Ottobre 2025

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    Abelia, l’arbusto che si adatta: coltivazione, esposizione, fioritura e cura

    Per decorare giardini, bordure, siepi, terrazzi e balconi, l’abelia è sempre una scelta vincente, che regala colore e bellezza, portando con sé un tocco di eleganza. Vigoroso e dalla fioritura lunga, profumata e abbondante, l’arbusto cresce rapidamente e si distingue con il portamento arcuato, i fusti lunghi, i fiori tubulosi e le piccole foglie verdi e lucide, che in autunno virano sulle sfumature del bronzo e del rosso. Grazie alla sua straordinaria capacità di adattamento alle diverse condizioni, coltivare l’abelia è semplice e non richiede cure complesse, se non pochi e semplici accorgimenti per mantenerla al meglio.

    Abelia e la sua esposizione ideale
    L’abelia dona splendidi fiori anche in autunno, infondendo colore agli ambienti con il suo fogliame dalle nuance calde. Bellezza, resistenza e fioritura prolungata sono i punti di forza di questa pianta ornamentale sempreverde, appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae. Originaria del Messico e dell’Asia orientale, si adatta a diversi tipi di terreno e a condizioni climatiche differenti e può raggiungere un’altezza fino a 2 metri.

    L’arbusto fiorisce dalla primavera all’autunno con piccoli fiori tubulosi, numerosi e colorati, che spaziano dal bianco al rosa fino al lilla. Il loro delicato profumo attira api e farfalle, rendendo l’abelia una risorsa preziosa per il giardino e la sua biodiversità.

    Per quanto riguarda l’esposizione, predilige un luogo soleggiato, ma può adattarsi anche all’ombra parziale. Posizionare l’arbusto in una zona soleggiata favorisce una fioritura più abbondante e un fogliame dai colori vivaci: in estate, durante le ore centrali della giornata, è consigliabile spostarlo però temporaneamente in un luogo più in ombra se coltivato in vaso.

    Pur essendo resistente, in caso di inverno rigido la pianta può perdere il suo fogliame e soffre i venti freddi, dovendo proteggerla con un telo. L’abelia va piantata in autunno o in primavera, in un terreno drenato, fertile, umido e leggermente acido, anche se cresce nei substrati sabbiosi e argillosi.

    Abelia, coltivazione in giardino e vaso
    Pianta ornamentale molto apprezzata, l’abelia è facile da coltivare e non richiede cure complesse. Se coltivata in piena terra, i semi di abelia vanno posizionati in superficie, visto che necessitano di luce per germinare, mantenendo una distanza di 5 centimetri tra ciascuno. Una volta cresciute, le piantine possono essere diradate a una distanza di 40-50 centimetri, in quanto l’abelia tende a svilupparsi in ampi cespugli.

    La coltivazione tramite semi può richiedere però molto tempo e non sempre porta a una germinazione uniforme. Proprio per questo, per avere maggiori possibilità di successo e ottenere le piantine più velocemente, si può procedere con la propagazione per talea, con cui ricavare esemplari uguali alla pianta madre.

    Un’alternativa consiste nel mettere a dimora una pianta di abelia cresciuta in vaso: si procede creando una buca di almeno 30 cm, ponendo sul fondo uno strato di argilla espansa o sabbia per aumentare il drenaggio e riempiendola con del terriccio fertile unito a del compost. Si estrae la pianta dal contenitore delicatamente per poi porla nella buca e ricoprirla con il substrato, compattando il tutto e irrigandolo in modo abbondante.

    L’abelia si presta a essere coltivata in vaso, dovendo scegliere un recipiente abbastanza capiente, di 30-40 centimetri di diametro, per garantire spazio sufficiente alle radici. Il vaso deve avere fori di drenaggio in modo da evitare i ristagni d’acqua. Il terriccio impiegato deve essere leggero, fertile e arricchito con compost maturo, sabbia e perlite. Sul fondo del recipiente è possibile aggiungere uno strato di ghiaia oppure argilla espansa per aumentare ulteriormente il drenaggio.

    Come nel caso della semina in piena terra, i semi vanno posti in superficie e appena ricoperti con il terreno, in modo che ricevano la giusta quantità di luce per germogliare. I semi vanno distanziati di 2-3 centimetri l’uno dall’altro per poi trapiantare le piantine in vasi singoli una volta diventate robuste e con almeno 2-3 foglie. Anche per questa opzione procedere tramite semi può richiedere più tempo, mentre la propagazione tramite talea consente di ottenere nuove piantine in modo più rapido.

    Durante la stagione vegetativa, la pianta può essere concimata ogni 4-6 settimane con un fertilizzante per piante da fiore. Ogni 2 anni si procede con il rinvaso ricorrendo a un contenitore più grande.

    Abelia e la sua cura
    La manutenzione dell’abelia è semplice, ma richiede alcune cure specifiche. Per quanto riguarda l’irrigazione, la pianta necessita di annaffiature costanti in particolare durante i periodi di siccità, dovendo mantenere il terreno umido e mai secco. Tuttavia è sempre importante evitare i ristagni idrici, responsabili del marciume radicale. Da marzo a ottobre si può annaffiarla una volta a settimana: durante l’estate è bene procedere al mattino presto, premurandosi che non ci sia troppa differenza tra la temperatura dell’acqua e quella dell’apparato radicale, potenziale causa di stress. Tra un’irrigazione e l’altra bisogna sempre verificare che il terreno sia asciutto. Durante il periodo invernale le annaffiature vanno ridotte.

    La potatura dell’abelia non è strettamente richiesta, ma può essere utile per mantenerne la forma e la salute. All’inizio della primavera si può intervenire leggermente rimuovendo i rami morti, danneggiati e incrociati. Dopo la fioritura, è possibile eliminare i germogli in eccesso e i rami meno robusti, favorendo così la nuova produzione di fiori.

    Manutenzione dell’abelia
    L’abelia è molto resistente e, se curata con le giuste accortezze, tende a non essere soggetta a parassiti e malattie. Malgrado questo, può essere attaccata occasionalmente da afidi, acari, mosche bianche e ragnetto rosso o da malattie fungine. Per contrastare questi problemi, è necessario intervenire prontamente, utilizzando prodotti ad hoc o rimedi naturali come miscele di acqua e sapone oppure olio di neem.

