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    Kokedama: cos’è e come prendersi cura delle piante senza vaso

    Arriva direttamente dal Giappone la tecnica di coltivazione chiamata kokedama: grazie a questa soluzione è possibile coltivare piante senza vaso, appoggiandole o appendendole in modo scenografico nella propria abitazione. Scopriamo che cos’è e come si pratica il kokedama.

    Che cos’è il kokedama?
    È necessario andare indietro nel tempo per trovare le prime testimonianze del kokedama: infatti, questa tecnica di coltivazione era nota già dal 1600. Letteralmente, quando si parla di kokedama ci si riferisce a una “palla di muschio”. In poche parole, si effettua la coltivazione di una pianta senza vaso. Questa trova il suo nutrimento proprio nella palla di muschio e terriccio che si può realizzare in maniera semplice da soli.

    Come si può immaginare, si scelgono delle piante piccole che si possono inserire all’interno di questi speciali contenitori naturali e che diventano così dei vasi pensili in cui prendersi cura della specie prescelta. In alternativa, è possibile anche poggiare la palla di muschio kokedama su un piattino di design, così da poter creare un effetto particolare, arredando un angolo della casa.

    La cura delle piante senza vaso: le annaffiature
    Il kokedama si mantiene in maniera semplice e non chiede chissà quale manutenzione per mantenersi in uno stato buono. A differenza delle piante che si possono annaffiare semplicemente con l’acqua, il kokedama deve essere vaporizzato oppure immerso. È importante utilizzare uno spruzzino per donare la giusta idratazione a questo contenitore e alla pianta presente al suo interno. In alternativa, è possibile immergere il kokedama per 5-10 minuti e, dopodiché, far sgocciolare bene il kokedama. Per quanto riguarda la quantità di acqua che si può utilizzare, è necessario fare delle differenze a seconda della pianta che si vuole coltivare all’interno della palla di muschio.

    L’esposizione
    La posizione in cui sistemare il kokedama deve essere luminosa, ma non con il sole diretto. È importante selezionare un’area corretta all’interno della propria abitazione, così da evitare dei danni al kokedama.

    Come si fa il kokedama?
    Per creare un kokedama è necessario munirsi di alcuni elementi:

    Piantina giovane di piccole dimensioni
    Terriccio acido con fango e torba
    Argilla espansa
    Spago
    Forbici
    Nylon per appendere al soffitto (opzionale)

    Il procedimento da seguire minuziosamente per creare il kokedama:

    In una bacinella unire cinque parti di terriccio con una parte di argilla espansa, utile per avere un terriccio drenante;
    Dare una forma di palla al composto e inserire le radici della piantina all’interno;
    Coprire la palla di muschio e poi utilizzare la corda per avvolgerla e realizzare il kokedama;
    Immergere per 2 ore il kokedama in una bacinella d’acqua fresca;
    Lasciare sgocciolare il kokedama dall’acqua in eccesso;
    Sistemare il kokedama su un piattino oppure utilizzare del nylon per appenderlo al soffitto.

    Quali piante scegliere per il kokedama?
    Il kokedama può accogliere diverse piante al suo interno. È importante selezionare degli esemplari di piante giovani e di dimensioni piccole, poiché in questo modo è più facile iniziare ad approcciarsi a questa tecnica. Qui di seguito ecco le piante che si possono scegliere per il kokedama:

    Piante grasse: il kokedama accoglie bene le piante succulenti e sono la scelta migliore per tutte quelle persone che non hanno molto tempo da dedicare al verde. Inoltre, la quantità d’acqua per le annaffiature è limitata!
    Piante aromatiche: timo, salvia e basilico sono solo alcune delle specie che si possono coltivare nel kokedama. Si può sistemare questo contenitore pensile anche in cucina, scegliendo una posizione luminosa.
    Piante con fiori: anche i fiori trovano una buona accoglienza all’interno della palla di muschio e terriccio. Tra gli esemplari che si possono sistemare nel kokedama suggeriamo le primule, le violette, la tillanzania, la bromelia, ma anche le orchidee.
    Piante cascata: un effetto scenografico lo si può ottenere selezionando anche delle piante che hanno un portamento a cascata. In questo modo, appendendo il kokedama si ottiene un elemento d’arredo splendido. In questo caso, le piante che si possono scegliere sono l’edera, le felci e il photos.

