso. Stiamo vedendo i costi enormi che la crisi climatica comporta in tutto il mondo, inclusa l’Europa: solo l’estate scorsa, eventi estremi legati al clima, come ondate di calore e alluvioni, sono costati all’economia europea 43 miliardi di euro. Ma la cosa più negativa di questi anni è che il clima ha iniziato a essere usato dai partiti di destra per polarizzare le opinioni pubbliche. Le persone dovrebbero essere preoccupate per il clima così come lo sono per l’inflazione o per il costo dell’elettricità, e invece stiamo assistendo al deliberato tentativo della lobby dei combustibili fossili di rallentare il declino del loro business. Il risultato è appunto una polarizzazione della discussione sul clima in alcuni Paesi“.

    Una polarizzazione che avrà ripercussioni su Cop30?
    “A differenza delle altre volte in cui gli Usa sono usciti dalle trattative sul clima, in questo caso Washington sta mettendo in atto una serie di misure di contrasto. L’amministrazione Trump sta agendo in modo da rallentare il declino dei combustibili fossili per conto delle compagnie petrolifere americane. Per fortuna ci sono altre voci negli Stati Uniti, che io spero di sentire a Belém. Mi riferisco ad alcuni governatori, a rappresentanti del mondo del business: il 60% dell’economia Usa è ancora dentro l’Accordo di Parigi. E poi ci sono le altre nazioni, anche se la tattica di Trump è di mettere in difficoltà chi punta a rinunciare ai combustibili fossili americani».

    Aldilà delle politiche Usa, c’è chi sostiene che sia il modello delle Cop a non essere più adeguato, con decisioni troppo lente rispetto all’emergenza.
    “Ha fatto bene Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc, a iniziare un lavoro sulle riforme che si potrebbero attuare, d’altra parte sono passati 30 anni dalla prima Cop. Detto questo, non penso che le Cop siano in crisi. Le decisioni sono state prese in questi anni. E c’è un gran bisogno di queste conferenze multilaterali, perché sono l’unica occasione in cui i più piccoli e vulnerabili, come gli Stati insulari, siedono al tavolo dei negoziati. Ma in effetti i meccanismi di voto potrebbero essere più efficienti. E dovrebbe essere più efficace la trasformazione in azioni concrete dei tanti impegni presi“.

    Pensa che l’Ue possa ancora ambire a riempire il vuoto lasciato dagli Usa come leader climatico?
    “Potrebbe certamente farlo. La proposta di tagliare del 90% le emissioni entro il 2040 era un chiaro segnale all’industria europea e andava in quella direzione. Inoltre, l’Europa continua a lavorare con i Paesi più vulnerabili per trovare strumenti finanziari da dedicare all’adattamento. Un’altra possibilità per la Ue è stringere collaborazioni sempre più strette con le economie emergenti“.

    E la Cina?
    “Pechino ha indicato chiaramente che vede il suo futuro nella energia pulita, nei veicoli elettrici, nella decarbonizzazione. Gli Ndc cinesi annunciati da Xi Jinping all’Onu sono da un lato molto importanti perché mettono un vero limite alle emissioni, però dall’altro non consentono a Pechino di assumere la leadership che potrebbe avere. La Cina deve dimostrare a Cop30 che davvero sta spingendo per l’addio ai combustibili fossili e che vuole contribuire finanziariamente all’adattamento ai cambiamenti climatici. Ma sono certa che a Belém vedremo anche molti Paesi in via di sviluppo spingere su Brasile, Indonesia, India, perché aumentino la loro ambizione“.

    Dunque resta ottimista, nonostante i diversi segnali di disimpegno da parte di governi, banche, imprese?
    “La transizione energetica è inevitabile e non c’è possibilità di dietrofront. Esiste però un problema di velocità nell’attuazione e di scala. A Dubai ci si impegnò a triplicare le rinnovabili e l’efficienza energetica. E non è successo. Ma succederà, fosse anche solo perché conviene dal punto di vista economico“. LEGGI TUTTO

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    Curupira, la mascotte guardiana della foresta brasiliana

    Lancia in mano, capelli scarlatti e ciuffo a forma di fiamma: agile e malizioso, Curupira, guardiano della foresta nella tradizione popolare brasiliana e in particolare amazzonica, è la mascotte della Cop30 a Belém. Secondo un’interpretazione comune, il suo nome deriva dalla contrazione di “curumim” (ragazzino) e “pira” (corpo), nella lingua indigena tupi-guarani. Vestito con un […] LEGGI TUTTO

