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    La nuova Pac e i dazi Usa: così l’Europa rischia di restare indietro

    “Facite ammuina”, ovvero “fate confusione”. Così recitava l’articolo 27 dei Regolamenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie del 1841: un ordine per creare disordine, fumo negli occhi più che sostanza. Una formula che torna in mente leggendo le prime indiscrezioni sulla nuova Politica agricola comune (Pac) 2028-2034.

    Era stata promessa una rivoluzione silenziosa e ha finito per deludere e preoccupare tutti, intimoriti dal veder creare un unico contenitore che non finanzierà più soltanto l’agricoltura, ma anche coesione, lavoro, migrazioni e persino difesa. Alla fine, facendo confusione, si scava sempre più il solco delle differenze tra gli Stati membri, ancor di più con un bilancio di programma che perde quasi 90 miliardi di euro rispetto alla precedente programmazione. E gli slanci verso un riarmo generale sembrano riportare l’Europa indietro nel tempo e nella storia.

    Che fine hanno fatto le ambizioni di tutela dell’ambiente, di cambio di paradigma, di neutralità carbonica? Che fine ha fatto l’idea di un sistema di produzione agroalimentare capace di preservare gli ecosistemi da ogni tipo di dissesto, favorendo l’agroecologia e i modelli sostenibili, guardando alla biodiversità come strumento di resilienza? La deriva produttivistica, finalizzata a un sistema globale sostenuto dalla massimizzazione dei profitti sulle spalle di agricoltori responsabili e di cittadini ancora troppo spesso ignari, torna a farsi dominante, affievolendo quel processo che con la Farm to Fork aveva preso consistenza e che, con pochi colpi di spugna, è quasi scomparso.

    Il tema chiave di cui oggi si discute di più sono i dazi, che hanno spento l’attenzione sulla crisi climatica. Mentre, da un lato, le innovazioni tecnologiche hanno abbattuto in tempi rapidissimi le barriere culturali, linguistiche e sociali tra i popoli del pianeta, da un altro lato il balzello dei dazi ha messo l’Europa di fronte a una politica tanto anacronistica quanto ridicola. Per i prossimi anni, almeno tre, i dazi rappresenteranno un’arma di ricatto, variabile quanto gli umori di chi li brandisce, e sarà complesso venirne a capo. Oggi si mettono, domani si levano, oggi alti, domani bassi, gestendoli con la stessa facilità con cui abbiamo visto ritirare le firme dagli accordi internazionali sul clima, impegni di lungo periodo che sono l’unica vera scommessa per il nostro futuro.

    E se li guardassimo al contrario? Se i dazi li pagasse chi inquina e non mitiga, chi non si impegna a compensare? Alziamo il tono, facciamo sentire la voce di chi è consapevole che un sistema produttivo estrattivistico e noncurante degli effetti sugli ecosistemi non è più accettabile. Chi continua ad applicarlo paghi un dazio che finirà per abbassare i profitti reali e forse determinerà l’esigenza di ripensare il paradigma.

    L’Europa, con la nuova Pac, rischia di prendere la strada della debolezza, invece di rafforzare il settore primario e dare un futuro agli ecosistemi, in barba ai dazi.

    Oggi, sembra voler scegliere una strada con ambizioni agroambientali al lumicino, pur in presenza di modelli di gestione sostenibile delle aziende che si basa, in una visione olistica, sull’integrazione di pratiche ambientali, sociali ed economiche (i pilastri ESG) per creare valore nel lungo periodo senza compromettere le risorse e gli equilibri futuri.

