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    Mondiali 2026, i calciatori ad “alto rischio di stress da calore estremo”

    Aumento delle temperature, maggior frequenza e maggior intensità degli eventi catastrofici, innalzamento del livello del mare, desertificazioni, inondazioni e siccità, nuove malattie, nuovi poveri, nuove migrazioni. Tra i tanti e tragici effetti dei cambiamenti climatici, fino a questo momento, pochi avevano considerato quelli sullo sport: ebbene, un gruppo internazionale di scienziati tedeschi e olandesi ha appena fatto notare che il riscaldamento del pianeta avrà molto probabilmente un impatto considerevole anche sui campionati mondiali di calcio 2026, che si svolgeranno in Canada, Stati Uniti e Messico, e sottoporrà gli atleti a “un rischio molto elevato di subire stressa da calore estremo” in almeno 10 dei 16 stadi che ospiteranno le partite della competizione. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports.

    L’allarme degli scienziati: “Rivedere il calendario degli eventi sportivi”

    “Il nostro lavoro”, scrivono gli autori, “esamina il rischio di grave stress da calore e le potenziali perdite di liquidi nei calciatori professionisti, considerando anche la concentrazione di ossigeno nell’aria inalata dagli atleti che parteciperanno al Campionato mondiale di calcio Fifa del 2026. Abbiamo calcolato, per tutti e 16 gli stadi della competizione, i valori orari degli indici biometeorologici, tra cui l’indice climatico termico universale aggiustato (Utci), la perdita di acqua (Sw) e il volume di ossigeno (Ov)” scoprendo che “dieci stadi sono ad altissimo rischio di causare condizioni di stress termico estremo”.

    Caldo e sforzo fisico

    In particolare, il caldo e lo sforzo fisico intenso potrebbero costringere i calciatori a sopportare temperature percepite superiori a 49,5 °C negli stadi di Arlington e Houston (Stati Uniti) e di Monterrey (Messico). La questione non riguarda solo il prossimo campionato di calcio, ma probabilmente anche quelli del futuro: “Vale la pena”, ha affermato Marek Konefal, uno degli autori dello studio, esperto della Worklaw University of Health and Sport Sciences, in Polonia, “riconsiderare i calendari di tutti gli eventi sportivi d’ora in avanti”.

    Cos’è la “temperatura di bulbo umido”
    Probabilmente, servirà anche un adattamento delle norme che definiscono la “giocabilità” di un dato incontro. Al momento, la Fifa ha disposto che si debbano effettuare pause di raffreddamento nel caso in cui la cosiddetta “temperatura del bulbo umido” superi i 32 °C. La misurazione della temperatura di bulbo umido è una tecnica che si usa per valutare l’effetto combinato di temperatura e umidità dell’aria: si ottiene avvolgendo un termometro in un panno bagnato e facendolo ventilare: l’acqua evapora dal panno e, mentre lo fa, raffredda il termometro. La temperatura che si legge è la temperatura di bulbo umido, e la misura aiuta a comprendere per esempio quanto il corpo umano riesce a raffreddarsi attraverso il sudore: quando l’umidità è più alta, l’evaporazione del sudore è più difficile e la temperatura di bulbo umido si avvicina alla temperatura reale. Se la temperatura di bulbo umido supera i 30-35 °C per troppo tempo, il corpo umano potrebbe non riuscire più a raffreddarsi, portando a colpi di calore anche in condizioni di riposo, e pertanto questo tipo di misurazione è un indicatore usato per valutare il rischio di stress termico, soprattutto in ambienti caldi e umidi.

    Gli autori del lavoro appena pubblicato, però, temono che questo parametro sia insufficiente, perché considera solo calore e umidità “esterni”: “Durante un’intensa attività fisica”, ha spiegato Katarzyna Lindner-Cendrowska, climatologa alla Polish Academy of Sciences e co-autrice dello studio, “i muscoli degli atleti producono enormi quantità di calore, il che aumenta il carico di calore complessivo sul corpo”. Per questo, i ricercatori hanno eseguito simulazioni più realistiche, che tengono conto anche della velocità, dei livelli di attività e degli indumenti indossati dai calciatori, scoprendo che lo stress maggiore sarebbe avvertito tra le 14 e le 17 negli stadi sopra menzionati, e che potrebbe essere così pesante da poter indurre colpi di calore e perfino collassi: uno scenario certamente da scongiurare, per il successo del campionato ma soprattutto per la salute dei calciatori. LEGGI TUTTO

