Ottobre 2025

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    In Sicilia i volontari antincendio salvano i boschi dai piromani: “Uniamoci per proteggere la terra”

    Nella Sicilia nord-occidentale, là dove il paesaggio si apre tra colline e vigne, sorge fiero il Monte Bonifato, massiccio calcareo che domina la città di Alcamo. Sulla sua sommità, vive un bosco fitto e rigoglioso di conifere, latifoglie, lecci, roverelle, dove si aggirano volpi, conigli selvatici, ricci, ma anche tordi, poiane e picchi rossi. Nel 1984 il territorio, ampio 314 ettari, è diventato una riserva naturale, affidata alla Provincia di Trapani.

    Biodiversità

    Incendi e crisi climatica stanno decimando le libellule

    a cura della redazione di Green&Blue

    12 Settembre 2025

    Una lunga storia di fiamme e distruzione
    Una zona, questa, nota per la vulnerabilità agli incendi, spesso di origine dolosa. Un rogo divampato nel 2012 ha distrutto gran parte della cima della montagna, mentre nell’estate del 2015 le fiamme hanno reso necessario l’intervento di vigili del fuoco, corpo forestale ed elicotteri. Per arginare il fenomeno, nel 2016 le istituzioni hanno affidato la manutenzione del bosco agli agenti di vigilanza: nonostante alcuni interventi, la situazione non è migliorata. Così varie associazioni, tra cui il presidio locale di Libera, hanno chiesto a gran voce interventi rapidi nel timore di ulteriori disastri: preoccupazioni che si sono rivelate fondate, visto che gli incendi si sono ripetuti negli anni seguenti distruggendo la vegetazione.

    Il successo dell’azione collettiva dal basso
    Di fronte all’inerzia degli enti, gli abitanti della zona si sono organizzati in autonomia per proteggere il territorio. Nell’estate del 2024 è nata un’esperienza di sorveglianza popolare antincendio, promossa dal collettivo ambientalista Muschio ribelle. La mobilitazione ha avuto come base operativa l’ex ostello della Funtanazza, in seguito sgomberato dalla Provincia. Con buona volontà e attrezzature di base, i volontari hanno assicurato una presenza quotidiana nei mesi più caldi e asciutti, fungendo da sentinelle contro possibili piromani. Un impegno che ha dato i suoi frutti: per la prima volta dopo molto tempo, nessun rogo ha colpito il bosco.

    Riuso

    Los Angeles, la nuova vita del legno dopo gli incendi

    di Paolo Travisi

    11 Settembre 2025

    Nell’estate del 2025 l’opera è proseguita, grazie a 28 volontari provenienti da Alcamo, dai Comuni vicini, come Castellammare del Golfo, Calatafimi, Trapani-Erice, e perfino da altre regioni. Concentrandosi sui giorni più critici, nei quali soffia il vento di scirocco, i cittadini hanno effettuato turni di perlustrazione per un totale di 10 giornate di allerta e circa 58 ore di presenza. Muniti di giubbotti ad alta visibilità, binocoli, cellulari, blocchetti di carta per annotare numeri di targa o movimenti anomali, si sono rivelati un utile deterrente: anche quest’anno, infatti, nessun incendio è stato appiccato nelle aree sorvegliate.

    L’appello agli enti locali
    L’iniziativa popolare ha sensibilizzato gli enti preposti, anche se per quanto riguarda la collaborazione ufficiale permangono problemi.

    Biodiversità

    Così i castori possono aiutare a mitigare gli incendi

    di Sandro Iannaccone

    08 Settembre 2025

    “Abbiamo denunciato, per esempio, la presenza di discariche abusive ai piedi del monte, che aumentano il rischio incendiario”, fa sapere Baldo Lucchese, esponente di Muschio ribelle. “Dopo avere promesso un intervento con i droni, l’amministrazione non vi ha dato seguito. Parallelamente, resta irrisolta la questione della gestione della Funtanazza, bene pubblico che rischia di essere nuovamente abbandonato, perdendo l’opportunità di farne un presidio permanente per la riserva. La speranza è che le istituzioni non ci percepiscano come una minaccia, ma come una risorsa da integrare nelle strategie di gestione del patrimonio ambientale”.