    Quanto tempo dura?
    I kokedama di solito hanno una vita breve, ma può variare anche a seconda di molti fattori. Alcune piante possono vivere più a lungo di altre, come nel caso di quelle grasse. Le piante a foglia verde, invece, hanno bisogno di maggiore umidità e nutrimento; quindi, in questo caso il kokedama potrebbe durare di meno. Anche le cure del kokedama fanno la differenza: infatti, seguendo attentamente la giusta coltivazione della pianta e le annaffiature con vaporizzatore è possibile prolungare la vita della palla di muschio anche per anni.

    Il rinvaso del kokedama
    Quando la pianta cresce troppo o sembra sofferente tanto che non entra più all’interno della palla di muschio, si può decidere di procedere con il rinvaso. In questo caso, è necessario eliminare dapprima gli strati di spago che tengono legata tutta la palla. Dopodiché si può aprire in maniera delicata la palla di terriccio, togliendo la piantina e le radici vecchie. A questo punto, si procede con la rimozione di una parte della terra e poi si crea un nuovo composto con il terriccio ricavato dal kokedama. A questo punto, si impasta con un po’ di acqua, ottenendo una palla di terriccio e si riposiziona nel centro la pianta. Ora è possibile sistemare del nuovo muschio e creare nuovamente il kokedama, fissando lo spago con qualche nodo. In questo modo, il kokedama può essere riutilizzato per far crescere una nuova piantina.

    La concimazione
    Per concimare il kokedama bisogna diluire nell’acqua dell’innaffiatura il giusto quantitativo di concime. In questo modo, ogni 15 giorni durante la primavera e l’estate si può offrire il meglio alla propria pianta e al kokedama.

    I problemi in cui può incorrere la palla di muschio
    È importante fare delle ispezioni per capire se il kokedama gode sempre di ottima salute. Per esempio, se si notano dei problemi alle foglie della pianta, è importante rimuoverle velocemente per evitare che il kokedama si deteriori. Inoltre, è molto importante evitare innaffiature scorrette, poiché possono comparire funghi e batteri che compromettono la vita della pianta e del kokedama. LEGGI TUTTO

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    La spesa è “disimballata”, i prodotti freschi vengono venduti sfusi

    “Questa attività contribuisce alla riduzione degli imballaggi e della plastica monouso”. Un adesivo verde con la scritta bianca è apparso su molte vetrine dei negozi in un paese della Sicilia, San Giovanni la Punta, in provincia di Catania. È il secondo comune italiano che ha aderito al progetto pioneristico “Spesa Disimballata”. Il primo è stato Varese. Gli abitanti escono per fare la spesa portandosi dietro i contenitori da casa. Carne, formaggi, pesce, affettati, pizza, frutta, verdura non vengono più incartati, chiusi nei cestelli monouso di plastica, infilati in buste, bustine, scatole di carta e di cartone usa e getta. Vengono venduti sfusi e semplicemente serviti dentro un contenitore di proprietà del cliente. Senza imballaggio.

    L’impegno dei Depeche Mode
    Il progetto è dell’associazione “Rifiuti Zero Sicilia”, sostenuto sia da Sicily Environment Fund, fondazione nata per sostenere iniziative di tutela ambientale e preservare la biodiversità e gli ecosistemi in Sicilia, grazie al finanziamento ricevuto da Conservation Collective attraverso la partnership con la band Depeche Mode. Ed è proprio la band britannica ad aver scelto di sostenere la rete di fondazioni locali che hanno aderito al Conservation Collective. Durante il loro ultimo tour, hanno lanciato l’appello per affrontare concretamente problemi globali come la gestione dei rifiuti e l’inquinamento da plastica, spiegando che lo avrebbero messo in atto attraverso l’implementazione di iniziative locali innovative. Grazie a questa mission nasce dunque il progetto “Spesa Disimballata”. Obiettivo: stimolare un cambiamento profondo e duraturo nella comunità siciliane e non solo.

    Contenitori per la pizza forniti per il progetto “Spesa Imballata”  LEGGI TUTTO

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    L’acqua dolce sta scomparendo a un ritmo senza precedenti in tutto il pianeta

    L’acqua dolce sta diminuendo a un ritmo allarmante. I cambiamenti climatici e l’eccessivo sfruttamento delle falde acquifere stanno infatti drasticamente riducendo le riserve di acqua dolce e al contempo contribuendo all’innalzamento del livello del mare. A riferirlo è un nuovo studio dei ricercatori dell’Arizona State University che hanno mostrato come i continenti abbiano subito una perdita d’acqua dolce senza precedenti dal 2002, minacciando, quindi, la disponibilità idrica per la popolazione mondiale. I dettagli dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.

