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    Case green, verso la rimodulazione degli incentivi con la direttiva Ue

    Pronte le linee Guida della Ue per l’attuazione della Direttiva Case Green. A partire da settembre entrerà nel vivo la definizione del Piano Nazionale di Ristrutturazione degli Edifici (NBRP) con la prima bozza da presentare entro il 31 dicembre 2025 e il recepimento definitivo della Direttiva previsto per il 14 maggio 2026. Prevista una rimodulazione […] LEGGI TUTTO

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    Ispra presenta la Nomr, il laboratorio galleggiante per proteggere il Mediterraneo

    L’Italia avrà, per la prima volta, una nave oceanografica progettata per scopi civili. Finora infatti queste imbarcazioni erano sempre state riadattate prima di essere messe a disposizione della comunità scientifica. Presto ce ne sarà una ad hoc. Presentata alla Camera dei deputati, la nave Nomr (Nave oceanografica maggiore da ricerca) dell’Ispra verrà varata nel giugno 2026 e sarà pienamente operativa per l’inizio del 2027. Ma già oggi è possibile farsi un’idea precisa di come sarà e, soprattutto, cosa consentirà di fare. La Nomr è un concentrato di tecnologia che a qualcuno potrebbe ricordare il Nautilus del capitano Nemo. Certo, non è un sottomarino ma è dotata di due unità che potranno immergersi ed esplorare i fondali. La prima è un Rov, un veicolo teleguidato (dalla nave o da terra), 100% elettrico e dotato di bracci robotici per prelevare dei campioni e riportarli a bordo, oltre a un laser ottico per la mappatura ad alta precisione dei fondali e telecamere 4K. La seconda unità è l’Auv: “È una sorta di siluro che, una volta immerso, è in grado di muoversi in autonomia nell’ambito di un’area che gli verrà assegnata in partenza: la scandaglierà tutta; grazie a un sistema anticollisione eviterà gli ostacoli e tornerà a bordo e a quel punto basterà scaricare i dati per iniziare ad analizzarli sulla nave” spiega Giordano Giorgi dell’Ispra, coordinatore del progetto Mer (Marine ecosystem restoration) finanziato con fondi Pnrr. L’Auv potrà operare fino a 60 ore senza bisogno di ricarica.

    Uno dei fiori all’occhiello della nave oceanografica, continua Giorgi, è la silenziosità: “Lo scafo è stato progettato per produrre pochissima turbolenza. E questo consente alle strumentazioni acustiche sotto alla chiglia di registrare un dato ‘pulito’, di altissima risoluzione”. Grazie ai suoi tanti sensori la nave potrà misurare la profondità, la temperatura, salinità, torbidità, ossigeno disciolto e fluorescenza, metano e anidride carbonica e un magnetometro potrà cercare oggetti metallici nascosti sotto al fondale. Vale a dire, relitti o ordigni inesplosi. “Questo è molto importante, non necessariamente per recuperarli ma per sapere dove si trovano, nel momento in cui bisogna posare cavi o condotte sottomarine” precisa il responsabile Ispra.

    Mare da tutelare
    Potendo esplorare tutte le caratteristiche della colonna d’acqua fino a quasi quattromila metri di profondità, la nave Nomr sarà un formidabile detective per capire, anzitutto, come sta il nostro mare di cui, ancora oggi, sappiamo pochissimo soprattutto sotto i mille metri. La possibilità di analizzare specie e frammenti in ambienti estremi, dove finora è stato impossibile inoltrarsi, aiuterà la comunità a scientifica a valutare l’impatto del cambiamento climatico sul Mediterraneo, ma non solo. Una delle maggiori potenzialità dell’imbarcazione è anche lo studio dei monti sottomarini (che è già iniziato quest’anno, con altri strumenti) e il monitoraggio di reti fantasma e rifiuti inabissati.

    Un’isola “autonoma” di scienza
    Non solo Mediterraneo, dicevamo. Benché la nave sia stata concepita per operare soprattutto nel mare nostrum, la richiesta dei ricercatori (esaudita) era di poter disporre di un’autonomia di circa seimila miglia nautiche, sufficienti per attraversare Atlantico e Pacifico senza mai approdare. Sarà anche un’autonomia operativa, perché nei cento metri quadrati di laboratori a bordo della Nomr si potranno immediatamente studiare e analizzare pesci, piante, rocce e altri campioni, anche grazie a celle frigorifere, congelatori, incubatori, vasche per la conservazione in vivo e altro ancora. Non ci sarà quindi bisogno di approdare, sbarcare tutto il materiale e analizzarlo a terra. Il vantaggio è che non si perderanno giorni preziosi, sfruttando al massimo le condizioni meteo ideali per stare in mare. “Si lavorerà su campagne di 30 giorni” continua Giorgi, “che in questo ambito sono davvero tanti”.