    Ci vuole coerenza, ci vuole coraggio, ci vuole capacità di discernere ciò che garantisce il futuro delle comunità che vivono questo pianeta dal tentativo continuo di indirizzare le politiche a beneficio di pochi. Ci vuole rispetto sociale, rispetto per le culture dei popoli e dei territori. Lasciare che qualunque comunità, ancorché piccola, resti indietro per le ferite inferte dall’inequità sarà un peso e una perdita di immenso valore per le future generazioni. Come far conciliare questa prospettiva in un regime globale complesso appare un rebus, ma fare ‘ammuina’ serve oggi probabilmente solo a confondere i cittadini, a porgere una mano da un lato ritirando l’intero braccio dall’altro, spegnendo ogni entusiasmo in chi quotidianamente resiste con impegno.

    (Francesco Sottile è Vicepresidente di Slow Food Italia) LEGGI TUTTO

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    La lotta all’inquinamento da plastica parte dall’ufficio

    Ci sono pause che fanno bene alle persone. E all’ambiente. È con questa visione che Flaskk, startup innovativa nel campo della sostenibilità e del welfare aziendale, debutta con il suo sistema integrato per l’idratazione funzionale e personalizzata. Nato per rivoluzionare il modo in cui le aziende si prendono cura dei propri dipendenti, il progetto Flaskk si compone di dispenser intelligenti connessi alla rete idrica, in grado di erogare acqua microfiltrata e personalizzabile con mix aromatici naturali e ingredienti funzionali studiati con esperti nutrizionisti. “Flaskk non è solo un erogatore di acque funzionali: è un nuovo modo di vivere il benessere in azienda”, ci racconta Filiberto Sola, founder e Ceo di Flaskk. “Siamo partiti da una domanda semplice: perché l’acqua, il bene più essenziale, è ancora così poco valorizzata nei luoghi di lavoro? La nostra risposta è un sistema smart, personalizzabile e sostenibile, che rende più semplice e naturale prendersi cura di sé e dell’ambiente anche in ufficio”.

    “Un piccolo gesto, per un grande impatto”
    Diversi studi dimostrano che anche una leggera disidratazione può ridurre la concentrazione, aumentare il senso di affaticamento e causare mal di testa, con un impatto diretto sulle performance cognitive e sul benessere al lavoro. Eppure, secondo alcune ricerche, ben il 60% dei lavoratori non riesce ad idratarsi in modo adeguato durante la giornata in ufficio. In parallelo, cresce anche l’attenzione verso la qualità dell’idratazione e le sue implicazioni sulla salute: secondo il Global Wellness Institute, le persone cercano sempre più esperienze personalizzate e con un’attenzione alla sostenibilità.

    Anche le aziende stanno ridefinendo le proprie priorità. La qualità dell’ambiente lavorativo, dall’attenzione al benessere dei dipendenti fino alla riduzione dell’impatto ambientale, è oggi un asset strategico per attrarre talenti, ridurre il turnover e migliorare la produttività. Tra le aree più trascurate ma ad alto potenziale c’è proprio l’idratazione, basti pensare che ogni giorno, solo in Italia, negli uffici si consumano oltre 3 milioni di bottiglie di plastica monouso (fonte Greenpeace Italia).

    Come funziona il sistema IOT
    Il progetto si basa su una tecnologia proprietaria brevettata e si articola su tre elementi interconnessi. Il primo è Flaskk One, un distributore intelligente collegato alla rete idrica, che eroga acqua microfiltrata personalizzabile nel livello di temperatura, frizzantezza e gusto, grazie all’aggiunta di mix aromatici naturali e di ingredienti funzionali, pensati per sostenere energia, concentrazione, digestione e altri bisogni legati alla routine quotidiana. Grazie alla combinazione di reminder soft, gusti piacevoli e tracciamento personalizzato, Flaskk aiuta concretamente le persone a bere di più durante la giornata: un’azione semplice ma spesso trascurata, che può contribuire a ridurre sintomi comuni della disidratazione come stanchezza, mal di testa e difficoltà di concentrazione, soprattutto nelle ore pomeridiane. Il sistema è cloud-based, touchless e connesso tramite SIM LTE proprietaria.