    La perdita di acqua dolce
    Per stimare le variazioni della quantità totale di massa d’acqua immagazzinata nei continenti, tra cui fiumi, falde acquifere sotterranee, ghiacciai e calotte glaciali, i ricercatori hanno passato in rassegna oltre un decennio di dati provenienti delle missioni satellitari US-German Gravity Recovery and Climate Experiment (GRACE) e GRACE-Follow On (GRACE-FO). Dalle analisi, il team ha scoperto che tra il 2002 e il 2024 si sono verificate drastiche riduzioni di acqua dolce. In particolare, è emerso che le aree soggette a siccità non solo stanno diventando sempre più aride, una tendenza prevista dai cambiamenti climatici, ma si stanno espandendo di oltre 800 mila chilometri quadrati all’anno, un’area grande quanto Regno Unito e Francia messe insieme.

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    Così la siccità ci mette tutti a rischio

    di Giacomo Talignani

    08 Agosto 2025

    Le 4 regioni mega aride
    Il team, inoltre, ha identificato quattro regioni “mega-aride” che creano la cosiddetta fascia di siccità. Tra queste ci sono il Canada settentrionale e la Russia, dove la perdita è causata dallo scioglimento dei ghiacciai, dal permafrost e dalla riduzione della neve. Nelle altre due regioni, invece, è dovuta principalmente all’esaurimento delle falde acquifere. Si tratta, nel dettaglio, del sud-ovest degli Stati Uniti, di gran parte dell’America centrale e di una regione che si estende dall’Europa occidentale e dal Nord Africa fino all’India settentrionale e alla Cina. I ricercatori, infatti, hanno scoperto che l’esaurimento delle falde acquifere rappresenta il 68% del calo complessivo delle riserve idriche. “È impressionante quanta acqua non rinnovabile stiamo perdendo”, ha affermato Hrishikesh A. Chandanpurkar, tra gli autori dello studio. “I ghiacciai e le falde acquifere profonde sono una sorta di antichi fondi fiduciari. Invece di utilizzarli solo in periodi di necessità, come una siccità prolungata, li diamo per scontati. Inoltre, non cerchiamo di ricostituire le falde acquifere durante gli anni umidi, andando così incontro a un’imminente bancarotta di acqua dolce”.

    L’innalzamento degli oceani
    Le implicazioni negative di tutto questo per la disponibilità di acqua dolce sono sconcertanti. Il 75% della popolazione mondiale vive in 101 Paesi che hanno perso acqua dolce negli ultimi 22 anni. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione mondiale continuerà a crescere per i prossimi 50-60 anni, mentre la disponibilità di acqua dolce si sta riducendo drasticamente. Inoltre, stando ai risultati del nuovo studio, dal 2015 la perdita d’acqua dai Continenti ha causato un innalzamento del livello del mare maggiore rispetto allo scioglimento delle calotte glaciali dell’Antartide o della Groenlandia, innalzando gli oceani di poco meno di un millimetro all’anno. “Questi risultati inviano forse il messaggio più preoccupante finora sull’impatto del cambiamento climatico sulle nostre risorse idriche”, ha affermato il co-autore Jay Famiglietti. “I continenti si stanno prosciugando, la disponibilità di acqua dolce si sta riducendo e l’innalzamento del livello del mare sta accelerando. Le conseguenze del continuo sfruttamento eccessivo delle falde acquifere potrebbero compromettere la sicurezza alimentare e idrica per miliardi di persone in tutto il mondo”. LEGGI TUTTO

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    Le aree di foresta amazzonica bruciata restano calde e stressate per decenni

    Il danno dovuto agli incendi che si verificano nelle foreste dell’Amazzonia brasiliana non è solo quello immediatamente visibile. Secondo i risultati di uno studio pubblicato su Environmental Research Letters, infatti, le aree di foresta amazzonica danneggiate dagli incendi rimangono più calde di circa 2,6°C rispetto alle aree circostanti intatte oppure soggette a disboscamento controllato. E questo effetto può durare per decenni, con un abbassamento di temperatura pari a soli 1,2°C nei 30 anni successivi all’evento. Questo rende le foreste danneggiate molto più vulnerabili per esempio alle conseguenze del cambiamento climatico. “Stiamo scoprendo che gli incendi hanno un impatto ecologico significativo su scale temporali molto ampie e che la rigenerazione è molto più a rischio: è più lenta o non avviene affatto”, spiega Savannah Cooley, che ha un dottorato di ricerca in Ecologia, evoluzione e biologia ambientale ottenuto presso la Columbia University (Stati Uniti), ed è prima autrice del lavoro e ricercatrice presso il Nasa Ames Research Center. Autori e autrici dello studio hanno analizzato in particolare un’aera di foresta amazzonica brasiliana nota come “Arco di deforestazione” (“Arc of deforestation”), che negli ultimi decenni è stata appunto oggetto di deforestazione e teatro di incendi. E che oggi costituisce un caso studio ideale, spiegano i ricercatori, perché è in sostanza un mosaico di aree intatte, bruciate, disboscate e in fase di rigenerazione.