    Un’altra criticità che può presentarsi è la mancata fioritura, dovuta spesso alla concimazione non sufficiente e alla scarsa luce: per ovviare a questo problema, bisogna nutrire la pianta con del fertilizzante e spostarla in un luogo più soleggiato.

    I rami che perdono le foglie possono essere la spia di un substrato eccessivamente secco o di un vaso troppo piccolo. In questi casi bisogna aumentare le irrigazioni e rinvasare l’abelia in un recipiente più grande. LEGGI TUTTO

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    Le scie degli aerei sono responsabili di un effetto serra indiretto

    Le scie di condensazione generate dal passaggio degli aerei di linea possono essere dannose per l’ambiente. Più di quando si credesse in passato – al netto delle teorie complottiste sulle presunte scie chimiche. Il tema di fondo è che sempre più ricercatori e studi, sostengono che i cosiddetti contrail (condensation trail), di fatto scie lunghe e sottili di vapore acqueo e cristalli di ghiaccio che si manifestano in cielo dagli scarichi dei velivoli, possono contribuire al riscaldamento climatico attraverso l’effetto serra indiretto. Il tema era emerso già diversi anni fa, adesso arrivano nuove conferme capaci di delineare quali tipo di scie hanno impatto e in quali condizioni.

    Scie di condensazione ed effetto serra indiretto
    I contrail si formano in specifici casi, ovvero quando il vapore acqueo, presente nei gas di scarico dei motori dei velivoli, si cristallizza attorno alla fuliggine espulsa dal motore. Un fenomeno abbastanza diffuso; è sufficiente volgere gli occhi al cielo. Normalmente le scie si dissipano in tempi relativamente rapidi, ma nell’alta atmosfera (sopra i 3mila metri) dove l’aria è già sovrasatura di ghiaccio, prendono un’altra consistenza e diventano persistenti. In alcuni casi si parla di ore e lunghezze di centinaia di chilometri, con il rischio di trasformazione in vere e proprie nubi artificiali. In pratica questi banchi intrappolano il calore irradiato dalla superficie terrestre, aumentando il riscaldamento globale. L’effetto è paragonabile a quello dei gas serra.

    L’industria aeronautica è scettica al riguardo. International Air Transport Association sostiene che “la comprensione scientifica degli effetti climatici dell’aviazione, diversi dalla CO2, è cresciuta, ma permangono notevoli incertezze nella previsione della formazione delle scie di condensazione e dell’impatto climatico”.

    Trasporti

    Lo studio T&E: “Meno scie e cambio di tragitto per il 3% dei voli per dimezzare le emissioni”

    di Pasquale Raicaldo

    13 Novembre 2024

    L’organizzazione non-profit Contrails.org è di diverso avviso. Ha stimato che le emissioni di CO2 dell’aviazione, dal 1948 al 2018, hanno contribuito per circa 1,5% del riscaldamento globale. Mentre considerando le scie di condensazione bisognerebbe aggiungere un ulteriore 1–2%. In sintesi tra emissioni di CO2 dovute alla combustione del carburante e l’effetto schermo si rischia un “doppio riscaldamento climatico”, come ha dichiarato lo scorso anno Edward Gryspeerdt, ricercatore presso il Grantham Institute for Climate Change and the Environment dell’Imperial College di Londra e autore di uno studio sull’argomento.

    Per altro secondo l’esperto, gli aerei più moderni sarebbero più dannosi di quelli vecchi, proprio a causa della loro migliore efficienza e della conseguente riduzione delle temperature dei gas di scarico – che favorirebbe la creazione di scie.

    E le prospettive future sembrerebbero anche peggiori, almeno a opinione del gruppo di attivisti di Transport and Environment. In base alla loro ricerca, nell’arco di 20 anni l’effetto serra indiretto causato dalle scie di condensazione di un singolo volo sarà più dannoso delle sue emissioni di anidride carbonica. L’unico controbilanciamento è dato dal fatto che in 100 anni i contrail di un volo genereranno solo un terzo dell’effetto di riscaldamento causato dalle emissioni di carbonio.

    La polemica

    Trump cancella le informazioni sulla crisi climatica ma rilancia sulle scie chimiche

    di Giacomo Talignani

    15 Luglio 2025

    La soluzione è in un cambio di rotta
    Royal Aeronautical Society (RAS) nel 2023 ha pubblicato uno studio sulle strategie di mitigazione del fenomeno della supersaturazione del ghiaccio. Ebbene, la più semplice teoricamente potrebbe essere quella di effettuare rotte che evitano gli strati più a rischio. Per altro richiederebbe solo un consumo extra di carburante. La stima è che per una rotta che prevede un 20% di tratta a rischio sarebbe sufficiente l’impiego di uno 0,5% di carburante in più. Ma non è così semplice perché le condizioni meteorologiche incidono su ogni parametro e quindi bisognerebbe renderebbe le rotte molto più flessibili, forse troppo, poiché verrebbero richiesto anche di cambiare altezza e direzione. L’analista aeronautico Andrew Charlton ha confermato al Financial Times che questo approccio complicherebbe i piani di volo sia per i piloti che per i controllori di volo.

    La convinzione diffusa però è che adesso che è emerso il problema sia la progettazione dei velivoli che i sistemi di rotta e controllo possano individuare metodi adeguati per ridurre l’impatto ambientale. LEGGI TUTTO

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    Non solo spazzatura: dai rifiuti elettronici possiamo estrarre materie prime critiche

    I rifiuti elettronici europei non sono solo spazzatura, ma anzi una miniera dalla quale poter recuperare le materie prime critiche, spesso molto difficili da reperire ma cruciali per lo sviluppo tecnologico ed economico dell’Unione europea. A sottolinearlo è il nuovo rapporto Critical Raw Materials Outlook for Waste Electrical and Electronic Equipment, redatto dal consorzio FutuRaM e finanziato dall’Unione Europea, che, in occasione dell’International E-Waste Day, che si celebra oggi 14 ottobre, evidenzia appunto come le materie prime critiche disponibili nella “miniera urbana” di rifiuti elettronici europei potrebbero raddoppiare entro il 2050, e che con il riciclaggio si potrebbe ridurre la loro domanda, isolando l’Ue dai rischi per la sicurezza dell’approvvigionamento, creando posti di lavoro e, al contempo, promuovendo l’agenda climatica.