    Il secondo elemento è composto dall’ app personale. Una volta scaricata, ogni utente ha accesso a un’area dedicata dove può monitorare i propri consumi, configurare le preferenze di gusto e accedere a contenuti sul benessere. La piattaforma include funzionalità di tracciamento ambientale e meccanismi di gamification, pensati per stimolare comportamenti virtuosi. Il terzo elemento è la bottiglia smart Flaskk. In pratica ogni bottiglia è associata all’utente tramite tecnologia NFC o QR code, ed è riutilizzabile e personalizzabile. In alternativa, qualsiasi borraccia può diventare una Flaskk tramite l’inserimento di una chiave digitale. Una soluzione concreta per eliminare le bottiglie usa e getta, ridurre i consumi e monitorare in modo trasparente i dati ambientali legati agli obiettivi ESG.

    “Ogni goccia conta”
    Flaskk è interamente progettata e assemblata in Italia, con sede di produzione a Pinerolo (TO) e una rete di fornitori tra Piemonte e Lombardia. Guidata da Filiberto Sola, giovane imprenditore della Gen Z, la startup si basa su una tecnologia proprietaria brevettata e su un processo produttivo interno che assicura qualità, controllo e rapidità nell’implementazione. I mix funzionali sono sviluppati in collaborazione con esperti nutrizionisti, per offrire un supporto nutrizionale mirato nella quotidianità lavorativa. I mix aromatici naturali, invece, sono realizzati con aziende aromatiche internazionali, per un’esperienza di gusto distintiva e naturale. La startup piemontese ha già ottenuto riconoscimenti internazionali, tra cui il grant europeo EIT Food, il Design Europa Awards e l’accesso ad un programma di accelerazione presso Techstars. LEGGI TUTTO

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    Il colore delle automobili influenza le temperature della città

    Bianca, rossa, nera o grigia. Oltre all’estetica e al gusto personale, il colore dell’automobile andrebbe scelto anche in base all’impatto che potrebbe avere sulla città. A dirlo è un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Lisbona, secondo cui il colore delle automobili può influire notevolmente sulla temperatura dell’aria circostante, un effetto che in una città […] LEGGI TUTTO

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    Jonas Griessler e i colori che rendono l’asfalto meno bollente

    Un cortile colorato per contrastare il riscaldamento globale. E le alte temperature dell’asfalto. Grazie alla vernice multicolore che l’artista austriaco Jonas Griessler – assieme al collettivo Holla Hoop – ha utilizzato negli spazi esterni della collezione privata Heidi Horten, nel centro di Vienna, il caldo torrido di agosto risulta meno opprimente: la temperatura del suolo (misurata con termometro a infrarossi) è scesa da 31° a 20°C. LEGGI TUTTO

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    Dove c’è più luce gli uccelli cantano di più. “Ma l’inquinamento luminoso va contrastato”

    BirdWeather è un progetto che registra e identifica i diversi canti degli uccelli in giro per il mondo, grazie a dei sensori distribuiti nell’ambiente. Farsi un giro tra le vocalizzazione dei volatili in giro per il mondo è piuttosto facile, basta navigare la mappa con gli audio a disposizione di tutti. Alcuni ricercatori hanno utilizzato questa enorme mole di dati per cercare di capire se e quanto l’inquinamento luminoso alterasse l’attività di alcuni uccelli diurni, in particolare provando a rispondere a questa domanda: dove ci sono più luci gli uccelli cantano più a lungo?

    Biodiversità

    Caldo e illuminazione notturna allungano la stagione di crescita del verde cittadino

    di Simone Valesini

    18 Giugno 2025

    Per rispondere alla domanda, oltre alle registrazione dei canti degli uccelli, gli scienziati avevano bisogno dei dati relativi all’inquinamento luminoso, che sono stati ricavati a partire dalle informazioni raccolte grazie allo strumento satellitare Visible Infrared Imaging Radiometer Suite (Viirs), spiegano i ricercatori dalle pagine di Science. Nel complesso i ricercatori hanno analizzato circa 4,5 milioni di osservazioni per circa 600 specie di uccelli diurni e hanno scoperto che sì, l’inquinamento luminoso rende le giornate più melodiose. Gli uccelli in media iniziano prima a cantare, circa 18 minuti, e smettono dopo, circa 32 minuti, così che a fine giornata cantano quasi un’oretta di più.