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    Clima, il 2024 sarà l’anno più caldo di sempre

    Ora è ufficiale: il 2024 supera il 2023 e passa alla storia (per ora) come l’anno più caldo da quando si fanno questo tipo di misurazioni. L’annuncio è del Copernicus Climate Change Service, emanazione del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio: l’istituzione ormai riconosciuta a livello globale come la più autorevole nel monitorare l’andamento delle temperature del Pianeta. Nel suo bollettino mensile l’agenzia europea si concentra sul mese di novembre appena trascorso: è stato il secondo più caldo a livello globale, dopo quello del 2023, con una temperatura media dell’aria superficiale di 14,10°C, di 0,73°C superiore alla media di novembre del periodo 1991-2020. Con un novembre così è ormai certo che l’intero 2024 sarà da record, indipendentemente dalle temperature che si registreranno a dicembre: la temperatura media globale sarà superiore di oltre 1,5°C rispetto alla media del livello preindustriale. LEGGI TUTTO

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    Calicanto invernale, l’arbusto resistente al freddo che viene dalla Cina

    Il calicanto invernale (Chimonanthus praecox) è una specie di pianta arbustiva che appartiene al genere chimonanthus, a sua volta facente parte della famiglia delle calicantacee. La pianta è originaria dell’Asia e, in particolare della Cina, dove cresce spontaneamente soprattutto nelle foreste temperate con latifoglie. Il calicanto invernale si sviluppa come un cespuglio, raggiungendo circa i tre metri di altezza. Le foglie hanno una forma ovale, un colore verde di tonalità piuttosto chiara e sono caduche. I fiori sono solitamente di color giallo paglierino (o comunque chiaro), sebbene possano avere anche sfumature violacee o tendenti al rosso-marrone. Il calicanto invernale non è velenoso: la specie con questa particolare caratteristica è invece la floridus, che è facilmente riconoscibile dai suoi fiori rossi.

    Calicanto invernale: l’esposizione consigliata
    Il calicanto invernale è una pianta particolarmente rustica, che sopporta senza alcun problema delle temperature minime attorno ai -15 gradi. Nelle aree climaticamente calde del nostro paese, il luogo ideale per piantarlo è in penombra: in questo modo, il soleggiamento estivo intenso non farà soffrire la pianta. Nelle regioni più fredde, invece, possiamo metterlo a dimora in aree in cui è esposto al sole diretto. Ricordiamoci infine che la pianta non ama l’esposizione alle correnti d’aria.

    Il terreno ideale per la sua coltivazione
    Per coltivare il calicanto invernale possiamo scegliere un terreno fertile e fresco, che può essere acido o alcalino, poiché la pianta non è particolarmente esigente in tal senso. Il calicanto invernale si adatta anche a crescere nei terreni argillosi, ma la caratteristica che non deve mai mancare è l’ottimo drenaggio. La pianta non sopporta il ristagno idrico a livello radicale: per questo motivo, se necessario, dobbiamo prevedere l’aggiunta di sabbia al terreno di coltivazione.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    Il calicanto invernale richiede una certa regolarità nell’innaffiatura soltanto durante i primi anni di vita. Gli esemplari giovani devono essere annaffiati soprattutto durante il periodo estivo o, comunque, in caso di prolungata siccità. In seguito, la pianta si accontenta principalmente dell’acqua piovana, sebbene si debba prestare attenzione ai lunghi periodi senza piogge, soprattutto se in concomitanza col caldo intenso. Per la concimazione del calicanto invernale possiamo scegliere il tipico concime granulare a lenta cessione, che possiamo distribuire ai piedi della pianta durante l’autunno e la primavera. Il calicanto invernale si può potare soprattutto per orientarne la crescita ed evitare che tenda a svilupparsi eccessivamente verso l’alto. Non potiamo invece la parte bassa del calicanto invernale, poiché ospita tutti i nuovi polloni basali che la pianta continua a sviluppare nel tempo. Ricordiamoci di eliminare i rami secchi o danneggiati, evitando di sfilacciarli, usando sempre utensili puliti. Il momento ideale per eseguire la potatura è attorno agli inizi della primavera, non appena la fioritura è giunta a conclusione.