    In attesa che questa auspicata sinergia si concretizzi, gli attivisti lanciano il loro appello: “Uniamoci per proteggere e rigenerare la nostra terra. Possiamo essere le gocce che spengono gli incendi”. LEGGI TUTTO

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    Come coltivare l’osmanto profumato

    Apprezzato per il suo fascino unico, l’Osmanthus fragrans incanta con i suoi piccoli fiori delicati, color bianco crema, giallo tenue e arancio. Eleganti, riuniti in grappoli e profumatissimi, fanno la loro comparsa in autunno e, oltre che per il loro aspetto incantevole, sono noti per il loro profumo intenso e dolce.

    Questa straordinaria pianta ornamentale non si distingue solo per la bellezza e la sua fragranza, ma anche per la notevole resistenza. Può essere coltivata in giardini, terrazzi e balconi, abbellendo ogni spazio in cui si trova. Con cure adeguate e azioni mirate, l’Osmanthus fragrans cresce in modo rigoglioso, potendo contare su una fioritura abbondante.

    Dove collocare l’osmanthus fragrans
    Chiamato anche osmanto profumato, l’osmanthus fragrans è originario di Cina e Giappone e appartiene alla famiglia delle Oleaceae. Questo arbusto sempreverde è noto in particolare per i suoi piccoli fiori molto profumati, la cui fragranza ricorda la vaniglia, ma evoca anche le note dell’albicocca e del gelsomino. Il nome stesso della pianta richiama questa caratteristica: osmanto deriva dal greco osmè, che significa odore, e anthos, che indica fiore.

    Ampiamente utilizzato per decorare parchi e giardini, presenta un portamento eretto e foglie verdi scure, lucide e dalla forma ovale. Può superare i 3 metri di altezza se coltivato in giardino e generalmente fiorisce durante l’autunno, tra settembre e novembre, anche se alcune varietà possono fiorire precocemente in primavera oppure avere una doppia fioritura.

    Coltivare l’Osmanthus fragrans è semplice, tenendo conto che si adatta a molteplici condizioni climatiche e terreni: grazie alla sua resistenza, l’arbusto richiede una bassa manutenzione, essendo alla portata sia di esperti di giardinaggio che di principianti.

    Prima di procedere con la semina, è fondamentale individuare il luogo più adatto in cui farlo crescere. L’Osmanto profumato preferisce il pieno Sole, che gli consente di fiorire in modo abbondante, pur tollerando anche la mezzombra. Quanto al terreno, richiede un substrato ben drenato, fertile e leggermente acido, dovendo aggiungere ghiaia o sabbia qualora sia troppo argilloso. La sua robustezza lo rende resistente, ma non tollera la salsedine, le temperature sotto lo zero e i venti freddi. Se coltivato all’aperto, in caso di clima rigido è necessario proteggerlo, ricorrendo ad esempio a uno strato di pacciamatura da porre alla sua base.

    Come coltivare l’Osmanthus fragrans
    Per coltivare l’Osmanthus in giardino bisogna considerare come il freddo intenso sia suo nemico e pertanto è consigliato procedere con la semina in piena terra nelle zone dal clima mite. I semi, avendo un guscio duro, vanno leggermente scarificati con un coltellino oppure della carta vetrata e poi lasciati in ammollo per 24 ore e successivamente conservati in frigo fino alla semina.

    In un terreno ben drenato, i semi vanno interrati a una profondità di 1-2 centimetri, coprendoli leggermente con la terra e lasciando tra ciascuno una distanza di 5-10 centimetri. Una volta cresciute, le piantine possono essere trapiantate a una distanza di 2-3 metri oppure, se si desidera realizzare una siepe, di 80 centimetri. L’Osmanthus fragrans può essere moltiplicato anche tramite talea e va trapianto preferibilmente in primavera. In caso di trapianto, occorre scavare una buca profonda e larga il doppio rispetto al vaso in cui si trova, ponendo sul fondo del fertilizzante a lenta cessione e procedendo poi con l’irrigazione.

    La coltivazione in vaso dell’Osmanto profumato è consigliata nelle zone con inverni molto freddi, visto che permette di spostare la pianta all’interno quando le temperature diventano rigide. Il vaso scelto deve avere una grandezza sufficiente che sia almeno 15-20 centimetri di diametro: per migliorare il drenaggio, sul fondo del recipiente si può collocare uno strato di biglie di argilla espansa. I semi vanno interrati a una profondità di 1-2 centimetri, mantenendo tra loro una distanza di 3-5 centimetri. Ogni 2-3 anni è necessario procedere con il rinvaso per garantire lo sviluppo corretto delle radici, ricorrendo a un contenitore più capiente.