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    La biologa italiana che vive in Amazzonia “Con gli indigeni per dire al mondo: ricordatevi di noi”

    Chi a bordo di zattere, chi di battelli o piccole imbarcazioni, chi via terra con i mezzi che trova: dal cuore dell’Amazzonia migliaia di indigeni e rappresentanti dei popoli tradizionali si sono già messi in marcia verso la sede della Cop30 a Belém. Emanuela Evangelista, biologa italiana di Lanuvio che da 12 anni vive in Amazzonia nel villaggio di Xixuaù ed è impegnata a proteggere il Parco nazionale dello Jauaperi, la definisce la “Flottila della Cop”, la mobilitazione dei brasiliani per portare un messaggio: “Per salvare l’Amazzonia, non bisogna solo fermare la deforestazione, ma dare più potere e aiuti economici a chi la custodisce, la conosce e la abita. Magari con nuove soluzioni basate proprio sul ripristino della natura“.

    Oltre 25 anni fa la biologa e conservazionista italiana iniziò ad esplorare il territorio amazzonico per studiare lontre e altri ecosistemi, poi “decisi di fermarmi qui. Oggi mi sento una di loro, appartenente ai popoli tradizionali, perché vivo come loro, mangio dalle stesse risorse della natura e con loro – pur essendo sempre europea di nascita – condivido le stesse battaglie“, come quelle “contro la deforestazione, l’inquinamento da estrazione dell’oro o gli impatti della crisi del clima“. A lei abbiamo chiesto come in Amazzonia viene vista la Cop30 e perché è così importante questo evento per i popoli originari. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    BELEM (BRASILE) – La parola chiave della Cop30, la trentesima conferenza delle parti sul clima che inizia ufficialmente oggi a Belém in Brasile, è “pressione”. Mai, nella storia di questi vertici, c’è stata così tanta pressione su un sistema di multilateralismo – quello dove in teoria oltre 190 Paesi hanno lo stesso voto e peso nel decidere su come affrontare la crisi climatica – che potrebbe o uscirne finalmente rafforzato o giungere definitivamente al capolinea. Il perché è evidente. Questa Cop, quella della “verità” la definisce il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, arriva in un contesto preciso: siamo a 10 anni dall’Accordo di Parigi che, dati alla mano, difficilmente sarà rispettato. L’accordo prevedeva sforzi e impegni delle nazioni del mondo a rimanere sotto i +1,5 °C nel tempo. Nel 2025, dopo una serie di anni “più caldi della storia” uno dietro l’altro, siamo però già oltre quella soglia e le attuali proiezioni – se ci basiamo sui piani climatici (Ndc) annunciati dai vari Paesi – ci dicono che ridurremo le emissioni di appena il 10% rispetto al 60% necessario e a fine secolo rischiamo di ritrovarci a +2,5 gradi, il che vorrebbe dire bye bye a ecosistemi come l’Amazzonia, ai ghiacciai della Groenlandia o piogge e temperature miti del passato, perché tutto sarà intensificato e tendente – soprattutto nei “punti di non ritorno” – al collasso.

    Ci sono diversi tipi di pressione in questa Cop. C’è quella del tempo che scarseggia: sia per completare i lavori dei padiglioni (a 24 ore da inizio conferenza sono ancora in alto mare) sia per ottenere decisioni che non siano solo parole, ma fatti concreti. Va indicato per esempio il sistema con cui tirare fuori 1,3 trilioni di dollari all’anno per i Paesi meno sviluppati che senza quei soldi rischiano di non riuscire ad affrontare la crisi del clima. Servono, parola d’ordine, anche più soldi per l’adattamento. Bisognerà poi validare e confermare l’ampliamento dei piani climatici nazionali, trovare accordi per fornire fondi alle popolazioni indigene e per ridurre disuguaglianze climatiche e sociali, ma anche per esempio provare ad affrontare di petto la vera causa del riscaldamento globale, le emissioni di gas petrolio e carbone, quelle che per ora a parte per Paesi come la Colombia e pochi altri, che chiedono una immediata decarbonizzazione, sembrano essere uno dei grandi elefanti nella stanza.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    L’altro grande elefante è ovviamente Donald Trump, motivo di estrema pressione. Il presidente degli Stati Uniti non solo ha ritirato gli Usa dagli Accordi di Parigi e a poche settimane dalla Cop30 ha definito il surriscaldamento globale “una grande truffa” ma – puntando sempre di più su trivellazioni, deep mining e aumento dei combustibili fossili (mentre affossa le rinnovabili) – sembra anche voler boicottare concretamente la Cop30, dove gli Usa sono appunto assenti se non per la rappresentanza di qualche sindaco o governatore.