    Mare come risorsa
    Il mare non viene visto però solo come un bene da proteggere, ma anche come un alleato in grado di fornire risorse-chiave per l’energia, le comunicazioni e le tecnologie di domani. Grazie allo studio dei fondali e del sottosuolo marino, la nave di Ispra sarà di grande aiuto per individuare la presenza di minerali critici, a volte piuttosto rari e per questo oggetti di competizione geopolitica. “Ma pensiamo anche agli impianti eolici offshore – aggiunge Giorgi – la maggior parte delle volte costituiti da pale eoliche galleggianti che hanno bisogno di ancoraggi sicuri. A bordo della nave avremo le tecnologie necessarie per fare tutti i rilievi di cui c’è bisogno, comprese delle stratigrafie per diversi metri sotto al fondale, per assicurarci che le pale posino su un terreno sicuro”. Poi c’è un’altra questione di sicurezza. In un periodo piuttosto turbolento dal punto di vista geopolitico, neanche i cavi e le condotte sottomarine possono considerarsi al sicuro. Nel caso in cui queste infrastrutture vengano danneggiate, la Nomr potrà avvicinarsi al luogo del “fattaccio” e verificare, magari mandando il proprio robot sottomarino, cos’è successo e stimare l’entità del danno. LEGGI TUTTO

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    Le biobanche dei coralli che salvano le barriere con la criogenesi

    Alcuni sembrano ventagli di porpora, altri sfere ramificate color ocra, altri ancora fantasiose architetture arancioni o blu cobalto. Tra i flutti e il fondale sabbioso, trafitti dalla luce che filtra obliqua, si dispiegano giardini sommersi. Forme e colori che paiono usciti da un sogno di mare. Sono le barriere coralline che, pur occupando meno dell’1% degli oceani, ospitano il 25% delle specie marine. Strutture oggi sempre più fragili, minacciate da cambiamenti climatici, inquinamento, acidificazione delle acque, attività umane. Secondo il Global Coral Reef Monitoring Network, tra il 2009 e il 2018, nel mondo, è andato perduto il 14% di tali formazioni. Quattro sbiancamenti su larga scala hanno colpito la Grande Barriera Australiana in pochi anni, l’ultimo nel 2022. Se la temperatura globale aumenterà di 1,5 gradi, il 70-90% di questi sistemi potrebbe scomparire, se raggiungerà i 2 gradi, ben il 99% potrebbe andare perduto. Di fronte all’emergenza, centri di ricerca internazionali stanno utilizzando tecniche scientifiche all’avanguardia per preservare gli esemplari più vulnerabili e favorirne la rigenerazione o il futuro reimpianto.

    Oceani

    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    03 Settembre 2024

    I poli nel mondo
    In Australia, a Sydney, la Taronga Conservation Society ospita la biobanca Cryo Diversity, attiva dal 1995, che nel 2011 ha avviato il programma di conservazione corallina, in collaborazione con l’Australian Institute of Marine Science. Attualmente custodisce campioni di 34 specie della Grande Barriera ed è stata la prima al mondo a introdurre la tecnica cryomesh, nella quale le larve vengono adagiate su una griglia ultra-sottile di polimero e poi immerse in azoto liquido a meno 196?gradi, in modo da evitare la formazione di cristalli di ghiaccio dannosi per le cellule. Negli Stati Uniti le biobanche più importanti sono due. La prima è l’International Coral Gene Bank fondata nel 2010 all’interno del Mote Marine Laboratory in Florida. Conserva centinaia di varianti genetiche caraibiche, fino a 50 per specie, tramite preservazione standardizzata a basse temperature: spermatozoi o ovuli, mescolati a soluzioni protettive, vengono congelati gradualmente in azoto liquido, per salvaguardarne la vitalità. Questo ha permesso la riproduzione di oltre 600 coralli di Acropora palmata. La seconda è la Reef Recovery Frozen Coral Repository, presente all’interno dello Smithsonian Institution, con sede a Washington, dal 2008, che tutela materiale prelevato da due oceani. È pioniera nella vitrificazione avanzata di spermatozoi e frammenti corallini, ovvero un congelamento rapidissimo in azoto liquido in un apposito contenitore sigillato e resistente, nel quale il volume resta sempre uguale, trasformando l’acqua cellulare in una struttura vetrosa, senza l’aggregazione di cristalli. Anche nella Cryobank, struttura che fa parte del Coral Hospital, divisione specializzata del National Museum of Marine Biology and Aquarium di Taiwan, si sperimenta la vitrificazione veloce, per custodire cellule fragili come ovociti o tessuti. Attiva dal 2020 circa, questa biobanca ha già crioconservato quasi 1.900 campini contenenti cellule di almeno 14 specie.