    Cura dell’Osmanthus fragrans
    Oltre che apprezzato per la sua bellezza, l’osmanthus fragrans ha il pregio di non richiedere cure impegnative. Dal punto di vista delle irrigazioni, l’arbusto deve essere annaffiato in modo abbondante e costante, soprattutto in estate e primavera, se coltivato in vaso e in caso di piantine giovani. È sempre fondamentale evitare i ristagni idrici, responsabili dell’insorgere di malattie fungine e di danni alle radici. Durante l’inverno le irrigazioni possono essere ridotte.

    Dopo la fioritura si può procedere con la potatura, rimuovendo i rami malati, secchi e danneggiati, accorciando quelli irregolari e troppo lunghi e alleggerendo la chioma. La pianta va concimata in autunno o in primavera per stimolare il suo sviluppo.

    Consigli utili per la manutenzione dell’Osmanthus fragrans
    Pur essendo un arbusto molto resistente, l’Osmanthus fragrans presenta alcune criticità, che richiedono interventi immediati. Tra queste spiccano le foglie ingiallite o colpite da macchie brunastre, causate generalmente dalla ruggine, da trattare con prodotti specifici. L’ingiallimento delle foglie può essere dovuto anche da una carenza di ferro, responsabile inoltre della caduta precoce dei fiori. Quando il fusto appare indebolito, le foglie arricciate e le radici sofferenti si può sospettare di un drenaggio insufficiente, un terreno scarso di nutrienti e una carenza di calcio.

    Tra le altre problematiche che possono insorgere spicca il marciume radicale dettato dai ristagni idrici e responsabile di una crescita rallentata e della caduta delle foglie.

    La pianta è raramente colpita da afidi e cocciniglia, ma questo può accadere soprattutto se il clima è caldo e asciutto, chiedendo di intervenire prontamente con rimedi naturali come olio di lino, di neem e sapone molle o altri prodotti ad hoc. LEGGI TUTTO

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    Oceani sempre meno verdi, negli ultimi 20 anni è diminuito il fitoplancton

    Per la maggior parte blu, ma a volte, a tratti in maniera più o meno apprezzabile, anche verde. Parliamo dei colori di mari e oceani, dove vivono, tra gli altri, piccolissimi e preziosi organismi complessivamente noti come fitoplancton, come alghe e batteri fotosintetici, alla base della catena alimentare marina. Ma a viverci sono sempre meno: […] LEGGI TUTTO

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    Le scienziate: “Catturiamo le emissioni delle navi per aiutare gli oceani”

    Accompagnata dal ruggito dei motori, una portacontainer attraversa il Mediterraneo lasciando dietro di sé fumi inquinanti, che contribuiscono all’acidificazione degli oceani e al riscaldamento globale. Oggi il trasporto marittimo è, infatti, responsabile di circa il 2-3% delle emissioni di gas serra, una percentuale da ridurre con urgenza. A cimentarsi in questo ambizioso obiettivo sono due giovani scienziate: Alisha Fredriksson, laureata in business e scienze ambientali alla Minerva University, e Roujia Wen, con una laurea all’Università di Cambridge, nel Regno Unito, cui è seguito un master in fisica teorica. Insieme hanno fondato nel 2021, a Londra, la startup Seabound, ricoprendo rispettivamente i ruoli di amministratore delegato e di consulente tecnica.

    All’interno dell’azienda si è sviluppato il sistema chiamato Onboard Carbon Capture, una tecnologia basata sul principio del calcium looping, cioè su un ciclo chimico di assorbimento e rigenerazione del carbonio.