    Nei corridoi della Cop che sta per iniziare (si parte alle 10 del mattino con la plenaria di apertura) c’è infatti una strana sensazione: quella che lo spettro di Trump, con le sue minacce e pressioni, si concretizzi all’improvviso. Prima della Conferenza gli Stati Uniti sono riusciti, con pressioni commerciali e minacce di sanzioni, a far posticipare di un anno il piano per la decarbonizzazione dei trasporti e delle emissioni marittime chiamato IMO Net-Zero Framework. Grazie alla pressione a stelle e strisce si è arrivati a rinviare di 365 giorni il voto e questa semplice mossa è apparsa come un primo segnale della potenza Usa nel destabilizzare accordi e multilateralismo. Nel frattempo, alla vigilia del vertice, Trump si è messo a scrivere sui social e se l’è presa con il Brasile di Lula che per fare la Cop “deforesta” l’Amazzonia, dice. Questi e altri messaggi fanno pensare ai delegati che il governo Usa possa, nel solo tentativo di far “crollare il castello”, inviare all’improvviso delegati a Belem. Insomma, c’è la sensazione che Trump intenda boicottare, a distanza o meno, possibili accordi per esempio legati al mondo del fossile (che sarà comunque ben rappresentato qui a Belém da centinaia di lobbisti).

    Verso Cop30

    A 10 anni da Parigi la sfida del clima può essere vinta

    di Luca Bergamaschi*

    04 Novembre 2025

    Ad aumentare la pressione c’è poi ovviamente il contesto geopolitico internazionale che, già da anni, ha visto le Cop scivolare lontano dai riflettori. Il ministro italiano dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, atteso a Belém, lo ha proprio detto: “Le aspettative non sono molto alte perché negli ultimi anni l’equilibrio globale è cambiato in modo significativo, con conflitti su più fronti e la formazione di blocchi”. Nella polarizzazione di tutto, tra Paesi che sembrano schierarsi radicalmente contro gli Usa e altri che li appoggiano (vedi Argentina), aumenta dunque la pressione per quella che deve a tutti costi essere una Cop concreta, pragmatica, di risultati e annunci finali quantificabili e realizzabili. Infine, elemento non da poco, a Belém torna la pressione anche da parte della società civile. Dopo tre anni di Cop dal dissenso negato viste le sedi nei petrol-stati, torneranno ad esserci proteste, manifestazione, persone che alzano la voce. LEGGI TUTTO

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    Così gli inquinatori tentano di interferire sulla conferenza sul clima in Amazzonia

    Oogni Cop le sue lobby. Uno dei problemi principali delle Conferenze delle parti sul clima, soprattutto negli ultimi anni, è l’ingerenza dei rappresentanti del mondo industriale sui negoziati. Nelle ultime tre edizioni c’è stata una escalation, fra le sale Onu, di lobbisti: svolgendosi in petrol-stati o Paesi legati all’industria del gas, la maggior parte di questi proveniva dal mondo delle fonti fossili e puntava a mantenere un certo status quo e a permettere ancora la sopravvivenza di petrolio gas e carbone. A Baku, dove il presidente azero Ilham Aliyev in apertura lavori ha difeso il gas “dono di Dio”, i lobbisti dell’oil&gas per numero erano praticamente la quarta delegazione più numerosa, circa 1773 lobbisti.

    Il summit

    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    di Giacomo Talignani

    10 Novembre 2025

    Un numero in calo rispetto a Dubai (circa 2400) ma comunque altissimo se si pensa che l’Azerbaigian ospitava circa 15mila persone in meno in confronto agli Emirati. Quest’anno in Brasile potrebbe cambiare la forma, ma non la sostanza. Quando il presidente Luiz Inácio Lula annunciò al mondo l’intenzione di tenere una Cop in Amazzonia dopo tre anni di vertici nei petrol-stati per molti addetti ai lavori fu il segnale di un potenziale cambiamento: ci si aspettava una Cop più inclusiva e soprattutto capace di allontanare l’ingerenza dei lobbisti.