    Le sfide future
    Grazie a questi centri e alle loro tecniche, oggi nel mondo sono state crioconservate più di 50 colonie di coralli. L’obiettivo è salvarne almeno 400 nella sola Grande Barriera, nonostante permangano alcune difficoltà. Tra le principali, si annoverano costi elevati e complessità della logistica di congelamento, soprattutto per le larve fragili; finestra temporale ristretta di raccolta, dato che i prelievi possono avvenire pochi giorni l’anno, durante la fase di riproduzione; possibili rischi della conservazione nel lungo periodo in termini di eventuale perdita genetica. “Pur svolgendo un ruolo fondamentale, le criobanche rappresentano solo una parte della soluzione alla crisi globale delle barriere coralline”, ha commentato Richard Leck, responsabile Oceani del Wwf Australia, “ma bisogna fare molto di più per garantirne la sopravvivenza”. LEGGI TUTTO

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    Italia e atomo: il futuro è ora

    L’Alleanza per il Nucleare è un’iniziativa europea nata nel 2023 per promuovere il ruolo dell’energia nucleare nella strategia climatica e industriale dell’Ue, in un’ottica di neutralità tecnologica. L’obiettivo è riconoscere pienamente il ruolo dell’atomo come fonte stabile, sicura e a basse emissioni, da affiancare alle rinnovabili nel percorso verso la neutralità climatica. L’Alleanza risponde anche all’esigenza di rafforzare l’autonomia energetica dell’Europa, riducendo la dipendenza da importazioni extra-UE in un contesto di instabilità globale.Dell’Alleanza fanno parte 14 Paesi membri effettivi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Francia, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia e Ungheria. L’Estonia partecipa come osservatore. Alcuni di questi Stati già utilizzano il nucleare da decenni, altri stanno pianificando nuovi impianti o valutando l’adozione di tecnologie modulari di nuova generazione.L’Alleanza affronta temi cruciali per il nucleare: sviluppo della filiera industriale, formazione tecnica e accesso ai finanziamenti, al pari delle altre fonti di energia a basse emissioni (incluse le rinnovabili).Con l’ingresso formale del giugno 2025, l’Italia passa da osservatore a membro attivo. Questo significa partecipare direttamente alla definizione delle policy europee, ma anche valorizzare le competenze scientifiche e industriali presenti sul territorio. LEGGI TUTTO

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    Dove c’era il ghiacciaio ora crescono più fiori: il fenomeno del greening in alta quota

    Tra qualche decennio sulle Alpi si potrebbero vedere mandrie pascolare a quasi tremila metri. Il futuro della pastorizia è in quota e con aria sottile. Il fenomeno, chiamato greening ovvero rinverdimento, è un effetto diretto del cambiamento climatico. L’aumento delle temperature e la riduzione della stagione nevosa oltre a comprimere le dimensioni dei ghiacciai liberano spazi appetibili per la vegetazione. Ci sono piante pioniere, adatte a questi ambienti detritici, e altre che provengono dalla praterie più in basso ma che oggi trovano condizioni ideali anche ben oltre la linea del bosco. LEGGI TUTTO

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    Cresce lo spreco alimentare. I surgelati possono essere un rimedio?