    Come funziona il sistema
    In pratica, i vapori di combustione prodotti dal motore della nave vengono convogliati in un contenitore riempito di piccole pietre bianche di calce viva, che reagiscono con l’anidride carbonica presente negli scarichi trasformandola in calcare, una sostanza solida sotto forma di minuscoli sassolini, facilmente stivabili a bordo. LEGGI TUTTO

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    Per salvarci dal riscaldamento globale dobbiamo “cambiare approccio”

    Mentre tutto cambia, fuori dalle finestre delle aule dell’Isola di San Servolo – dove studiano i giovani della Venice International University – si intravede un promemoria che ricorda a tutti una tendenza che non muta affatto: il livello del mare, qui, continua a crescere. In Laguna il livello del mare aumenta ogni anno, secondo uno studio dell’INGV, di quasi 0,59 centimetri: di questo passo gli esperti temono che entro il 2150 un’area di 139 chilometri quadrati della città di Venezia finirà per essere sommersa. Per questo, non a caso, proprio nel cuore della Laguna – davanti a San Marco e sull’isola di San Servolo – da giovedì centinaia di studenti, professori, esperti, policy makers, politici e rappresentanti del mondo dell’industria si sono dati appuntamento per la quarta Dolomite Conference “Global Governance del Climate Change and Sustainability – Venice Edition”, un appuntamento organizzato dal think tank Vision che mira a prendere di petto la questione climatica. L’idea base della conferenza è quella di mettere a confronto giovani ed esperti e trovare soluzioni pragmatiche da indicare e discutere in vista della COP30, la grande conferenza delle parti sul Clima che inizierà a novembre a Belem, nel cuore dell’Amazzonia.

    Oltre 100 i partecipanti a confronto: il 43% ha meno di 35 anni e più di un terzo è rappresentato da donne. In sostanza, agli stessi giovani di università quali Bocconi, Polimi, Ca’ Foscari e LUISS, tutti preoccupati per il loro futuro che sarà inevitabilmente condizionato dalla crisi del clima, viene offerta la possibilità di misurarsi con il mondo delle aziende e della politica per indicare in maniera concreta le scelte necessarie “non tanto per salvare il Pianeta, ma più che altro l’umanità” ricorda il professor Francesco Grillo, direttore di Vision. Chiusi nelle stanze di San Servolo, all’interno di quelli che vengono chiamati PSGG, i giovani lavorano così per elaborare soluzioni che verranno poi inserite nel Manifesto delle Dolomiti, documento che sarà presentato direttamente alla COP30. Per esempio si ragiona – grazie a un caso studio fatto sulle città di Barcellona e Atene – su quali strumenti di finanza pubblica e privata siano necessari per migliorare l’adattamento delle persone nelle città che si riscaldano e restano senz’acqua, suggerendo come un maggior coinvolgimento della finanza privata possa portare a benefici per i cittadini. Oppure, parlando di rifiuti, ci si interroga come possano le città andare oltre la differenziazione per migliorare la circolarità e la trasparenza lungo l’intera filiera o ancora come dovrebbero essere ridisegnate e riprogettate le città in grado da poter ospitare al meglio l’evoluzione dei veicoli a guida autonoma che, in futuro, saranno un modo per “per spostare persone e merci in modo più sostenibile”.

    L’evento

    Verso Cop30, a Venezia la Dolomite Conference sul clima

    di Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2025

    E quali incentivi servirebbero – per esempio per rendere le città più green – per riuscire a coinvolgere di più i cittadini sia nel processo della transizione energetica sia nel ristrutturare abitazioni e infrastrutture energivore e fortemente emissive che oggi peggiorano la crisi del clima?. Sono tutte domande che gli studenti si pongono, e a cui tentano di trovare risposte, dopo un periodo estremamente difficile in cui il mondo sembra aver perso fiducia (e investimenti) nella lotta alla crisi del clima necessaria proprio per scongiurare scenari drammatici come quelli dell’innalzamento dei mari a Venezia, per esempio. Se ci pensiamo bene, ricorda Oliver Morton di The Economist, negli ultimi “tre anni è cambiato tutto. Prima il mondo ha imparato a uscire da una pandemia devastante, poi ci sono state le elezioni di Donald Trump. Nel mezzo due conflitti, l’imminente crescita dell’intelligenza artificiale e un’economia stravolta. Però una cosa non è cambiata: la tendenza delle temperature a salire, tanto che gli ultimi tre anni sono stati nuovamente fra i più caldi della storia”. E allora, chiede il giornalista scientifico ad una serie di relatori della Dolomites Conference, come possiamo fare a rimettere la questione climatica al centro?. La risposta, per tutti, è che bisogna cambiare, ripartire da come il nuovo mondo è stato ridisegnato negli ultimi tre anni e trovare dunque nuove soluzioni. Per l’ex ministro dell’Ambiente del Brasile, Izabella Teixeira, il cambiamento in atto ha portato attualmente a comandare nelle stanze “la politica, e non la politica climatica, quella che servirebbe ripristinare. Se vogliamo soluzioni al problema delle emissioni climalteranti dobbiamo partire dalle differenze: ogni Paese, e soprattutto quelli inquinatori, deve impegnarsi di più nei suoi NDC (i piani climatici) e renderli fattibili. Ma ci vuole anche più ambizione e cambiare approccio, un approccio che oggi deve mettere al centro le nuove sfide, che non sono più quelle di ieri, ma sono diverse, come per esempio la corsa ai minerali critici e alle risorse naturali che si sta verificando”.