    Le materie prime critiche
    Le materie prime critiche (in inglese critical raw materials, Crm) sono materiali come per esempio rame, alluminio, silicio, tungsteno e palladio, che, però, presentano alti rischi di approvvigionamento, perché difficili da reperire e dipendenti da pochi Paesi fornitori. Sapere quali prodotti e componenti contengono quali materie prime critiche è quindi il primo passo per recuperarli. Sono presenti, per esempio, in molti dispositivi di utilizzo comune: il rame in cavi e schede, l’alluminio in involucri e telai e metalli del gruppo del platino nei display. Piccole quantità di palladio, neodimio, disprosio, tantalio, gallio e altre terre rare vengono invece utilizzate in laptop, touchscreen, asciugacapelli, trapani elettrici, controller di gioco e dispositivi medici.

    “È difficile immaginare la civiltà moderna senza materie prime critiche”, ha commentato Pascal Leroy, direttore generale del Waste Electrical and Electronic Equipment Forum, l’organizzazione che promuove l’International E-Waste Day. “Senza di esse, non possiamo costruire le batterie, le turbine, i chip e i cavi che sostengono il futuro verde e digitale dell’Europa. Sfruttando i nostri rifiuti elettronici anziché il pianeta, gli europei hanno una grande opportunità di costruire le proprie catene di approvvigionamento circolari, ridurre l’esposizione agli shock globali e garantire i mattoni del nostro futuro”.

    I dati sul riciclo
    Dal nuovo rapporto, che ha analizzato i dati completi in tutta l’Ue che tracciano le Aee dalla prima vendita fino al recupero a fine vita, è emerso che sono state generate 10,7 milioni di tonnellate di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), pari a circa 20 kg a persona, nel 2022, di cui 1 milione di tonnellate di materie prime critiche. Il 54% del totale (5,7 milioni di tonnellate) è stato gestito in conformità alle normative Ue, e ciò ha permesso di recuperare circa 400 mila tonnellate di materie prime critiche, nonostante ne siano andate perse circa 100 mila tonnellate. Il rimanente 46% dei totale, invece, è stato gestito al di fuori dei canali conformi e ciò ha causato perdite ingenti: 3,3 milioni di tonnellate mescolate a rottami metallici, 700 mila tonnellate di rifiuti elettronici smaltite in discarica o incenerite e 400 mila tonnellate esportate per il riutilizzo.

    Le previsioni
    Entro il 2050, si prevede che il volume totale di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche aumenterà da queste 10,7 milioni di tonnellate a una quantità compresa tra 12,5 e 19 milioni di tonnellate all’anno e che la quantità di materie prime critiche aumenterà da circa 1 milione di tonnellate a una quantità tra 1,2 e 1,9 milioni di tonnellate all’anno.

    A seconda delle scelte politiche, dei tassi di raccolta e dell’efficienza del riciclo, l’Europa potrebbe recuperare una maggiore quantità di materie prime critiche, compresa tra 0,9 e 1,5 milioni di tonnellate all’anno. Ma per farlo, dovrà ampliare la raccolta con più punti di ritiro, migliorare la progettazione per lo smantellamento e aumentare la capacità di riciclo dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

    “L’Europa dipende da paesi terzi per oltre il 90% delle sue materie prime critiche, eppure ne ricicliamo solo una piccola parte, pari all’1%”, ha commentato Jessika Roswall, commissaria Ue per l’ambiente, la resilienza idrica e l’economia circolare competitiva. “Abbiamo bisogno di un vero cambiamento di mentalità nel modo in cui l’Europa raccoglie, smantella e trasforma questa montagna di rifiuti elettronici in rapida crescita in una nuova fonte di ricchezza. Le perturbazioni commerciali, dai divieti di esportazione alle guerre, mettono a nudo la vulnerabilità dell’Europa. Il riciclo è sia un imperativo ambientale che una strategia geopolitica”.

    “I rifiuti elettronici europei non sono spazzatura, sono una risorsa multimiliardaria che aspetta solo di essere sbloccata”, ha aggiunto Kees Baldé, coordinatore scientifico del progetto FutuRaM e ricercatore principale del Global e-Waste Monitor. “Ogni chilogrammo che recuperiamo e ogni dispositivo che ripariamo rafforza la nostra economia, riduce la nostra dipendenza e crea nuovi posti di lavoro. Avere le informazioni giuste è fondamentale per il processo decisionale e lo sviluppo di politiche volte a migliorare la gestione delle risorse”. LEGGI TUTTO

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    Ravanelli e ortaggi si coltivano a 400 km di altezza

    Coltivare ravanelli in una piattaforma spaziale, far germogliare il prezzemolo sulla Luna, seminare piccole melanzane dentro un satellite. Sembrano storie tratte da un romanzo dello scrittore Isaac Asimov, invece sono realtà. Numerose, infatti, le ricerche mirate a portare piante e ortaggi nello Spazio, dove potrebbero offrire vari benefici, tra cui fornire agli equipaggi cibo fresco ricco di vitamine, produrre ossigeno, purificare acqua e rifiuti.

    Colture a ciclo chiuso in laboratorio all’università di Napoli  LEGGI TUTTO

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    Parchi del vento: energia sostenibile e paesaggi da scoprire

    Non solo pale eoliche. In Italia ci cono luoghi dove il vento diventa il cuore di uno sviluppo turistico e ambientale sostenibile. È l’idea di Legambiente che ha pubblicato la quarta edizione della guida Parchi del vento – realizzata dall’associazione ambientalista con il contributo di Agsm AIM, RWE, Winderg, il patrocinio di ANEV – e che seleziona gli impianti eolici italiani non solo più virtuosi, ma soprattutto più integrati nel paesaggio. Veri e propri laboratori di transizione ecologica capaci di generare valore sociale e economico oltre l’energia elettrica pulita. La nuova guida mappa 29 impianti eolici lungo la Penisola. Dal cuore dell’Alto Molise, tra le creste appenniniche, alla Valle del Belice, in Sicilia, passando all’entroterra lucano e pugliese.