    E’ una questione tutt’altro che banale, quella dello spreco di cibo. Anzi, il suo aumento è un fenomeno preoccupante. Solo nel 2025, in Italia c’è stata una crescita del 17,9% in un solo anno. Ogni settimana gettiamo nella pattumiera quasi 7 etti di cibo: per l’esattezza sono 667 grammi a persone, contro contro i 566 del 2024. I dati sono stati diffusi dall’indagine dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher realizzata per conto dell’Istituto Italiano Alimenti Surgelati. Infatti, quello del cibo surgelato ha un peso nettamente minore per quanto riguarda lo spreco: ogni settimana, non sono neanche 15 grammi quelli che vengono buttati via, pari al 2,2% del totale in pattumiera. Questo lo evidenzia un’indagine italiana, mentre una grande azienda proprietaria di marchi molto noti del frozen food, evidenzia un altro aspetto interessante. E cioè che quasi la metà dei consumatori europei, il 47%, sceglie prodotti surgelati proprio con l’obiettivo di ridurre lo spreco alimentare.

    Il motivo è più di uno. I cibi surgelati si conservano per un lungo periodo di tempo, non richiedono l’uso di acqua per essere puliti, non hanno scarti perché il prodotto è già pronto all’uso, e sono più facili da dividere in porzioni. Tutti elementi che permettono al consumatore di ottimizzare il tempo di preparazione, ridurre quasi a zero lo scarto e sprecare anche meno risorse, come acqua ed energia, per la cottura. E se negli ultimi 5 anni, il ricorso al frozen food è salito, il suo spreco è rimasto stabile intorno al 2%; un dato molto positivo, che va a vantaggio di consumatori e famiglie, dell’industria alimentare del surgelato, ma soprattutto dell’ambiente, perché riducendo la quantità di rifiuti, si diminuisce l’impatto e si dà una mano alla sostenibilità. Quando buttiamo via del cibo, oltre a sprecare il prodotto stesso, abbiamo reso inutile tutte le risorse che hanno contribuito a portarci quel determinato alimento sulla tavola: l’impiego di persone per la manodopera, il trasporto e la logistica, il consumo di carburante, l’acqua, terra, gli imballaggi e altro ancora. Poi, quando alla fine del processo, il cibo che abbiamo gettato via finisce in discarica, si decompone e produce metano, un gas che contribuisce all’effetto serra. Nel biennio 2021-22, solo nel Regno Unito, i rifiuti alimentari sono stati responsabili di circa 18 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra. Il motivo per cui abbiamo portato l’esempio dell’isola inglese è perché è il Paese in testa alla classifica degli sprechi alimentari.

    Il sondaggio

    Dal frigo alla tavola, ecco come sprechiamo il cibo e cosa fare per evitarlo

    di Paolo Travisi

    04 Giugno 2025

    Ma come abbiamo detto il fenomeno è tristemente globale. Per le ragioni appena dette, secondo il rapporto Frozen in Focus di Nomad Foods, quasi il 60% degli inglesi preferisce acquistare cibi surgelati per ridurre gli sprechi alimentari. E l’Italia? Noi italiani siamo secondi in classifica con il 50%, a seguire la Francia con il 49%, il 43% in Svezia e il 44% in Germania. Se il surgelato riduce lo spreco, però il processo è energivoro quindi le emissioni derivati da questi apparecchi industriali che devono rimanere sempre accesi. Da qui, in occasione di COP28 è stata lanciata la proposta di abbassare di 3 gradi, da -18° a -15°, la temperatura di surgelamento, garantendo un risparmio di energia di circa il 10%, senza variazioni significative per la maggior parte dei prodotti. Ma questa richiesta non convince tutti. Infatti, i prodotti surgelati vengono portati a -18° con un procedimento ultrarapido che blocca quelle attività enzimatiche, chimiche e microbiche che garantiscono il mantenimento di gran parte dei nutrienti importanti per l’organismo umano, senza alterare la consistenza dell’alimento. Una pratica ben diversa dal congelamento domestico con il freezer, che è appunto congelamento e non surgelamento; un processo, il primo, che invece modifica la struttura cellulare del cibo, perché avviene più lentamente ed a temperature più basse. Insomma, c’è da dire che il prodotto fresco è pur sempre preferibile per le caratteristiche intrinseche alla freschezza dell’alimento, a patto che venga consumato e non buttato via, ma il surgelato può essere una buona alternativa. Alternativa allo spreco alimentare crescente, con un valore in un certo senso educativo. Infatti, l’approvvigionamento di surgelati può essere anche un metodo per imparare a gestire le proprie scorte casalinghe. Può aiutarci a distribuire gli acquisti settimanali o mensili della spesa riducendo la quantità di cibo che diventa spazzatura. LEGGI TUTTO