    La ricerca è stata condotta combinando i dati sulla temperatura della superficie terrestre ottenuti attraverso lo strumento Ecostress della Nasa con i dati raccolti grazie alla missione Gedi (Global Ecosystem Dynamics Investigation) lidar. Quest’ultima in sostanza è pensata per produrre immagini ad alta risoluzione della struttura tridimensionale della Terra, e per scansionare dall’alto la situazione delle foreste e soprattutto delle chiome, la cui integrità è fondamentale per il controllo delle temperature in queste aree. Oltre ad essere mediamente più calde, le zone di foresta bruciata all’interno dell’Arco di deforestazione sono risultate essere anche più instabili dal punto di vista termico. Rispetto alle aree intatte o soggette a disboscamento controllato, quelle che hanno subito incendi in passato mostrerebbero infatti maggiori fluttuazioni di temperatura nell’arco della giornata, e sarebbero anche più soggette a superare le soglie fisiologiche che compromettono la funzionalità degli alberi. Per esempio, durante il picco di calore della stagione secca, quasi l’87% delle foglie esposte alla luce solare nelle foreste bruciate raggiungerebbe temperature per cui la respirazione cellulare prevale sulla fotosintesi (situazione in cui le piante bruciano più riserve di energia di quelle che accumulano), rispetto al 72-74% delle aree di foresta soggette a disboscamento controllato o intatte.

    Deforestazione

    C’era una volta l’Amazzonia, il WWF: “In 15 anni rischiamo di perderla”

    di Giacomo Talignani

    13 Maggio 2025

    Inoltre, nelle aree che sono state teatro di incendi in passato, la probabilità che la temperatura delle foglie superi il limite per cui si verificano danni permanenti è risultata essere dieci volte superiore. Questo perché gli incendi cambiano completamente la struttura della foresta, diradando le chiome, spazzando via il sottobosco e riducendo la superficie fogliare, da cui dipendono i due principali meccanismi di raffreddamento delle piante (ombra e traspirazione). Al contrario, spiegano i ricercatori, nelle aree soggette a disboscamento controllato e in cui è stata mantenuta l’integrità delle chiome, le temperature sono risultate simili a quelle registrate nelle foreste intatte. “Gli ecosistemi tropicali degradati, in particolare le foreste bruciate, stanno subendo uno stress termico – conclude Cooley – Ma possiamo fare molto per ridurre al minimo i danni alla biodiversità e alle specie che stanno subendo questo stress, sia in termini di gestione forestale, contribuendo a ridurre gli incendi in Amazzonia, sia dal punto di vista della mitigazione delle emissioni di carbonio, continuando a ridurre le emissioni in modo aggressivo e rapido e passando a un’economia energetica sostenibile e pulita”. LEGGI TUTTO

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    Le “terre alte”, un patrimonio da rivalutare

    Nel cuore dell’Italia meno visibile – quella delle aree interne – si custodisce una parte fondamentale del nostro patrimonio agroalimentare e ambientale. Lontano dai grandi centri urbani, si intrecciano storie di colture tradizionali, saperi contadini e paesaggi agrari modellati nel tempo. Sono le terre alte, forgiate da secoli di lavoro agricolo, che hanno dato origine a produzioni uniche e allevamenti sostenuti da pascoli permanenti, talmente ricchi di biodiversità da non essere mai uguali a sé stessi. Eppure, questi patrimoni – per decenni fonte di eccellenze irripetibili – faticano ancora a ricevere il giusto riconoscimento. Oggi, le politiche del cibo e della biodiversità in queste aree assumono un ruolo strategico, non solo per la resilienza ambientale, ma anche per lo sviluppo socioeconomico. La cornice normativa, sia nazionale che europea, inizia timidamente a riconoscerne il valore, pur tra difficoltà e contraddizioni. Secondo la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), le terre alte coprono oltre il 60% del territorio italiano, ma sono segnate da spopolamento, carenze infrastrutturali e abbandono agricolo.