    Il nuovo volto del turismo ambientale
    L’idea è dunque quella del viaggio, del turismo lento. Sono tanti e diversi i luoghi dove si possono vedere da vicino questi impianti, scoprendone il loro funzionamento, e allo stesso tempo visitando territori a piedi, in bici o a cavallo e ricchi di storia, cultura, bellezze e prelibatezze culinarie. I sette nuovi impianti eolici (2 in Molise, 1 in Puglia, 2 in Basilicata, 2 in Sicilia) inseriti nella guida 2025 e che si aggiungono ai 22 censiti nelle precedenti edizioni, ne sono un perfetto esempio: il parco eolico di Vastogirardi, lungo le creste dell’Appennino molisano, in provincia di Isernia, e quello di Castelmauro in provincia di Campobasso circondato da verde e colline intervallate da piccoli borghi, in Puglia l’impianto eolico Valleverde a Bovino (FG), comune annoverato tra i borghi più belli d’Italia, quello di Partanna (TP), nel cuore della Valle Belice, e quello di Gangi, in provincia di Palermo, tra le Madonie e i monti Nebrodi, e poi in Basilicata l’impianto eolico di “Santa Tecla”, ad Avigliano (PZ), e quello di Tivano, a Lavello (PZ). Nelle pagine della guida, oltre alla scheda di presentazione di ogni impianto, si possono trovare informazioni su come arrivare nei luoghi, cosa visitare, dove andare a mangiare, quali percorsi e sentieri fare, il tutto insieme a storie e aneddoti dei territori.
    “Non sono ecomostri”
    “Per contrastare l’emergenza climatica e migliorare le condizioni sociali del nostro Paese – commenta Katiuscia Eroe responsabile energia di Legambiente – è fondamentale non solo far crescere la produzione da rinnovabili e rendere finalmente il nostro sistema energetico libero da carbone, petrolio e gas, escludendo l’inutile e costoso ritorno al nucleare, ma anche fare in modo che queste tecnologie portino sempre più vantaggi ai territori e alle comunità. Gli impianti eolici non sono né ecomostri né impianti mostruosi come affermato da alcune amministrazioni locali. Con la nostra guida turistica Parchi del Vento, grazie alla collaborazione di diversi partner, raccontiamo a cittadini, turisti, curiosi ma anche imprese e amministrazioni come un parco eolico, se ben integrato con il territorio, possa essere un volano per attirare curiosità verso i territori in cui sono ospitati, valorizzando le attività esistenti. Non dimentichiamo inoltre che, per completare la rivoluzione energetica, è fondamentale spingere sempre più sulle rinnovabili snellendo gli iter normativi e coinvolgendo le comunità locali”.

    Percorsi ciclopedonali e passeggiate a cavallo
    “Intorno ai parchi eolici che raccontiamo all’interno della Guida Parchi del Vento – aggiunge Sebastiano Venneri, responsabile turismo di Legambiente – stanno nascendo sempre più opportunità interessanti, come percorsi ciclopedonali, passeggiate a cavallo, il passaggio del Giro d’Italia. Ma anche impianti perfettamente integrati con vitigni e uliveti e che permettono di riscoprire tradizioni e culture storiche, ormai dimenticati da molti. Questi impianti sono la dimostrazione che integrare nuovi impianti nel paesaggio è non solo possibile ma anche una sfida che può essere affrontata solo con il consenso delle comunità attraverso forme innovative e affascinanti di valorizzazione delle risorse locali”.
    Il settore eolico in Italia: qualche dato
    Legambiente ricorda che in Italia l’eolico svolge un ruolo sempre più rilevante, arrivando ad agosto 2025 a quota 13.356 MW di potenza installata, di cui 685 realizzati nel 2024 e 337 nel 2025, in grado di produrre, nel 2024, complessivamente 22.068 GWh/a di energia elettrica, pari al fabbisogno di circa 8,1 milioni di famiglie. Un numero che negli ultimi vent’anni è cresciuto passando da 1.131 MW del 2004 ai numeri attuali, permettendo a questa tecnologia di produrre il 17,2% del totale prodotto da fonti rinnovabili e di fornire un contributo rispetto ai consumi complessivi italiani pari al 7%.
    Parchi eolici da visitare secondo Legambiente
    Molise
    Tra i comuni di Castelmauro e Roccavivara, nella provincia di Campobasso, si trova il parco eolico di Castelmauro (CB) di Enel Green Power Italia situato a 800 metri sul livello del mare e circondato da verde e colline. Entrato in funzione nel 2022, l’impianto dispone di 7 aerogeneratori, ognuno da 4,2 MW, per una capacità installata complessiva di 29,4 MW. Nel primo periodo di esercizio ha prodotto in media oltre 55.000 MWh di energia pulita all’anno, fornendo energia pulita e rinnovabile a 3.700 famiglie (circa un quarto delle famiglie del Molise) ed evitando l’immissione in atmosfera di 4.384 tonnellate di CO2. Merita di essere vistato il borgo di Castelmauro tra ulivi, vigneti e boschi secolari, e il castello medievale. Sempre in Molise, lungo le creste dell’Appennino, si trovano i due parchi eolici: Vastogirardi 1 e 2 di Enel Green Power Italia, immersi in un paesaggio ancora integro. Qui le 18 turbine, per complessivi 26,35 MW, seguono il ritmo del territorio. Gli aerogeneratori, distribuiti su creste tra i 1.240 e i 1.270 metri sul livello del mare a cavallo tra il Comune di Vastogirardi e quello di Capracotta. Piccoli comuni ricchi di storia e boschi, come quello di Montedimezzo, riconosciuto come parte della Riserva MaB UNESCO: 276 ettari di cerrete e faggete che compongono un ecosistema intatto, percorso da sentieri, abitato da caprioli, lupi e rapaci.
    Basilicata
    Due i parchi eolici lucani mappati quest’anno nella Guida. Il Parco eolico di Tivano, a Lavello (PZ) composto da sette aerogeneratori, per una potenza complessiva di 14 MW. Insieme, queste moderne turbine producono circa 31 GWh annui di energia pulita, sufficiente a coprire il fabbisogno energetico di circa 10.000 famiglie. Da visitare Lavello, terzo comune più popoloso della provincia di Potenza, ricco di storia e cultura, e celebre per il suo Carnevale. Nell’entroterra lucano, tra terreni argillosi che hanno ospitato storie, pastori e briganti, si erge il Parco eolico di Avigliano capace di produrre oltre 3.500 MWh annui di energia pulita. Denominato “Santa Tecla”, come la storica località che lo ospita, l’impianto ha avuto anche un importante risvolto sociale: dalla sua entrata in funzione, la società Winderg finanzia periodicamente l’APD Atletico Avigliano, squadra di calcio femminile che milita nel campionato di Eccellenza. Avigliano si distingue anche per il contesto naturalistico che lo circonda tra cui anche la sorgente del torrente Tiera, affluente del Basento.
    Puglia
    In Puglia l’impianto eolico Valleverde, nel Comune di Bovino, in provincia di Foggia, è tra i più recenti e innovativi nel territorio. Il parco è composto da nove aerogeneratori per una potenza complessiva di 63 MW, in grado di generare 141 GWh annui di energia elettrica, pari al fabbisogno di 45.000 famiglie. Con i suoi 2.893 abitanti, Bovino rientra tra i Borghi più belli d’Italia e, dal 2013, ha ottenuto la Bandiera arancione del Touring Club Italiano. Da visitare anche il Castello Ducale.
    Sicilia
    Nella Valle del Belice, nel Comune di Partanna, l’impianto eolico Partanna, inaugurato da Enel Green Power Italia nel 2021, è formato da sei turbine da 2,4 MW di potenza ciascuna per un totale di 14,4 MW in grado di generare 40 GWh anno di energia pulita, pari al fabbisogno di 10.000 famiglie. Un parco eolico aperto, senza barriere, meta di ciclisti e famiglie. Altro impianto siculo censito nel 2025 è quello di Gangi (PA) che si sviluppa sul crinale del Monte Zimmara a 1250 metri sul livello del mare. È costituito da 32 aerogeneratori, disposti in modo da risultare il più possibile omogenei in altezza, ognuno con una potenza di 850 kW, per una capacità installata complessiva di 27,2 MW. L’impianto negli ultimi 5 anni, dal 2020 al 2024, ha prodotto in media 56 GWh l’anno, sufficienti a soddisfare il fabbisogno energetico di 21.000 famiglie. Inoltre, l’energia pulita prodotta dal vento permette di evitare l’immissione in atmosfera di 42.000 tonnellate di anidride carbonica (CO2) ogni anno. Da visitare il piccolo comune di Gangi, un museo a cielo aperto, insignito nel 2014 come Borgo più bello d’Italia, e circondato dal Parco delle Madonie e da innumerevoli sentieri e percorsi come quello geoturistico del centro storico di Gangi, ideato nel 2011. LEGGI TUTTO