    Fioritura del calicanto invernale
    Come suggerisce il nome stesso, il calicanto invernale regala una particolarissima fioritura nel cuore della stagione fredda. Quando la pianta sembra spoglia e secca, coi suoi rami legnosi che sembrano riposare, all’improvviso iniziano a spuntare i germogli e, poi, tanti fiori gialli di una tonalità tenue. La fioritura del calicanto invernale avviene solitamente tra i mesi di gennaio e febbraio, anche quando le temperature minime sono particolarmente basse. Quando la fioritura giunge alla conclusione, la pianta inizia a produrre le prime foglie e riprende il suo ciclo vitale.

    Come propagare la pianta
    Il calicanto invernale può essere moltiplicato tramite i semi, le talee, le margotte (cioè, il tentativo di far radicare un ramo che non è stato separato dalla pianta) o i polloni. Nei primi tre casi, dobbiamo attendere il periodo a cavallo tra la conclusione dell’estate e l’inizio dell’autunno. Per la moltiplicazione tramite polloni dobbiamo invece aspettare la primavera, separando un pollone dalla pianta.

    I parassiti che lo colpiscono comunemente
    Il calicanto invernale può essere attaccato dagli afidi, che di solito infestano i nuovi germogli causando importanti danni. Per contrastare l’azione di questi parassiti dobbiamo utilizzare un sapone insetticida o altro prodotto adeguato. La pianta risente abbastanza facilmente degli eccessi di acqua di irrigazione, che possono provocare il temuto marciume radicale e il deperimento dei rami, oppure, la comparsa di foglie secche sul calicanto. In questo caso, sospendiamo le annaffiature ed attendiamo che la nostra pianta si sia ripresa prima di darle altra acqua. Viceversa, durante la stagione estiva il calicanto invernale può soffrire a causa dell’intensità del caldo e la prolungata assenza di piogge, coi rami che tendono a deperire. In questo caso specifico, dobbiamo aumentare l’umidità ambientale, evitando però di bagnare le foglie nelle ore più calde, perché potrebbero bruciarsi a causa del soleggiamento LEGGI TUTTO

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    Movopack, la startup degli imballaggi per l’ecommerce da riusare 20 volte

    “Movopack nasce da una mia idea. Dopo la laurea in ingegneria al politecnico di Milano, ho lavorato per circa quattro anni in Ambienta, società Europea di Private Equity dedicata agli investimenti in sostenibilità ambientale. Anni durante i quali ho compreso quanto il mercato del packaging per l’ecommerce avesse bisogno di una svolta sostenibile. Così durante l’MBA al Columbia Business School inizio a lavorare al progetto d’impresa. Coinvolgendo sin da subito Alberto e Andrea, amici dai tempi del liceo. Da quel momento è incominciata la nostra avventura nel mondo dell’innovazione ecosostenibile”.

    L’idea del packaging riutilizzabile
    A parlare è Tomaso Torriani (CEO) che nel 2021, insieme a Alberto Cisco (CCO) e Andrea Cipollone (COO), fonda a Milano Movopack startup innovativa che fornisce alle piattaforme di e-commerce imballaggi riutilizzabili e sostenibili. I suoi fondatori hanno studiato e analizzato l’impatto ambientale degli imballaggi monouso per il commercio elettronico e la mancanza di alternative sostenibili e accessibili. “La soluzione di imballaggio Movopack abbraccia i principi dell’economia circolare. Invece di essere prodotti e scartati dopo ogni utilizzo, i nostri imballaggi possono essere riutilizzati fino a 20 volte, riducendo significativamente le emissioni di carbonio, l’energia e la produzione di rifiuti. Non solo, dopo il disimballo, i clienti possono consegnare l’imballaggio in qualsiasi cassetta postale in Europa. L’imballaggio torna a Movopack e viene igienizzato prima di essere utilizzato per la consegna successiva”, ci raccontano.
    Gli imballaggi green di Movopack
    Gli imballaggi di Movopack, realizzati con bottiglie di plastica riciclata (rPET) e polipropilene riciclato intrecciato (PP), sono progettati per sostenere alla logistica postale e possono essere riutilizzati dai rivenditori fino a 20 volte. Rispetto agli imballaggi standard per e-commerce, che in genere sono scatole di cartone monouso con un contenuto riciclato del 70%, ogni imballaggio Movopack, se riutilizzato 20 volte, offre notevoli vantaggi per l’ambiente. Questa alternativa sostenibile riduce le emissioni di CO2 dell’84%, il consumo di energia dell’80% e quello di acqua del 76%, secondo una valutazione del ciclo di vita condotta da Life Cycle Engineering.