    Che “qualcosa è cambiato”, parafrasando il titolo di un famoso film, è evidente anche per Carlo Carraro, ex rettore della Ca’ Foscari che ha lavorato ai rapporti dell’IPCC (Gruppo intergovernativo cambiamenti climatici). “Fra tante cattive notizie ci sono anche segnali incoraggianti – dice – come il fatto che in alcune aree, in Europa o Giappone o Gran Bretagna ad esempio, le emissioni stanno scendendo. Il problema è che la velocità a cui scendono, rispetto a quella con cui avanza il riscaldamento, è insufficiente. Però a mio parere per continuare a ridurle, per investire su questo cambiamento, abbiamo bisogno di cambiare e modificare i target, rivedendoli in maniera più realistica, dato che quello dei +1,5 gradi ad esempio ormai non lo è più. Rivedendo i target possiamo poi ripartire con nuovi obiettivi dai nuovi paesi industrializzati con strategie più concrete e fattibili. E poi, quello che servirebbe, è trovare un modo per ridistribuire i flussi di investimento: oggi sono spesso diretti verso la mitigazione, ma serviranno sempre di più per qualcosa di meno profittevole, come l’adattamento, perché la crisi del clima possiamo ridurla, ma non eliminarla”.

    Infine, aggiunge l’ex ministro Enrico Giovannini, direttore dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, per trovare nuovi strumenti nella lotta alla crisi climatica bisogna anche “cambiare linguaggio, usare nuove parole e concetti che colpiscano in maniera più diretta le persone. Negli ultimi tre anni abbiamo perso una cosa molto importante: i giovani nelle strade, come quelli di Fridays for Future, che ci ricordavano l’importanza di agire. Nel frattempo a livello internazionale tendiamo a cooperare sempre meno e competere di più e in questo contesto i cittadini si sono allontanati dalla questione climatica, spesso anche perché certi aspetti appaiono poco visibili. Se però, come ha fatto l’ex governatore Arnold Schwarzenegger, si parla direttamente di danni alla salute per inquinamento, le persone allora tendono ad ascoltare e ad unirsi alla battaglia”. Perché quindi – chiede Giovannini in una Venezia che soffre proprio di inquinamento – non parlare per esempio sempre di più di come smog e crisi del clima portano a 300mila morti premature ogni anno in Europa? Forse ci aiuterebbe a cambiare”. LEGGI TUTTO

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    Il frutto della discordia: l’olio di palma e la forza delle nostre scelte

    C’è un filo invisibile che collega le foreste pluviali del Borneo agli scaffali dei nostri supermercati. È la storia dell’olio di palma: il grasso vegetale più economico, versatile e controverso del Pianeta. Una storia che parla di deforestazione, biodiversità in pericolo, salute pubblica e, sorprendentemente, del potere dei consumatori. Quello nostre scelte.
    Ma facciamo un passo indietro.

    L’ascesa dell’ingrediente “perfetto”
    Sono gli anni ’90 quando l’industria alimentare scopre nell’olio di palma l’ingrediente perfetto: un prodotto che rimane semi-solido a temperatura ambiente, insapore, capace di garantire una lunga conservazione dei prodotti, facile da lavorare ed economico. La domanda esplode, il suo impiego diversifica e l’olio di palma diventa un ingrediente chiave in ambiti disparati. Si trova in biscotti, gelati, crackers ma anche saponi, cosmetici, e persino come componente dei biocarburanti.