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    Il primo punto di non ritorno è già realtà: la perdita delle barriere coralline è irreversibile

    Dieci anni fa 196 Paesi si sedettero al tavolo per concordare un accordo storico, quello che avrebbe dovuto salvaguardare le vite del Pianeta prima che fosse letteralmente troppo tardi. Dieci anni dopo però, mentre quell’intesa è ancora lontana da essere centrata, la Terra ci restituisce il conto dell’inazione o di una battaglia troppo lenta: uno dei punti di non ritorno climatici, come il fatto che la perdita delle barriere coralline diventi irreversibile, è stato purtroppo ormai superato.

    L’Accordo di Parigi, quello in cui gli Stati si impegnavano a una politica di riduzione delle emissioni climalteranti per tentare di non superare, nelle decadi a venire, i +1,5 gradi rispetto all’era Preindustriale, non è ancora del tutto fallito: da quasi un paio d’anni siamo sopra, in media, a quella soglia, ma potenzialmente siamo ancora in tempo per evitare che aumenti a dismisura in futuro. Quello per cui invece pare non ci sia più tempo a disposizione, secondo quanto riportano 160 scienziati nel nuovo Global Tipping Points, è riuscire a salvare le barriere coralline globali. Se si pensa che questi ecosistemi siano solo una delle tante meraviglie del mondo da osservare facendo snorkeling durante una vacanza esotica vi sbagliate di grosso: in realtà, le barriere coralline, sono una vera e propria casa fondamentale per la sopravvivenza degli ecosistemi e anche delle persone. Grazie a coralli, spugne, microrganismi, animali e piante marine, le barriere offrono alla vita sott’acqua chance di sopravvivenza e riproduzione: oltre un quarto di tutto il pesce che permette a milioni di persone di vivere ad avere un’economia su cui basarsi, esiste perché esistono le barriere coralline.

    Per via delle emissioni antropiche però – avvertono i ricercatori a un mese dalla nuova Conferenza delle Parti sul clima, la COP30 che si terrà in Amazzonia – le acque degli oceani sono così cambiate, surriscaldate e acidificate, che le barriere sono entrate in una fase di decomposizione e perdita “inarrestabile”. Si tratta dunque del superamento di uno dei “tipping points”, i punti di non ritorno del collasso degli ecosistemi causato dal nuovo clima, a cui stiamo assistendo. Un declino che sarà a lungo termine ma che già ora potrebbe mettere a rischio i mezzi di sopravvivenza di centinaia di milioni di persone.

    Il nuovo report spiega che le barriere che ospitano circa il 25% di tutte le specie marine sono destinate a scomparire perché “se non torneremo a temperature medie globali superficiali di 1,2 °C il più velocemente possibile allora non riusciremo a mantenere barriere coralline di acqua calda sul nostro Pianeta su una scala significativa”. Come noto, a partire dalla Grande barriera corallina australiana, diversi di questi ecosistemi da tempo stanno affrontando collassi e periodi di sbiancamento. Nel 2023 uno dei peggiori: oltre l’80% delle barriere in circa ottanta paesi fu colpita da un aumento estremo delle temperature oceaniche tanto da spingere il futuro di queste realtà in “territori inesplorati” sostenevano gli scienziati. Due anni dopo siamo ormai “sull’orlo” del punto di non ritorno, anche se una parte dei ricercatori confida nel fatto, nonostante il declino, che alcune barriere mostrano ancora segnali di resilienza e resistenza elevati, tanto da fornire messaggi di speranza.