    “Oltre a essere la soluzione più sostenibile disponibile sul mercato, l’imballaggio di Movopack funge da potente strumento di marketing per le aziende partner. Le confezioni sono completamente personalizzabili nelle dimensioni e nel design e consentono ai marchi di esprimere la propria identità e di trasmettere messaggi ai clienti, rafforzando al contempo la propria posizione sul mercato come marchio impegnato nella sostenibilità”, continua il Ceo Torriani. “I sistemi di imballaggio riutilizzabili sono chiaramente il futuro di un mercato da 1 trilione di dollari che vede ancora pochi operatori impegnati in questo settore. Oltre all’enorme opportunità di business, è l’unica soluzione concreta per tagliare la produzione di rifiuti e ridurre drasticamente le emissioni di CO2”.
    L’imballaggio usato va nella cassetta postale
    La missione di Movopack è proporre un’alternativa agli imballaggi monouso, stabilendo un nuovo standard nel consumo di imballaggi. La startup offre un sistema di imballaggio riutilizzabile e sostenibile per il commercio elettronico. La soluzione si basa su quattro innovazioni principali: una gamma di imballaggi riutilizzabili e completamente personalizzabili, un efficiente sistema di logistica inversa attivo in tutta Europa, sistemi di ricondizionamento che garantiscono un tasso di riutilizzabilità del 98%, e un insieme di tecnologie che innovano il modo in cui gli imballaggi vengono forniti ai clienti finali.

    L’impresa ha appena chiuso un round di finanziamento di 2,3 milioni di euro guidato dal fondo italo-francese 360 Capital, a cui hanno partecipato anche gli austriaci di Greiner Innoventures e l’incubatore statunitense Techstars. L’operazione consentirà la prima espansione dell’azienda al di fuori dell’Italia, contribuendo ad affrontare la crisi legata alla crescita dei rifiuti da imballaggio, dove si stima che ogni settimana vengano gettati 1,7 miliardi di componenti in plastica.

    La normativa sul packaging riutilizzabile
    Mentre l’Ue introduce una legislazione che prevede che il 10% degli imballaggi per ecommerce sia riutilizzabile entro il 2030 (salendo al 50% entro il 2040), Movopack offre al mondo del ecommerce soluzioni di imballaggio economiche, restituibili e personalizzabili.

    “L’espansione nel Regno Unito segna una tappa importante, in quanto i brand britannici stanno danno sempre più attenzione ad approcci che siano in linea con la crescente domanda dei consumatori di soluzioni sostenibili. Per questo anche siamo particolarmente entusiasti del round, perché ci consente di lanciare la nostra soluzione nel Regno Unito in un momento in cui la domanda di soluzioni sostenibili è molto forte ed in crescita. I consumatori e i brand sono alla ricerca di soluzioni efficaci per contribuire ad un mondo in cui si possa crescere e prosperare senza compromettere l’ambiente. Noi di Movopack lavoriamo per soddisfare questa esigenza e per rendere la sostenibilità non solo un’opzione, ma uno standard nell’e-commerce”, conclude Torriani. Il lancio di Movopack nel Regno Unito consentirà ai consumatori di restituire facilmente gli imballaggi attraverso l’esteso sistema postale Royal Mail, che offre accesso a 115 mila cassette postali in tutto il Paese, consentendo un facile riutilizzo degli imballaggi. Oggi Movopack lavora con oltre 100 brand e gestisce circa 200 mila imballaggi. LEGGI TUTTO

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    GrapheneBreathe, la startup che cattura le emissioni degli allevamenti