    Il Fuoco e l’inizio della crisi globale
    Le prime immagini satellitari, però, iniziano a rivelare un impatto devastante: ettari di foresta primaria tropicale in Indonesia e Malesia scompaiono fra le fiamme, sostituiti da immense distese di monocolture di palma da olio. Tra il 2001 e il 2015, le piantagioni di palma da olio crescono di 22 milioni di ettari, con un incremento dell’impronta del 167% a livello globale. Le province di Kalimantan, Riau e Sarawak, situate tra Indonesia e Malesia, si affermano come epicentri di questa espansione, dove oltre la metà delle foreste naturali viene sostituita dalle coltivazioni Anche nel Borneo, caratterizzato da una biodiversità unica e straordinaria, il 50% della perdita di foreste tra il 2005 e il 2015 è direttamente legato alla diffusione della palma da olio. di biodiversità. Alla deforestazione si aggiungono altri impatti devastanti: la distruzione delle torbiere, l’aumento degli incendi, l’inquinamento dell’aria e delle acque e le crescenti emissioni di gas serra. Tutto ciò minaccia gravemente sia la biodiversità sia i mezzi di sussistenza delle comunità locali. Le prime denunce delle organizzazioni ambientaliste cercano di portare alla luce questo enorme disastro, senza grandi risultati.

    Biodiversità sotto assedio
    Secondo l’IUCN, almeno 193 specie rischiano l’estinzione a causa della conversione delle foreste in piantagioni, tra cui tutte e tre le specie di orango, la tigre e il rinoceronte di Sumatra, oltre a gibboni, tapiri malesi, pangolini e macachi. Molti uccelli hanno perso fino all’80% del loro habitat e alberi e piante endemiche sono state cancellate nel momento in cui le foreste pluviali sono diventate vaste monoculture. L’orango è il volto internazionale della lotta contro la deforestazione da olio di palma, ma la crisi non è solo ecologica: intere popolazioni indigene vengono cacciate dalle loro terre, private dei mezzi di sussistenza e dei loro diritti tradizionali. L’olio di palma diventa così il simbolo di uno sviluppo insostenibile, il volto oscuro della nostra domanda di cibo (e non solo) a basso costo. L’allarme del movimento ambientalista resta però a lungo inascoltato.

    Il risveglio dei consumatori
    Nel 2016, come nel miglior colpo di scena, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) lancia l’allarme: durante i processi di raffinazione ad alte temperature (oltre i 200°C) a cui è sottoposto l’olio di palma, si formano contaminanti potenzialmente cancerogeni, e altri rischiosi per reni e fertilità maschile. I livelli di esposizione, soprattutto per bambini e adolescenti, sono stati giudicati motivo di “grave preoccupazione per la salute”, poiché possono superare le dosi giornaliere raccomandate. L’allarme sanitario si aggiunge a quello ambientale creando un cocktail esplosivo di paura. L’Italia reagisce con forza e si intensifica la già iniziata “palm oil-free mania”: migliaia di consumatori armati di smartphone, blog, inchieste televisive, campagne social e app scandagliano etichette e codici a barre. La scelta di non mettere nel carrello un prodotto con olio di palma diventa una rivoluzione silenziosa guidata dai consumatori, che spinge l’industria alimentare italiana a rivedere le proprie ricette e a rimuovere in poco tempo un ingrediente che sembrava insostituibile.

    La via sostenibile
    Oggi, grazie al materiale scientifico a disposizione, la vera questione non è se usare l’olio di palma, bensì come viene prodotto. Bandirlo completamente, sposterebbe la domanda verso colture alternative potenzialmente anche più impattanti. La palma da olio, infatti, è la coltura oleaginosa più efficiente al mondo, in grado di produrre fino a cinque volte più olio per ettaro rispetto alla soia, alla colza o al girasole. La sfida è promuovere una produzione di olio di palma sostenibile, certificata e trasparente, guidando il mercato verso pratiche responsabili che proteggano foreste, biodiversità e comunità locali senza sostituirlo con colture non necessariamente più sostenibili ì. La risposta a questa sfida sono le certificazioni come l’RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), che il WWF sostiene e sollecita a migliorare continuamente, affinché garantisca davvero il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. E invita i cittadini a fare scelte informate, anche nei settori meno visibili, dove il business dell’olio “non certificato” continua a prosperare in tantissimi prodotti quotidiani (come shampoo, detersivi, dentifrici e candele).