    Biodiversità

    Il 47% della Foresta amazzonica è a rischio: entro il 2050 il punto di non ritorno

    14 Febbraio 2024

    Sebbene la perdita dei coralli sia uno dei primi e più significativi punti di non ritorno in atto, non è l’unico. Nel rapporto gli esperti, guidati dall’Università di Exeter e con progetti finanziati anche dal proprietario di Amazon Jeff Bezos, illustrano altri tre punti critici per cui è necessario battersi: il declino dell’Amazzonia che da pozzo rischia di trasformarsi sempre di più in fonte di carbonio; il collasso delle principali correnti oceaniche e la perdita delle calotte glaciali, tutti eventi spesso collegati fra loro. Questi tipping points non sono però più ipotesi, ma qualcosa di estremamente concreto: “Non possiamo più parlare di punti di non ritorno come di un rischio futuro – sostiene Tim Lenton del Global Systems Institute dell’Università di Exeter – il primo accenno al declino generalizzato delle barriere coralline di acqua calda è infatti già in atto”.

    Per salvare le barriere – come quelle dei Caraibi che oggi sono fra le più in sofferenza – servirebbe “azioni climatiche aggressive” e migliori gestioni locali. L’approccio “locale”, con sforzi dedicati a seconda delle temperature e delle zone del mondo, è molto importante per esempio per l’Australian Institute of Marine Science che è più ottimista sul futuro delle barriere ricordando che talvolta i dati globali mascherano una significativa ” “variabilità regionale” anche se giustamente “indicando che rimane una ristretta finestra di opportunità per agire”. In generale il report avverte come le altre criticità “pericolosamente vicine” ai punti di non ritorno sono soprattutto i cambiamenti della calotta glaciale dell’Antartide occidentale e della Groenlandia che stanno perdendo ghiaccio a un ritmo accelerato, aumentando l’innalzamento del livello del mare, ma anche per esempio l’interruzione della principale corrente oceanica, l’AMOC, che è quella che regola gli inverni miti in Europa.

    Riscaldamento globale

    Il crollo della corrente atlantica è un rischio reale, il nostro clima ne sarebbe sconvolto

    di Giacomo Talignani

    29 Agosto 2025

    E poi ovviamente c’è il destino della grande foresta amazzonica, da cui potrebbe dipendere il collasso climatico su larga scala e che sarà al centro, fra un mese, della COP30 in Brasile. “Tragicamente, in alcune parti del clima e della biosfera, il cambiamento sta avvenendo rapidamente” ha ricordato Lenton, che è autore principale del rapporto. Lo stesso Lenton ha però anche riconosciuto come alcuni sforzi positivi sono oggi in corso – per esempio le rinnovabili che a livello globale hanno superato il carbone in produzione di elettricità – e che la strada dell’eliminazione dei combustibili fossili può ancora essere implementata. “Abbiamo ancora un certo potere decisionale” sul futuro, dice lo scienziato, ma questo potere deve passare per scelte climatiche precise nel tutelare la Terra tenendo conto proprio di quei punti di non ritorno che oggi sono troppo rischiosi per essere ignorati. LEGGI TUTTO

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    Il polline protegge le api da miele dalle malattie e da virus mortali

    Pesticidi, cambiamenti climatici, perdita del proprio habitat. Sono alcuni dei pericoli che corrono le api da miele, Apis mellifera. Un mix di fattori, di cui il responsabile – neanche a dirlo – è proprio l’uomo. Questi insetti, indispensabili per l’ecosistema e per quel prodotto “miracoloso” che è il miele, rischiano di venire decimati e di colpire duramente l’economia agricola. Negli Stati Uniti, infatti, dove è stato condotto lo studio di cui stiamo per raccontarvi, il processo di impollinazione contribuisce per circa 30 miliardi di dollari all’anno al settore agricolo. Ma tornando ai pericoli, ancora una volta è la natura ad aver trovato in se stessa le armi per difendersi. Una delle ultime ricerche, infatti, avrebbe scoperto che il segreto per salvare le api, si nasconde nel cibo: il polline.

    Gli scienziati, infatti, hanno scoperto che il polline contiene una sorta di medicina naturale, batteri simbiotici chiamati Streptomyces che producono composti antimicrobici in grado di combattere e neutralizzare i patogeni mortali delle api e delle piante. Le api raccolgono i batteri insieme al polline, e li immagazzinano negli alveari, creando un sistema di difesa naturale. Grazie al polline, creano uno schermo protettivo che consente loro di difendersi da pericolose infezioni.

    Fino ad oggi gli specialisti di api contano più di 30 parassiti che possono aggredire le api da miele: protisti, organismi unicellulari come la Nosema, che causa gravi infezioni intestinali; virus come quello veicolato dall’acaro Varroa; batteri che possono causare malattie come la Peste americana o europea; funghi e artropodi, principalmente gli acari, come il famigerato Varroa destructor il parassita più dannoso per l’apicoltura mondiale. Ed il numero è destinato a crescere sia per effetto della globalizzazione, che facilita la diffusione di patogeni esotici, sia per effetto dello stress ambientale.

    Ma la recente scoperta ha ipotizzato che i cosiddetti endofiti, ovvero batteri e funghi simbiontici che vivono all’interno dei tessuti delle piante, a differenza dei parassiti, non causano danni al loro ospite, ma stabiliscono una relazione di simbiosi, spesso vantaggiosa per entrambi. Gli endofiti traggono beneficio quando chi li ospite viene impollinato, poiché il successo riproduttivo della pianta, assicurato dall’impollinazione, è indirettamente vantaggioso anche per i microbi che vivono al suo interno. La pianta, infatti, ha bisogno dell’impollinatore, cioè l’ape, e i microbi hanno bisogno che la pianta si riproduca. Ne consegue che i microbi potrebbero evolvere un meccanismo per proteggere il “veicolo”.