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    “Riportare in vita il moa”, il sogno del regista Peter Jackson per ritrovare la specie perduta

    Che cosa hanno in comune il regista del “Signore degli Anelli”, un’antica comunità indigena maori e una società di biotecnologie e ingegneria genetica? Un sogno proibito, fortemente criticato e per molti impossibile da realizzare: riportare in vita il Moa gigante, un uccello alto 3,6 metri , pesante oltre 230 chilogrammi ed estinto circa 600 anni fa. Come fosse un suo film di fantascienza, il regista Peter Jackson ha deciso di finanziare, insieme al contributo del Canterbury Museum e il Ng?i Tahu Research Centre, una nuova missione di Colossal Biosciences, la società americana specializzata in “de-estinzione” e già nota per voler far rivivere il mammut lanoso, il dodo o la tigre della Tasmania e che, di recente, ha annunciato di aver riportato in vita un lupo del Paleocene, sorta di meta-lupo del Trono di spade.

    “Riportato in vita il lupo del pleistocene”. Lo annuncia la biotech che vuole ricreare la preistoria

    08 Aprile 2025

    In un mondo dove 1 milione di specie animali e vegetali sono oggi a rischio, e dove la perdita di biodiversità ha un urgente bisogno di sforzi globali e finanziamenti sia pubblici che privati, il nuovo annuncio della società texana dal valore di mercato di 10 miliardi di dollari è destinato a far discutere, ma Colossal Biosciences e Peter Jackson (che ha investito 15 milioni di dollari) non vogliono sentire ragioni e hanno deciso di proseguire su una strada che, fra soli 15 anni, potrebbe “riportare in vita” il famoso Moa.

    Il Moa gigante dell’Isola del Sud era un gigantesco uccello incapace di volare che fino al 1300 popolava le valli delle isole della Nuova Zelanda: secoli fa esistevano migliaia di esemplari prima che i Maori, tra caccia alla carne e alle uova e distruzione di habitat, portarono lentamente l’uccello all’estinzione, avvenuta tra il 1300 e il 1500. Per molti inglesi arrivati a Wellington, l’idea di quel volatile grande il doppio dell’uomo, all’inizio era soltanto una leggenda tramandata tra i popoli originari, ma dovettero ricredersi quando nel tempo ci furono più ritrovamenti degli scheletri, i frammenti di uova e le ossa appartenenti a questi animali, materiale che oggi offre una chance genetica per la “de-estinzione”. La base di partenza per riuscire a compiere questa complicatissima missione, per molti scienziati impossibile, sarà infatti il recupero e l’analisi del DNA antico di nove specie di Moa per comprendere in che modo il Moa gigante differisca da uccelli parenti e per decifrare il suo corredo genetico. Per riuscirci Colossal Bioscience collaborerà con il Ng?i Tahu Research Centre neozelandese, fondato per supportare i Ng?i Tahu, principale tribù Maori della regione meridionale della Nuova Zelanda.

    Petere Jackson con Ben Lamm con i reperti fossili del moa (foto: Colossal.com)  LEGGI TUTTO

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    Tulum Energy, dall’Italia al Messico (e ritorno): la startup pioniera dell’idrogeno turchese

    “La caratteristica distintiva della nostra tecnologia è la combinazione senza pari di elevata scalabilità ed eccezionale efficienza energetica. Questo ci consente di soddisfare le notevoli esigenze dei grandi consumatori industriali di idrogeno, come raffinerie, produttori di ammoniaca e impianti chimici, a costi davvero competitivi”. Lui è Massimiliano Pieri, CEO di Tulum Energy, startup climate tech pionieristica nella produzione di idrogeno pulito. Più precisamente, in prima linea nello sviluppo di una innovativa tecnologia di pirolisi del metano.

    La pirolisi del metano è un processo chimico che consente la produzione di idrogeno pulito (turchese) e carbonio solido utilizzando come materia prima gas naturale o biogas, senza emissioni di CO2. Questa tecnologia è in grado di superare i limiti economici e infrastrutturali dell’idrogeno verde e blu nella produzione industriale di idrogeno decarbonizzato. LEGGI TUTTO