    I dati, gli autori non lo nascondono, sono parziali, anche perché parziali sono le stesse osservazioni: navigando nella mappa è chiaro che le zone mappate siano soprattutto Europa (non molte in Italia), Nord America e in misura minore l’Australia. Ciò detto qualcosa dicono. Per esempio, accanto a un generale allungamento dei canti, i ricercatori hanno osservato che per alcune specie di uccelli l’anticipazione o la cessazione del canto erano più marcate (più lunghe) in presenza di un maggior inquinamento luminoso. Accadeva per esempio per le specie con occhi grandi o per quelli che costruiscono nidi aperti. Perché? L’ipotesi dei ricercatori è che queste caratteristiche li rendano nel complesso più abili o più suscettibili a percepire la luce rispetto agli uccelli con occhi piccoli o che nidificano al riparo, per esempio nelle cavità degli alberi. Gli effetti erano più marcati anche per le specie migratorie e per quelle con un areale più ampio, forse più flessibili e sensibili ai segnali temporali come la luce, anche se artificiale, aggiungono gli autori.

    Le rondini sono sempre più piccole: non per evoluzione, ma per il cambiamento climatico

    di Loredana Diglio

    13 Aprile 2025

    Da un lato gli uccelli potrebbero, in luogo di questa maggiore attività diurna, avere meno tempo a disposizione per riposare, ma potrebbero avere maggior tempo per procurarsi cibo e più possibilità di riprodursi. Ma ci muoviamo, per ora, nel campo dei “forse”: servono più dati, più completi e rappresentativi, per avere un’idea degli effetti dell’inquinamento luminoso sull’attività degli uccelli. Qualche dato in realtà c’è, e mostra come troppe luci possano confondere gli uccelli e metterne a rischio la sopravvivenza. Quel che è certo, concludono i due autori, Brent S. Pease e Neil A. Gilbert, rispettivamente della Southern Illinois University e della Oklahoma State University, è che serva fare qualcosa per invertire il fenomeno dell’inquinamento luminoso a livello globale. LEGGI TUTTO

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    La sfida della crisi del clima è globale ma le risposte degli Stati no

    In un vecchio film di Woody Allen, “Io e Annie”, il giovane newyorchese Alvy Singer, terrorizzato dall’imminente fine dell’Universo in espansione, chiede a sua madre: “Mamma, perché devo fare i compiti, se il mondo sta per finire?”. La madre, con disarmante pragmatismo, gli risponde che “l’Universo si starà anche espandendo, ma Brooklyn no”, e che dunque è il caso di continuare a fare i compiti. Un aneddoto cinematografico che cattura perfettamente la paralisi che nasce di fronte a una minaccia percepita come totale e ineluttabile: proprio quello che sta accadendo oggi con il cosiddetto catastrofismo climatico, incarnato mediaticamente da figure come Greta Thunberg. I danni di questo approccio sono evidenti, soprattutto nello spirito dell’opinione pubblica occidentale, la più toccata dal fenomeno: da un lato si genera una quasi rassegnazione, un’inerzia, un chissenefrega di massa; dall’altro si alimenta l’idea di una battaglia disperata da combattere “tutti insieme” cavalcando il concetto di catastrofe perennemente imminente ma sempre rimandata di qualche decennio.