    Secondo l’ipotesi degli scienziati, gli endofiti possono sviluppare e rilasciare composti bioattivi che riescono a mantenere sani gli impollinatori che visitano la pianta. Questi composti potrebbero agire come antibiotici naturali, antivirali o potenziatori immunitari che, una volta ingeriti dalle api (attraverso nettare o polline), le aiutano a combattere i loro numerosi parassiti. Si creerebbe, in sostanza, una complessa alleanza ecologica tra pianta, microbo e impollinatore.

    “Abbiamo scoperto che gli stessi batteri benefici si trovano nelle scorte di polline delle colonie di api da miele e sul polline delle piante vicine”, ha evidenziato Daniel May, membro della facoltà presso il Washington College nel Maryland, che ha aggiunto: “Abbiamo dimostrato anche che questi batteri hanno prodotto composti antimicrobici simili che uccidono i patogeni delle api e delle piante, rendendoli un ottimo punto di partenza per nuovi trattamenti per i raccolti e gli alveari.”

    Ma come si è arrivati a queste importanti conclusioni? Il dottor May ed i suoi colleghi si sono concentrati sui batteri del phylum actinobacteria, la fonte di circa i due terzi degli antibiotici attualmente in uso clinico. Hanno raccolto il polline da 10 specie vegetali native nella Lakeshore Nature Preserve presso l’Università del Wisconsin e il polline dalle scorte di un vicino alveare di api da miele. Dopodiché hanno isolato 16 ceppi di actinobacteria dalle piante e 18 ceppi dalle scorte di polline all’interno dell’alveare.

    Il sequenziamento del genoma ha rivelato che le stesse specie o comunque strettamente correlate si trovavano in entrambi i tipi di campioni. Insomma i ceppi batterici isolati dal polline dei fiori nativi e quelli recuperati dalle scorte di polline delle arnie mostravano una straordinaria somiglianza. La maggioranza, circa il 72%, apparteneva al genere Streptomyces, la fonte di molti composti usati in medicina e agricoltura, ad esempio come antibiotici o come farmaci antitumorali e antiparassitari. Questa grande somiglianza genetica supporta l’idea che le api, durante la foraggiatura – come abbiamo detto – raccolgano involontariamente gli endofiti, che vivono all’interno dei tessuti vegetali e li portano velocemente nell’alveare, dove i batteri agiscono come un vero e proprio farmaco naturale.

    La scoperta dimostra che questi Streptomyces forniscono una difesa bifunzionale, proteggendo sia la pianta che l’impollinatore. L’approccio futuro potrebbe concentrarsi sull’introduzione dei giusti ceppi benefici negli alveari per rafforzarne il sistema immunitario, riducendo la dipendenza da antibiotici di sintesi. LEGGI TUTTO

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    Paolo Nespoli: “Dallo Spazio capisci che le azioni di ognuno di noi hanno un impatto su tutti”

    “Andare nello Spazio mi ha reso un terrestre migliore. Ora ho molta più consapevolezza dell’ambiente in cui mi muovo e so che devo conviverci, non solamente sfruttarlo“. Paolo Nespoli, 68 anni, in orbita intorno al Pianeta non solo ci è stato: ci ha trascorso complessivamente quasi un anno, 313 giorni, 2 ore e 36 minuti per la precisione, in tre missioni sulla Stazione spaziale internazionale (Iss), nel 2007, 2010, 2017. Esperienze straordinarie che lo hanno trasformato dal punto di vista umano e professionale.

    Da “ragazzo scapestrato” degli anni Settanta, in cerca di identità, a paracadutista e incursore dell’esercito con tanto di missione in Libano con il contingente italiano nel 1982 a laureato in ingegneria, per poi riuscire a coronare un sogno che aveva da bambino: diventare astronauta. Nespoli entra nell’Agenzia spaziale europea nel 1991 e nove anni dopo lascia la Terra per la prima volta a bordo dello Space Shuttle. Nelle tre missioni, sarà ingegnere di bordo, gestirà esperimenti sulla crescita delle piante nello Spazio e test sul corpo umano in assenza di gravità. Un bagaglio di competenze che ora condivide con gli studenti del Politecnico di Milano, ma anche in incontri con scolaresche e aziende.

    Paolo Nespoli, cosa si impara a guardare la Terra da 400 chilometri di altezza?
    “Che è bellissima. Dalla Iss si gode di una visuale eccezionale“.

    E perché andare nello Spazio è importante per il nostro Pianeta?
    “Le tecnologie spaziali ci danno la possibilità di guardare la Terra e di misurarla attentamente. Uno dei problemi è proprio quello di avere dati precisi che confermino quello che stiamo percependo con i nostri sensi. Possiamo dire: fa caldo, fa freddo, piove troppo… ma di fatto queste osservazioni vanno sostanziate con dati tecnici precisi. E negli ultimi decenni siamo riusciti a costruire satelliti in grado di fare misure rigorose della temperatura, dell’umidità, dello stato di salute delle foreste, delle superfici dei ghiacciai… Dallo Spazio tutte queste cose si possono verificare in modo molto accurato“.

    Lei si è occupato anche di questo tipo di ricerche nelle sue missioni in orbita?
    “Noi astronauti guardiamo il pianeta dalla Stazione spaziale, ma le nostre sono osservazioni ‘personali’. Vediamo cose straordinarie, nel bene e nel male, ma non riusciamo a misurarle. Ed è anche difficile percepire i cambiamenti, perché ciascuno di noi ha una permanenza in orbita di alcuni mesi: un periodo troppo breve per poter percepire variazioni apprezzabili. Però c’è una cosa che lassù si capisce benissimo“.