    La lezione del frutto della discordia
    La storia dell’olio di palma ci insegna che non esistono soluzioni facili a problemi complessi, né scorciatoie quando si parla di sostenibilità. Il vero problema qui non è una singola coltura, ma il modello di agricoltura industriale che privilegia il profitto all’ambiente. La consapevolezza è il nostro potere: conoscere le certificazioni e la provenienza dei prodotti è la chiave per scelte davvero responsabili. La deforestazione continua, infatti, senza sosta nelle foreste tropicali e l’EUDR, il regolamento europeo contro la deforestazione importata, tarda a entrare pienamente in vigore. Ma i cittadini possono agire. Ogni gesto quotidiano può trasformarsi in un atto di responsabilità ambientale, ricordandoci che ogni decisione, per piccola che sembri, può cambiare il destino del Pianeta.
    La salute del Pianeta inizia da quello che decidiamo oggi.

    Costruire un futuro sicuro a partire dal nostro presente è necessario e possibile, soprattutto facendo tesoro delle esperienze collettive già vissute.

    “Storie di sostenibilità” è la nuova rubrica del WWF nell’ambito della campagna Our Future
    *Eva Alessi è responsabile sostenibilità WWF Italia LEGGI TUTTO

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    Dopo la carne, sulle nostre tavole anche il pesce coltivato in laboratorio

    Fra un paio d’anni – questa è la speranza dei produttori – sulle tavole europee potrebbe arrivare un prodotto decisamente innovativo e controverso: il pesce coltivato in laboratorio. Una frontiera, quella del pesce creato dall’uomo grazie a cellule animali, che ha un grande vantaggio rispetto alla già discussa carne “sintetica”: lo potremmo ottenere con un dispendio energetico molto più basso e i prodotti, almeno teoricamente, saranno privi di inquinamento da microplastiche o metalli pesanti. Per comprendere perché l’idea della carne di pesce nata in laboratorio sta prendendo piede nel mondo e punta a un commercio anche in Europa, dopo che i primi salmoni nati in vitro sono già stati venduti nei ristoranti Usa, bisogna fare un piccolo passo indietro.

    Alimentazione

    Negli Usa il salmone coltivato in laboratorio servito al ristorante, ma non ovunque

    di Paolo Travisi

    26 Settembre 2025

    Oggi, nel Pianeta, le proteine del pesce e dei frutti di mare sono alla base della dieta di circa il 20% della popolazione, soprattutto in mercati come l’Asia. Allo stesso tempo però, nei mari che soffrono per il riscaldamento globale, l’acidificazione, la perdita di barriere coralline e l’inquinamento da plastica, con la grande complicità della sovrapesca moltissimi degli stock ittici nelle ultime decadi si sono ridotti e impoveriti. C’è meno pesce e, talvolta, anche di minore qualità. In un mondo dove nel 2050 potremmo arrivare a 10 miliardi di persone e siamo costretti a un maggiore impegno per la tutela della natura se non vogliamo rimanere senza risorse. Servono dunque nuovi equilibri che passino anche per tecnologia e innovazione. Così è stato per esempio per la carne coltivata in laboratorio, già consumata in varie parti del mondo anche se in Italia – vedi le drastiche posizioni del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida – la produzione e il commercio dal 2023 sono vietate per legge. Anche se mancano ancora approvazioni per il commercio di carne di pesce coltivata in laboratorio in una Europa apparsa recentemente sempre più conservatrice rispetto ai nuovi prodotti del mercato (vedi la recente bocciatura di uso di nomi animali su cibi vegetali, come i burger veg) proprio all’interno del Vecchio Continente, come in Belgio o in Germania, ci sono già aziende che stanno sperimentando la coltivazione del pesce.