    Nonostante ciò, proprio in questi territori resistono varietà colturali e razze autoctone ad alto valore ecologico, insieme a pratiche agricole compatibili con la tutela degli ecosistemi. L’Italia, pioniera nella difesa della biodiversità agraria anche grazie alla Legge 194/2015, continua tuttavia a perdere risorse genetiche preziose, con gravi ricadute culturali, sociali e ambientali. La scomparsa degli agricoltori, del resto, è spesso il preludio al dissesto idrogeologico. Lo ricordava Sereni: il paesaggio agrario è un paesaggio naturale modellato dall’uomo per fare agricoltura e produrre cibo, attraverso la biodiversità agraria e applicando modelli colturali in equilibrio con l’ambiente, basati su principi di agroecologia. Su questo solco, oggi, è tempo di immaginare modelli di sviluppo alternativi a quelli industriali che hanno portato l’agricoltura a contribuire significativamente all’emissione di gas climalteranti in atmosfera. Abbiamo bisogno di mettere a fuoco un modello in cui la biodiversità diventi un ponte tra territori diversi e una leva culturale per valorizzare quelle aree fragili, ma ricche di potenziale, dove il cibo rappresenta molto più che nutrimento.

    Nelle aree interne, infatti, il cibo è presidio del territorio e di fronte alla crisi climatica, alla perdita di suolo fertile e all’instabilità delle filiere globali, le produzioni locali non sono un retaggio nostalgico, ma strumenti di resilienza e sovranità alimentare. A giugno 2024, l’approvazione definitiva della legge sul ripristino della natura (Nature Restoration Law) – uno dei pilastri del Green Deal europeo – ha segnato una svolta. La legge, vincolante per tutti gli Stati membri, impone il ripristino di almeno il 20% degli ecosistemi terrestri e marini entro il 2030, con particolare attenzione a quelli agricoli e forestali degradati, inclusi pascoli e prati permanenti delle terre alte. Un’opportunità storica per le aree interne, che possono diventare protagoniste della transizione ecologica, grazie a pratiche agroecologiche, alla rinaturalizzazione dei suoli e al recupero della biodiversità, al rafforzamento delle politiche di coesione economica, sociale e territoriale funzionali a rigenerare il ruolo delle comunità.

    Ma perché questa transizione sia possibile, è necessario uno sguardo lungo: servono visione politica, scelte coraggiose e il coinvolgimento attivo di agricoltori, enti locali, cittadini. Dalla Legge 194/2015 alla PAC, dalla SNAI alla Nature Restoration Law, il quadro normativo esiste. La vera sfida, ora, è politica e culturale: costruire alleanze capaci di ridare futuro a questi territori e restituire loro la centralità che meritano. Non mancano le criticità: la frammentazione delle competenze, la difficoltà di accesso alla terra per i giovani, l’eccessiva burocrazia nei fondi europei. Ma se crediamo in un cibo che nutre davvero – e non che sfama – allora non possiamo che scegliere la strada della rigenerazione e un modello alimentare più locale, giusto e sostenibile ha come punto di partenza proprio il paesaggio agrario delle terre alte quale filo conduttore che lega ambiente, cultura e futuro.
    * (L’autore è vicepresidente di Slow Food) LEGGI TUTTO

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    Un silenzio inaspettato e preoccupante: i suoni scomparsi delle balenottere azzurre

    Nelle profondità degli oceani la musica sta cambiando. Per ora regge il “jazz”, come quello delle balene dell’Artico, ma altri canti – prodotti dal più grande animale del mondo – si stanno affievolendo, lentamente diminuiscono e non si ascoltano più.
    Per gli scienziati è un segnale preoccupante, con una causa ben precisa: le ondate di calore marino, il surriscaldamento dei mari legato alla crisi climatica innescata dall’uomo, sta portando a una diminuzione in certe aree degli oceani della disponibilità di cibo per le balenottere azzurre, costrette a impiegare più tempo a cacciare e meno nelle vocalizzazioni.

    L’eco degli oceani
    Considerati i mammiferi più grandi del Pianeta, capaci di pesare anche 160 tonnellate e superare i 30 metri di lunghezza, questi straordinari animali stanno subendo gli effetti del surriscaldamento globale e, come risposta, sembrano dunque “cantare” meno. Sia le balenottere azzurre che quelle comuni si nutrono principalmente di krill: i cambiamenti in atto negli oceani, sempre più caldi e acidi, hanno ridotto la disponibilità di krill: secondo uno studio pubblicato quest’anno su Plos One il risultato è stata una diminuzione delle forme di comunicazione fra i grandi cetacei. Per diversi anni, a partire dal luglio 2015, il ricercatore John Ryan del Research Department del Monterey Bay Aquarium Research – che curiosamente ha lo stesso nome e cognome di un noto cantautore – ha registrato i suoni dell’oceano nella California centrale. Grazie a un idrofono ancorato a oltre 900 metri di profondità e un sistema costante di monitoraggio acustico dell’ecosistema Ryan e altri ricercatori stavano cercando schemi nel canto delle balene a seconda delle stagioni e degli anni.