    Quale?
    “Dallo Spazio non si vedono i confini politici tra nazioni: in pochi minuti passi dall’Europa all’Asia e dall’Asia all’Australia. Qui sulla Terra, invece, come specie umana controlliamo ossessivamente le frontiere, senza renderci conto che sopra le nostre teste c’è un confine unico, uguale per tutti che si chiama atmosfera: un muro che ci separa dallo spazio e che non è diviso per Stati. Quello che faccio nel mio giardino di casa può avere un impatto su tutti. Mentre noi pensiamo di agire solo sull’area che ci sta attorno, stando in orbita si capisce che il nostro agire influenza tutto il sistema planetario».Diceva della visuale eccezionale che di gode dalla Iss… Solo perché è in orbita intorno alla Terra? O ci sono motivi specifici?«La Stazione viaggia a una velocità di 28 mila chilometri orari, circa 8 chilometri al secondo. Questo comporta che i suoi abitanti vedano l’alba e poi il tramonto dopo un’ora e mezza: 16 albe e 16 tramonti nelle 24 ore. Di notte la Terra è molto bella, perché tutti i posti dove ci sono gli esseri umani si illuminano: è come un albero di Natale su cui si accendono le lucine, di notte si vedono solo le lucine e non l’albero. Ed è allora che capisci come la specie umana sia dappertutto sul Pianeta“.

    Affacciati all’oblò della Iss, si percepisce il nostro impatto sulla Terra?
    “Si vedono ammassi incredibili di persone. Ricordo che mi colpì Tokyo: 37 milioni di persone in un’area relativamente piccola. Dalle sue luci viste dallo Spazio si può immaginare come stiano usando le risorse in modo massiccio: energia elettrica, acqua, riscaldamento, raffreddamento, rifiuti, strade… Tutte queste cose si vedono benissimo dallo Spazio e si capisce come noi umani questo Pianeta l’abbiamo preso tutto. È nella logica delle cose, ma dovremmo fare in modo che la Terra riesca a riciclare quello che noi produciamo come scorie. Finché eravamo in pochi, la Natura ce la faceva, ma oggi inquiniamo tutti i fiumi, i mari, l’aria, e produciamo tanta di quella energia che poi va a scaldare i ghiacciai e la temperatura della Terra».Nelle sue missioni ha fatto bellissime foto…«Il bello del sorvolo a 28 mila chilometri orari è che vedi tutti gli oceani, i continenti. ? molto poetico: ti permette di spaziare dai deserti all’Everest in pochissimo tempo. Dall’altro lato hai poco tempo per assimilare quello che stai vedendo. È per questo che cercavo di fotografare le cose belle che vedevo, per poterci riflettere con attenzione poi più avanti“.

    Quali scatti ricorda tra i migliori?
    “Quelli dei deserti, che sono bellissimi: distese di sabbia con colori incredibili, E poi i laghi salati, le piramidi, i Caraibi: l’acqua è relativamente bassa e si vede la sabbia dei fondali con colori sgargianti. Ho cercato la Muraglia cinese ma non sono riuscito a trovarla, così come dallo Spazio non si vedono i disegni di Nazca…“

    E l’Italia?
    “Veramente bella. Si vedono le città, le isole, sulla nostra Penisola tutto è facilmente riconoscibile. Volevo fare una foto del centro astronauti Esa a Colonia, in Germania: non riuscivo a trovarlo, ci ho messo quattro mesi. Ma se volevo fotografare Pisa, La Spezia, Roma… era facilissimo individuarle. Milano già è un po’ più difficile“.

    E però ricordiamo proprio una sua foto della Pianura Padana: invasa da una nube scura. Lei la pubblicò dallo Spazio su un social network il 18 ottobre 2017 con la didascalia “Nebbia o smog?”
    “La settimana dopo il sindaco di Milano bloccò la circolazione delle auto in città. Credo di essermi beccato le maledizioni di molti milanesi“.

    Quali altri danni umani si colgono “a vista” dallo Spazio?
    “In Amazzonia si vedono i segni di una deforestazione brutale: come delle smagliature sul tappeto verde di alberi. Altra cosa, il fumo generato dagli incendi. Sono cose che ti fanno riflettere su quello che dovremmo fare perché questo Pianeta possa continuare a sostenerci“.

    È preoccupato per il futuro della Terra?
    “Per quello dell’umanità. Pensiamo di dover stare attenti per non distruggere la Terra, ma non abbiamo questo potere: possiamo distruggere invece la nostra presenza qui. Il Pianeta non sparirebbe con noi: la Terra ha cicli di milioni di anni. Se anche si sciogliessero tutti i ghiacci noi ci troveremmo in grande difficoltà, forse spariremmo. Ma la Natura nel giro di qualche era rifarebbe tutto quello che abbiamo distrutto. E forse noi non saremmo più previsti…“.

    Ha senso cercare un “pianeta B” su cui far migrare l’umanità nel caso la Terra divenga per noi inospitale?
    “Siamo quasi alla fantascienza. Ma come possiamo immaginare di cosa saremo capaci tra 100, 500 o mille anni? Sono però convinto nel breve termine dobbiamo continuare a esplorare quello che ci sta attorno. Questo desiderio di conoscenza è una delle caratteristiche umane: ci ha fatto fare cose straordinarie e apparentemente prive di senso. Tra la Luna e Marte sceglierei Marte, perché sulla Luna ci siamo già stati e dobbiamo continuare l’esplorazione del Sistema Solare, anche se sappiamo che non ci sono pianeti in grado di ospitarci. Quelli vanno cercati più lontano intorno alle stelle simili al Sole“.

    Le grandi agenzie spaziali pubbliche, come Nasa ed Esa, sembrano essere in difficoltà, ora che lo Spazio sta diventando terreno di conquista di aziende private. È una cosa che la preoccupa??
    “È un passaggio obbligato, che va vissuto come uno sviluppo interessante e non come un problema. Per esempio, finora le agenzie pubbliche hanno mandato in orbita noi astronauti professionisti, tecnici super specializzati nel fare esperimenti. Ma nello Spazio si sente la mancanza di giornalisti scrittori, poeti, artisti. E d’altra parte gli Stati non possono mica fare le agenzie di viaggio, quindi è giusto che siano i privati, per fare introiti, a portare in orbita persone con competenze diverse da quelle scientifiche“.

    Non c’è il rischio di un disinvestimento sulla ricerca scientifica nello Spazio, anche quella che si occupa di monitorare lo stato di salute della Terra?
    “Non vedo questo pericolo. Ma certo i governi devono continuare a investire in attività che non hanno un ritorno economico e però sono utili alla società. Per esempio, una volta dismessa la Iss andrebbe certamente costruita una nuova stazione spaziale“. LEGGI TUTTO