    È ora di rinunciare definitivamente a entrambe queste idee. Il cambiamento climatico – termine già di per sé infelice, perché presuppone l’esistenza di un clima fisso che non è mai esistito, ragion per cui oggi si preferisce parlare di crisi climatica – è un tema eminentemente geopolitico. Normalmente lo si affronta e lo si discute come una questione globale, ma non lo è affatto. La crisi climatica non “cambia” il mondo solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto dal punto di vista di chi lo percepisce, a seconda dei soggetti e delle collettività interessate. L’unica ragione per cui lo si presenta come un problema globale è la consapevolezza, giusta ma vana, talvolta espressa talaltra implicita, che senza un impegno solidale di tutti o quasi tutti è impossibile immaginare una soluzione in tempi accettabili. Per rendersi conto che le cose stanno diversamente bisogna guardare ai dati. Dopo anni di battaglie per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, codificate anche nelle tanto grandiose quanto inutili assemblee delle Nazioni Unite note come COP, non solo le emissioni non sono diminuite, ma sono aumentate su una base recente di circa lo 0,8% ogni anno. Questo significa che l’obiettivo net-zero, proclamato dalla cosiddetta comunità internazionale, potrebbe essere raggiunto nel 2050 solo invertendo drasticamente la tendenza e raggiungendo un obiettivo annuo di riduzione delle emissioni del 4,8%, decisamente molto lontano. Se, invece, ci ponessimo un obiettivo più realistico – ma già difficilissimo – di una diminuzione dell’1% annuo, dovremmo attendere fino al 2160 per raggiungere la neutralità climatica. È difficile, per non dire impossibile, mobilitare qualsiasi comunità verso un traguardo così lontano nel tempo; figurarsi l’umanità intera.

    La conclusione logica è netta: se continuiamo a combattere la battaglia per la crisi climatica come stiamo facendo oggi – cioè fingendo di combatterla – saremo destinati a perdere. Anzi, questa battaglia è già persa. Bisogna prendere atto della radice geopolitica del problema, che impedisce strutturalmente una strategia globale, e cambiare radicalmente strada. Occorre affiancare alla strategia per la riduzione dell’anidride carbonica quello che in gergo si definisce eco-adattamento: non dobbiamo interessarci tanto alla questione della riduzione delle emissioni (non perché non sia importante, ma perché non è possibile risolvere la crisi con questo approccio) quanto piuttosto guardare altrove. Non agire “a monte” ma “a valle”, cioè riducendo e contenendo gli effetti concreti (e molto diversi) che la crisi climatica provoca sui territori, lavorando sulla scorta delle esperienze passate. Per un Paese come l’Italia, dal territorio estremamente difficile sotto il profilo fisico, questo approccio si traduce in azioni urgenti e concrete. Pensiamo alle “bombe d’acqua”, o alle esondazioni di fiumi e torrenti: invece di discutere di percentuali di CO2 che non riusciamo ad abbattere, dovremmo lavorare sul corso dei fiumi, che in tempi moderni sono stati spesso rettificati per migliorare lo sfruttamento idroelettrico, alterandone l’equilibrio naturale. Ogni anno ci ritroviamo con gli stessi fiumi e gli stessi torrenti che producono gli stessi danni, mentre il dibattito resta sterile. Approccio controproducente.

    Un caso emblematico è Venezia: si pensa che possa finire sott’acqua in qualche decennio, malgrado gli adattamenti progressivi come quello del Mose. Diversi studi indicano che l’innalzamento delle acque della laguna, a prescindere dalla stabilizzazione delle temperature, potrebbe continuare per secoli. La nostra possibilità di incidere su questi cambiamenti è limitata. A maggior ragione dovremmo subito mobilitarci per gestire le conseguenze. Ma questa mobilitazione deve essere effettiva, su scala locale e nazionale o di intesa fra alcune nazioni, concentrando interventi e ricerca per ottenere risultati visibili e ravvicinati. Purtroppo, a oggi non si vedono ancora, nel nostro Paese, strategie di adattamento del territorio.