    Tutela della biodiversità

    Islanda, ferma la caccia alla balena per il 2025

    di Giacomo Talignani

    26 Giugno 2025

    Le vocalizzazioni delle balenottere diminuite del 40%
    Quello che hanno scoperto è che mentre per esempio le megattere, specie con una dieta diversificata, sono state in grado di adattarsi ai cambiamenti in atto, senza così cambiare i loro canti, le balenottere azzurre hanno invece diminuito la frequenza con cui emettono i suoni rispetto ai primi anni di registrazioni. Il motivo sarebbe appunto da ricercare nella minore disponibilità di cibo per queste balene, messe in difficoltà dalle ondate di calore che portano a loro volta alla proliferazione di alghe tossiche che impattano proprio sugli stessi mammiferi marini e gli ecosistemi. Con la diminuzione delle prede, confermano anche altri studi più recenti, le vocalizzazioni delle balenottere azzurre sono così diminuite – in parallelo al calo di krill e altri organismi di cui si nutrono – di quasi il 40%. Ryan ha spiegato al National Geographic che è comprensibile dato che “a pensarci bene è come cercare di cantare mentre si muore di fame”.

    Biodiversità

    L’Intelligenza artificiale per salvare le balene franche

    di Simone Cosimi

    22 Aprile 2025

    Inquinamento acustico, microplastiche e perdita di cibo
    Tra inquinamento acustico, diffusione di microplastiche, traffico navale ed impatti della crisi del clima e perdita di fonti nutrienti in certe zone dell’oceano la pressione antropica sta dunque portando a un cambiamento della “musica” degli oceani, il che significa ulteriore difficoltà nella ricerca per la protezione e conservazione delle balene. Ascoltare canti, suoni e rumori aiuta infatti a decifrare i segreti della vita marina e gli equilibri della natura. Adesso che le ondate di calore hanno portato il numero di krill a diminuire e ha agevolato la dispersione di questi organismi, per le balene resta complesso trovare cibo a sufficienza, tanto che “non le sentiamo cantare perchè stanno spendendo tutte le loro energie a cercare cibo” spiega Ryan specificando che questo avviene soprattutto negli anni con ondate di calore più importanti.

    Biodiversità

    Senza l’impatto dell’uomo le balene vivono molto più a lungo di quanto credevamo

    di Giacomo Talignani

    03 Gennaio 2025

    Anche in Nuova Zelanda
    Oltre alla California condizioni simili sulle balenottere azzurre sono state osservate anche al largo della Nuova Zelanda dove esperti hanno testimoniato come le ondate di calore marino possono impattare sulle vocalizzazioni e anche sulla riproduzione. In generale, chiosano gli scienziati, il problema è che avendo le balene una vita duratura (anche oltre 80 anni) potrebbe servire molto tempo per comprendere a fondo gli effetti delle azioni antropiche su di loro e, per esempio, sulla perdita dei loro canti. Il nuovo silenzio dei mari però, quello dovuto a meno suoni degli animali e più rumori antropici, dovrebbe avere per tutti un suono preciso: quello di un campanello d’allarme importante e da non sottovalutare. Per capire il futuro infatti, concludono, gli esperti, “ora più che mai è importante ascoltare” in modo da poter proteggere le creature marine. LEGGI TUTTO

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    Ginestra in fiore: tutto quello che c’è da sapere

    La ginestra, con i suoi vivaci fiori gialli e il profumo inebriante, è una protagonista indiscussa dei paesaggi mediterranei. Questa pianta, appartenente alla famiglia delle Fabaceae, non solo decora colline e pendii con la sua esplosione di colore, ma svolge anche un ruolo ecologico significativo nel consolidamento dei terreni.?

    Caratteristiche generali della ginestra
    La ginestra è un arbusto perenne che può raggiungere altezze considerevoli, spesso fino a 2-3 metri. Le sue foglie sono generalmente piccole e cadono presto, lasciando spazio a rami verdi e flessibili che svolgono la fotosintesi. I fiori, di un giallo intenso, sbocciano in primavera e inizio estate, emanando un profumo dolce e penetrante.? La ginestra in realtà non è solo bellezza, ma ha anche una forte valenza simbolica: per Giacomo Leopardi, infatti, la ginestra rappresentava la dignità dell’uomo di fronte all’indifferenza della natura, la forza di chi fiorisce nonostante la desolazione. Un messaggio che oggi, in tempi di crisi ecologica, risuona più attuale che mai.