    Eppure, anche visti i costi esorbitanti degli hotel e le difficoltà logistiche di Belém, la Cop30 presenta nuove criticità più esclusive che inclusive: da una parte mancheranno delegazioni e membri della società civile dei Paesi meno ricchi – impossibilitati a raggiungere il Brasile – e dall’altra nonostante il numero totale dei partecipanti sarà inferiore alle passate edizioni (si attendono 45 mila persone, quasi la metà di Dubai) fra questi si teme ci sarà una fortissima presenza di lobbisti di un’altra industria decisiva, quella dell’agrifood. Nel Brasile a forte vocazione agricola, un settore che insieme all’alimentare è responsabile di oltre un terzo delle emissioni globali, i lobbisti dell’agrifood – lo ha fatto capire anche lo stesso Lula – non perderanno infatti l’occasione per far sentire la loro voce. Uno dei campi collegati in cui si gioca questa sfida riguarda per esempio anche l’Italia: noi ci presenteremo alla Cop30 per spingere il consumo di biocarburanti, un mantra del governo Meloni e del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. Per questa operazione – che mira a far quadruplicare la produzione di biocarburanti entro il 2035 rispetto a dieci anni prima – l’Italia ha già trovato come alleato proprio il Brasile, secondo esportatore di etanolo al mondo. Ovviamente i lobbisti brasiliani, giocando in casa, si faranno sentire nell’interesse comune sui biocarburanti. Per la potente industria agricola brasiliana la Cop30 sarà poi una vetrina per provare a mostrare un’immagine verde e salvaguardare una filiera che rappresenta oltre un quarto del Pil del Paese anche se il suo impatto climatico, direttamente collegato alla deforestazione dell’Amazzonia, è difficile da ignorare.

    Il diario

    Belém, speranza o dovere?

    di Bertrand Piccard

    10 Novembre 2025

    A Belém l’industria spingerà sulle parole “innovazione e sostenibilità”. In tal senso ci saranno lodi per esempio su crediti di carbonio e sistemi di cattura della CO2 come soluzione alle emissioni, nonostante recenti studi abbiano messo per l’ennesima volta in dubbio la loro efficacia. Inoltre, ancora lontani da quel transition away sui combustibili fossili concordato a Dubai, al centro della Cop tornerà nuovamente la questione petrolio. Anche qui, nel Brasile che a inizio anno è entrato nell’Opec+ (il cartello dei petrolieri) e dove a pochi giorni da inizio Cop sono state autorizzate nuove trivellazioni di Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni, è logico aspettarsi l’influenza del settore fossile. Tra l’altro, tra le tante contraddizioni della Cop30, va registrato il fatto che la comunicazione ufficiale della Conferenza è stata affidata alla stessa agenzia che fra i suoi clienti principali annovera il colosso petrolifero Shell. Ingerenze e incongruenze che hanno portato il gruppo “Kick Big Polluters Out” a fare un appello alla presidenza insieme ad altre 225 organizzazioni proprio contro i conflitti di interesse e greenwashing: “Quest’anno cacciate via i grandi inquinatori, non fateli sedere al tavolo“ dicono.

    Finanza climatica

    Cop30, il piano di Lula per salvare le foreste del mondo

    di Giacomo Talignani

    07 Novembre 2025

    Difficilmente però, come avvenuto finora, la richiesta sarà accolta. Infine, una nuova lobby è all’orizzonte: quella della disinformazione. Il 2025 in cui il negazionista Donald Trump ha definito “truffa” la questione climatica, ha registrato infatti una crescita esponenziale di disinformazione sul ruolo delle azioni antropiche e delle emissioni che alimentano il riscaldamento. Una tesi, in un contesto geopolitico fragile e dove molti leader saranno assenti al vertice di Belém, che rischia di infiltrarsi nel summit. Per questo il segretario generale dell’Onu António Guterres ha lanciato l’allerta: “Dobbiamo combattere disinformazione, greenwashing e attacchi alla scienza. Gli scienziati non dovrebbero mai aver paura di dire la verità”. LEGGI TUTTO