    Una protesta a Nuuk, in Groenlandia, davanti al consolato americano (Ahmet Gurhan Kartal/Anadolu via Getty Images)  LEGGI TUTTO

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    Olio di semi di cotone per tessuti idrorepellenti senza Pfas né formaldeide

    Lisci, idrorepellenti e possibilmente resistenti alla formazione di pieghe: sono le caratteristiche che tipicamente si punta ad ottenere nella fase di finitura dei tessuti, in particolare quando si tratta di tessuti fatti di cotone. A questo scopo vengono spesso utilizzate sostanze come la formaldeide o i Pfas, che però possono presentare rischi sia per la salute che per l’ambiente. Per ovviare al problema, un gruppo di ricercatori e ricercatrici della North Carolina State University (Stati Uniti) sta testando l’olio di semi di cotone modificato chimicamente come possibile alternativa green. E i risultati dei primi esperimenti, presentati al convegno dell’American Chemical Society (Acs) attualmente in corso a Washington, sembrano promettenti.

    La ricerca

    Il tessuto che abbatte le temperature anche di 9°C

    16 Luglio 2024

    Le resine a base di formaldeide tendono a legarsi, grazie alle loro caratteristiche chimiche, alle fibre di cellulosa del cotone, rendendole resistenti alla formazione di grinze e pieghe. Dall’altro lato, le sostanze appartenenti alla classe dei Pfas conferiscono idrofobicità ai tessuti e li proteggono dalle macchie. Come anticipato, però, sia la formaldeide che i Pfas presentano dei rischi sia ambientali che legati alla salute umana. Questi ultimi sono anche conosciuti come forever chemicals, ad indicare il fatto che, una volta introdotti, persistono nell’ambiente praticamente per sempre. La formaldeide, invece, se inalata può causare irritazioni delle mucose del tratto respiratorio, ed è stata classificata come cancerogena per gli esseri umani dalla International Agency for Research on Cancer (Iarc).

    Per ottenere un’alternativa più ecologica e ugualmente efficace, il gruppo della North Carolina State University, basandosi su ricerche condotte in precedenza presso la stessa università, ha modificato chimicamente l’olio che si ottiene dai semi del cotone. In particolare, i ricercatori hanno introdotto dei gruppi funzionali che consentono alle molecole di olio di legarsi alle fibre di cotone in modo analogo a quello che succede con la formaldeide. In sostanza, in questo modo il tessuto viene ricoperto da una sorta di polimero che lo rende idrorepellente e anche resistente alla formazione di grinze.

    Tutorial

    Tessuti sostenibili: quali sono e come sceglierli

    02 Agosto 2025

    L’effettiva formazione dei legami fra le molecole di olio così modificate e le fibre di cotone è stata verificata attraverso specifiche tecniche di spettroscopia infrarossa, mentre l’idrorepellenza è stata testata utilizzando una particolare telecamera che consente di misurare l’angolo di contatto che le gocce di acqua formano con il tessuto di cotone. Ebbene, il tessuto trattato con l’olio di semi di cotone modificato ha mostrato un significativo aumento dell’idrorepellenza.

    Per il futuro, il gruppo di ricerca si ripropone di valutare altre caratteristiche dei tessuti di cotone trattati in questo modo, come la resistenza allo strappo e la durata. Inoltre, spiegano gli autori della ricerca, l’obiettivo finale sarebbe quello di mettere a punto un processo che richieda l’utilizzo di soli solventi acquosi per l’applicazione dell’olio modificato al tessuto, per evitare del tutto l’impiego di sostanze potenzialmente pericolose.