    Tipi di ginestra più comuni
    La famiglia della ginestra comprende numerose specie spontanee e ornamentali, utilizzate in ambito paesaggistico per bordure, siepi informali e rinaturalizzazioni. Tra le più comuni ci sono:

    Spartium junceum: nota come ginestra odorosa (o ginestra “comune”), è la più diffusa in Italia è un albero o arbusto dal portamento elegante, con lunghi rami verdi e sottili, quasi privi di foglie. I fiori giallo intenso, molto odorosi, sbocciano tra maggio e giugno. Raggiunge i 2-4 metri di altezza;
    Cytisus scoparius: conosciuta come “ginestra dei carbonai”, presenta fusti eretti e fiori gialli brillanti (anche se possono essere rossi, arancioni o bianchi).? È adatta a giardini di dimensioni contenute, ma alcune varietà nane sono ideali per la ginestra in vaso;
    Genista tinctoria: detta “ginestra dei tintori”, storicamente impiegata per estrarre coloranti naturali.? Specie selvatica bassa e diffusa, ha un portamento tappezzante ed è particolarmente indicata per aiuole rustiche, scarpate o come copri suolo resistente alla siccità;
    Genista etrusca: Cresce spontaneamente nei terreni calcarei dell’Italia centrale. Ha un aspetto più selvatico, con fiori gialli raccolti in grappoli.

    Coltivazione della ginestra: terreno, esposizione e trapianto
    La ginestra è una pianta rustica che si adatta a diverse condizioni ambientali, ma predilige terreni ben drenati e posizioni soleggiate. Come ci si prende cura di questa pianta dai colori meravigliosi e dal profumo avvolgente? Bastano poche ma regolari accortezze, che ne garantiranno la sua salute a 360°.

    Partendo dal terreno, bisogna dire che la ginestra predilige suoli poveri, sabbiosi o ghiaiosi, che però abbiano un buon drenaggio. Per una buona fioritura, poi, è necessario lasciarla esposta in pieno sole, che ama. Va quindi posizionata in un luogo molto luminoso, esposto a sud o sud-ovest. Se lasciata all’ombra o anche in mezz’ombra, la fioritura sarà ridotta o addirittura assente.

    Effettuare la messa a dimora della ginestra è possibile, basterà seguire con cura i passaggi necessari. Il trapianto in piena terra si effettua preferibilmente in autunno o a fine inverno, in modo che la pianta possa sviluppare un buon apparato radicale prima della stagione calda. Per trapiantare correttamente la ginestra, quindi, si consiglia di:

    Scavare una buca ampia (almeno il doppio del vaso);
    Inserire materiale drenante (ghiaia, sabbia grossolana) sul fondo;
    Collocare la pianta e coprire con terra asciutta e ben assestata;
    Innaffiare solo al momento del trapianto.

    Ginestra in giardino: una scelta sostenibile
    Rustica, resistente alla siccità, capace di prosperare su terreni poveri: la ginestra è una pianta perfetta per giardini sostenibili. Si sposa bene con altre essenze mediterranee come lavanda, rosmarino, santolina, elicriso. Ideale per scarpate e pendii, giardini secchi e a bassa manutenzione e progetti di rinaturalizzazione. Insomma, una pianta multitasking, perfetta e dai risultati estetici sempre meravigliosi.
    Prendersi cura della ginestra: irrigazione, potatura e concimazione
    Una volta stabilita, la ginestra non ha bisogno di irrigazione regolare. Resiste bene alla siccità e se coltivata in vaso o nei primi mesi dopo il trapianto, può richiedere acqua in caso di prolungata assenza di pioggia.
    Eseguire la potatura è consigliabile, soprattutto dopo la fioritura, quindi in estate. Questo è uno step particolarmente importante dal punto di vista della stimolazione: ripulendo la pianta la forma sarà contenuta e la nuova vegetazione nascerà più rigogliosa di prima. Attenzione a non tagliare troppo: i fiori si formano sui rami dell’anno precedente.