    Queste aziende, come la tedesca Bluu Seafoods o i belgi di Fishway e altri, usando vari metodi – tra cui cellule staminali e cellule muscolari, ma anche strategie di fabbricazione che passano per stampe 3D – per provare ad ottenere il miglioramento della crescita cellulare e dei tessuti, il tutto al fine di produrre una carne di pesce coltivata in grado di ridurre significativamente la pesca eccessiva, le emissioni di gas serra e di offrire una via praticabile verso la sicurezza alimentare globale. Con lo sfruttamento globale di oltre un terzo di tutti gli stock ittici negli ultimi anni c’è stata una forte ascesa dell’acquacoltura (gli allevamenti di pesce) che è stata fondamentale per garantire una fonte alternativa, alla pesca classica, di proteine ittiche. La produzione di pesci attraverso acquacoltura secondo alcune stime raddoppierà nei prossimi 25 anni ma questo metodo non è esente, oggi, da preoccupazione per uso di risorse, inquinamento e impatti su ecosistemi ed habitat, oltre all’uso di antibiotici e fitosanitari che possono portare a rischi ambientali. Viste queste criticità l’idea di produrre pesce in laboratorio è cresciuta negli ultimi cinque anni ma ha almeno tre grandi sfide davanti: la prima è quella di ottenere una carne con consistenza, sapori e composizioni nutrizionali simili a quella del pesce selvatico, poi deve superare l’approvazione delle leggi a livello globale e infine, fattore decisivo, deve essere accettata dai consumatori.

    Un’abitudine che, dagli Usa ad alcune realtà dell’Asia, comincia a prendere piede, tanto che i produttori di pesce coltivato hanno raccontato di recente a Euractiv di puntare sul fatto che entro il 2030, forse con regole già accettate nel 2027, il pesce nato in laboratorio possa arrivare sulle tavole degli europei. Il prossimo anno, dicono per esempio gli scienziati di Bluu Seafoods, a Singapore verrà lanciato il primo “caviale” nato in laboratorio. Poi sarà la volta di anguille, spigole e via dicendo. Secondo il think tank Good Food Institute Europe questo mercato globale ha il potenziale di mercato di 510 miliardi di euro entro il 2050 se l’Asia trainerà i consumi. Uno degli aspetti che rendono più sostenibile questo processo secondo i produttori è anche un dispendio energetico minore: a differenza della carne per coltivare il pesce servono infatti minori temperature da raggiungere durante la crescita. Sia Bluu che Fisheway, nella speranza di vedere i loro prodotti commercializzabili nell’Ue a breve, spiegano inoltre di non essere contrari a pesca tradizione e acquacoltura, ma di proporsi come alternativa che aiuti a colmare il divario fra domanda e offerta del futuro.

    Per ora, anche le lobby della pesca sembrano accettare questa visione: Daniel Voces, direttore di Europêche, ha raccontato a Euractiv come “il pesce coltivato in laboratorio non rappresenta una minaccia per il settore: al massimo, potrebbe diventare una fonte complementare, come l’acquacoltura, per soddisfare la crescente domanda globale di alimenti blu in futuro e la pesca tradizionale avrà sempre il suo posto e un forte riconoscimento sul mercato come fonte di proteine naturale, sana e a basse emissioni di carbonio”. Uno dei possibili mercati di sviluppo del pesce coltivato in laboratorio è quello del sushi e di formati pronti al consumo: determinate specie sotto pressione, come i salmoni ad esempio, potrebbero essere selezionati proprio per questo tipo di commercio. Alcuni paesi, come Singapore, Nuova Zelanda o Australia, sembrano voler aprire le porte a questa opportunità anche se lo sviluppo del pesce in vitro su larga scala è ancora lontano per ora. Le aziende europee già attive nel settore però ci credono ma il punto è: lo accetteranno, anche in nome della sostenibilità e dell’ambiente, i consumatori? LEGGI TUTTO

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    La banana tech che non annerisce è tra le migliori invenzioni del 2025 dal Time

    Il Time l’ha appena inserita nella lista delle Best Inventions 2025, stiamo parlando della banana innovativa che non annerisce dopo il taglio, sviluppata dalla startup britannica Tropic Biosciences, questa speciale varietà di banane rimane gialla, soda e gustosa anche dopo essere stata sbucciata. Il merito è di una modifica che spegne il gene responsabile della polifenolossidasi, l’enzima che fa scurire la frutta. “Niente DNA estraneo, niente organismi geneticamente modificati nel senso classico del termine: solo un interruttore biologico disattivato con la tecnologia CRISPR” – che sta per Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, ovvero sequenze geniche che si ripetono a intervalli regolari.

    I co-fondatori di Tropic Biosciences, Eyal Maori e Gilad Gershon  LEGGI TUTTO