    Inquinamento

    La “schiuma” biologica e biodegradabile che elimina i Pfas dall’acqua

    di Dario D’Elia

    09 Maggio 2025

    “Se riusciremo a raggiungere il nostro obiettivo di modificare le proprietà del tessuto di cotone, rendendolo anti-grinze, anti-macchie e idrorepellente, utilizzando un processo a base acquosa – conclude Richard Venditti, che ha coordinato lo studio ed è docente presso la North Carolina State University -, avremo un metodo ecologico per applicare un materiale biologico sul cotone al posto delle finiture a base di formaldeide e Pfas”. LEGGI TUTTO

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    Greenpeace: viaggiare in Europa costa meno in aereo che in treno

    Nel mezzo dell’ennesima estate segnata da eventi climatici estremi come incendi, ondate di calore e alluvioni che stanno colpendo il nostro continente, un nuovo rapporto di Greenpeace Europa centro-orientale (CEE) denuncia il fallimento del sistema di trasporti europeo, in cui i voli aerei, nonostante il loro enorme impatto climatico, sono più economici dei viaggi in treno. Grazie ai privilegi fiscali di cui godono le compagnie aeree, in più della metà delle tratte analizzate costa meno viaggiare in aereo che in treno, addirittura fino a 26 volte meno.

    Il rapporto esamina 142 tratte in 31 Paesi europei, mostrando che i voli sono mediamente più economici dei treni sul 54% delle 109 tratte transfrontaliere analizzate. In Italia la situazione è anche peggiore: nelle 16 tratte internazionali che riguardano il nostro Paese, viaggiare in aereo è mediamente meno costoso che usare il treno nell’88% dei casi, ponendo l’Italia al quarto posto nella classifica dei Paesi europei in cui l’aereo è più economico del treno. A ciò si aggiunge spesso anche una grande differenza di prezzo: viaggiare da Lussemburgo a Milano costa quasi 12 volte di più in treno che in aereo, da Barcellona a Londra fino a 26 volte di più.

    Trasporti

    Sicurezza aerea, la crisi climatica e gli eventi estremi mettono a rischio l’aviazione

    di Sandro Iannaccone

    20 Giugno 2025

    “Anche se la crisi climatica peggiora, il sistema dei trasporti europeo continua a favorire il mezzo di trasporto più inquinante, con prezzi dei voli assurdamente bassi rispetto a quelli dei treni, che sarebbero molto più sostenibili”, dichiara Federico Spadini della campagna Clima e trasporti di Greenpeace Italia. “Questa situazione non è dovuta a questioni di efficienza, ma all’inerzia politica europea che consente alle compagnie aeree di godere di privilegi fiscali ingiusti che sfavoriscono il trasporto ferroviario a spese del clima del pianeta”.

    Trasporti

    Solo il 13% delle compagnie aeree ha un piano green e sceglie carburanti sostenibili

    di Dario D’Elia

    03 Dicembre 2024

    Il costo ambientale di questo sistema truccato è enorme. I voli aerei emettono in media 5 volte più CO? per passeggero per chilometro rispetto ai treni. Se confrontati con i sistemi ferroviari che utilizzano energia elettrica 100% rinnovabile, il loro impatto può essere oltre 80 volte superiore. Nonostante ciò, le tariffe aeree artificialmente basse continuano a spingere i viaggiatori a scegliere l’aereo, con le compagnie aeree low cost che dominano il mercato grazie a prezzi sleali. Infatti, mentre le compagnie aeree non pagano né l’imposta sul cherosene né l’IVA sui voli internazionali, le ferrovie devono pagare le imposte sull’energia, l’IVA ed elevati pedaggi ferroviari.

    “Ogni tratta in cui l’aereo è più economico del treno è un fallimento politico: l’Europa deve rendere il treno l’opzione più economica, anziché quella più svantaggiosa perché meno finanziata. Per questo chiediamo all’Unione europea e ai governi nazionali di porre fine alle agevolazioni fiscali per il settore aereo, di investire sulla rete ferroviaria e di introdurre biglietti climatici a prezzi accessibili e facili da utilizzare. Le risorse economiche per cambiare il sistema dei trasporti si potrebbero ricavare da una tassazione adeguata del settore aereo, dei super-ricchi e delle aziende più inquinanti come quelle dei combustibili fossili. Servirebbe solo la volontà politica dei leader europei”, conclude Spadini. LEGGI TUTTO