    E la concimazione? In terreni poveri può essere utile somministrare alla ginestra un fertilizzante leggero a lento rilascio, povero di azoto. Step da eseguire in primavera, evitando di utilizzare concimi troppo ricchi che favoriscono la vegetazione a scapito dei fiori.
    Parassiti e malattie della ginestra: cosa sapere
    Generalmente resistente, la ginestra può occasionalmente essere attaccata da afidi o cocciniglie. Monitorare la pianta e intervenire con trattamenti specifici se necessario.
    Fioritura della ginestra: quando sboccia e quanto dura
    La fioritura della ginestra è un evento spettacolare che colora il paesaggio di giallo intenso. Avviene principalmente tra maggio e giugno, a seconda delle condizioni climatiche. Per garantire una fioritura rigogliosa è consigliabile assicurarsi di posizionare la pianta alla luce del sole (almeno 6 ore di luce diretta al giorno) e, come visto pocanzi, di eliminare tutti i fiori appassiti per favorire la produzione di nuovi boccioli.

    La ginestra è velenosa?
    È vero, alcune specie di ginestra sono velenose se ingerite. In particolare, la ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius) contiene alcaloidi tossici per l’uomo e per gli animali domestici. È bene evitare di piantarla in luoghi accessibili a bambini e animali. La semplice manipolazione non è pericolosa, ma è sempre buona norma lavare le mani dopo averla potata. LEGGI TUTTO

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    L’Everest sempre più simile ad una discarica d’alta quota: droni per ripulire la vetta

    Sulla vetta del mondo, l’Everest, tra tonnellate di rifiuti. Il problema è noto da tempo. Decenni di spedizioni hanno portato sul Monte Everest, oltre che migliaia di scalatori ed avventurieri, anche migliaia di detriti sparsi sulle pendici della montagna più alta del mondo. Tende abbandonate, bombole di ossigeno vuote, bottiglie di plastica, imballaggi alimentari, rifiuti fisiologici. Le stime più recenti indicano circa 50 tonnellate di rifiuti sparsi sulla montagna. Un luogo che dovrebbe essere simbolo di purezza, e che invece si avvicina sempre di più ad una discarica.

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    di Paola Arosio

    11 Luglio 2025

    Le autorità nepalesi e gli sherpa da tempo sono impegnati nella rimozione dei rifiuti dalle vette himalayane, già dal 2019, ma i campi più alti rimangono una sfida. Infatti, per salire e riscendere ci vogliono ore e ore di cammino. E farlo con sacchi di spazzatura è un’operazione piuttosto complicata. Per fortuna, anche in questo caso, la tecnologia arriva in aiuto per rendere possibile e più semplice queste azioni di pulizia straordinaria. L’idea viene da un’azienda locale, chiamata Airlift Technology guidata dall’ingegnere aeronautico Raj Bikram Maharjan, che ha pensato di utilizzare i droni di un noto brand cinese, per ripulire i luoghi più impervi. Infatti, fino ad oggi, i droni venivano usati per trasportare cibo o attrezzature nelle spedizioni sulle vette. Oggi invece sono gli spazzini dell’Everest.

    Questi droni possono trasportare carichi significativi, dai 15 kg ai 32 kg, in base alla lunghezza del percorso e all’altitudine da raggiungere. Si tratta, in ogni caso, di carichi piuttosto pesanti. L’azienda nepalese li sta utilizzando per trasportare rifiuti dal Campo 1, che si trova a circa 6.000 metri di altitudine, al di là della pericolosa cascata di ghiaccio del Khumbu, fino al Campo Base più in basso a 5.300 metri. Un tratto molto pericoloso da percorrere anche per figure super esperte come gli sherpa.

    Uno dei vantaggi più significativi dei droni è proprio la riduzione dei rischi per gli sherpa, che tradizionalmente devono affrontare ore di cammino attraverso il Khumbu Icefall, per trasportare rifornimenti e rifiuti. Invece, i droni possono completare lo stesso viaggio in pochi minuti, evitando agli sherpa di affrontare carichi pesanti in condizioni estreme e riducendo il rischio di incidenti mortali. Nel periodo primaverile, un solo drone è riuscito a trasportare quasi circa 1.300 kg di attrezzature e spazzatura tra i campi, rimuovendo una tonnellata di rifiuti in due mesi.

    Ma la sostenibilità di questo progetto, non si ferma solo alla pulizia, perché l’uso dei droni contribuisce a ridurre la necessità degli elicotteri, che sono più costosi, rumorosi e ovviamente hanno un maggiore impatto ambientale. Ma all’orizzonte c’è anche di più. La Airlift Technology prevede di espandere l’uso dei droni anche ad altre vette di 8.000 metri in Nepal allargando il progetto di supporto alla logistica e di pulizia straordinaria di luoghi difficilmente accessibili all’uomo.

    (foto: Airlift)  LEGGI TUTTO