    Si chiama GrapheneBreathe ed è la startup che al Premio Nazionale Innovazione 2024, ha vinto la menzione speciale Green&Blue del Gruppo GEDI, come miglior progetto di impresa ad impatto sul cambiamento climatico. GrapheneBreathe è una startup innovativa di tecnologia ambientale focalizzata sulla cattura e la trasformazione delle emissioni di gas serra dagli allevamenti di bestiame. Grazie all’implementazione di avanzati sistemi di filtrazione a base di grafene, GrapheneBreathe non solo riduce le emissioni agricole, ma crea anche sottoprodotti preziosi come gas industriali, fertilizzanti a base di urea e crediti di carbonio. Puntando sia all’impatto ambientale che all’efficienza degli agricoltori. La soluzione tecnologica proposta è il risultato dell’attività di ricerca svolta presso l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale in collaborazione con altre istituzioni di ricerca e un partner industriale. Il team è composto da: Pierluigi Simeone, Salvatore Cosmo Di Schino, Nadia Spinelli, Thi Ha Le e Francesco Siconolfi.

    Nel dettaglio, la startup sfrutta una soluzione completa per la cattura delle emissioni, il trattamento dei gas e la reportistica ambientale, rivolgendosi ad agricoltori, acquirenti di gas industriali e aziende alla ricerca di compensazioni di carbonio. Gli allevatori beneficiano della riduzione delle emissioni e di potenziali flussi di entrate attraverso la monetizzazione del gas e i crediti di carbonio, mentre le industrie ottengono accesso a forniture di gas sostenibili e compensazioni di carbonio verificate.

    La tecnologia di filtrazione
    Il vantaggio competitivo di GrapheneBreathe deriva dalla sua tecnologia di filtrazione proprietaria a base di grafene, che fornisce una soluzione versatile ed efficiente per catturare più gas (CO?, metano, ammoniaca) direttamente dalle emissioni agricole. Questo vantaggio di ‘primo utilizzatore’ nella cattura delle emissioni dagli allevamenti pone l’azienda all’avanguardia rispetto ai tradizionali additivi per il mangime e ad altri metodi indiretti di riduzione delle emissioni. Nel dettaglio, il sistema avanzato di filtrazione a ossido di grafene offre un’elevata efficienza di adsorbimento, garantendo una cattura efficace delle emissioni e producendo gas che possono essere ulteriormente utilizzati economicamente, ad esempio come fertilizzante o per applicazioni industriali.

    La startup si è dotata tre soluzioni chiave da proporre alle aziende agricole per ridurre la propria impronta ambientale:

    Sistema di filtrazione modulare: le unità di filtrazione a base di grafene sono progettate per un’installazione modulare nelle aziende agricole, fornendo soluzioni scalabili con costi iniziali minimi per gli agricoltori.
    Flussi di ricavi diversificati: GrapheneBreathe ha una strategia di ricavi diversificata, che include vendita e manutenzione dei sistemi di filtrazione, vendita diretta di gas industriali (CO2, metano, ammoniaca), vendita di crediti di carbonio ad organizzazioni alla ricerca di compensazioni verificate, e produzione di urea, rispondendo alla crescente domanda di fertilizzanti ecologici.
    Partnership per l’estensione del mercato: Collaborazioni chiave con distributori di gas industriali, enti certificatori di crediti di carbonio e associazioni di agricoltori regionali. LEGGI TUTTO

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    Bonsai pino: come prendersene cura

    I bonsai pino si differenziano dalle altre conifere principalmente per gli aghi a sezione triangolare. Di tipologie ne esistono diverse e a seconda di ognuna può cambiare il colore e la lunghezza. Anche la forma può diversificarsi, ma in linea di massima i bonsai pino si riconoscono perché conici e piramidali.

    I tipi di bonsai bino: come riconoscerli
    I bonsai di pino rientrano tra le specie classiche di bonsai e hanno un ruolo centrale nella progettazione dei giardini giapponesi. Le specie di pino più gettonate, ma soprattutto più semplici da reperire come bonsai, sono il Pinus thunbergii (o Pino nero) e il Pinus pentaphylla (Pino a cinque aghi).

    Pinus thunbergii e Pinus pentaphylla
    Il bonsai Pinus thunbergii, meglio conosciuto come Pino nero è una pianta che, anche come bonsai, può vivere per moltissimi anni. Con il passare del tempo il bonsai pino nero assume caratteristiche nuove; la sua corteccia, ad esempio, tende a fessurarsi e a diventare molto più interessante, così come la vegetazione, che si arricchisce. Affascinante e longevo, il bonsai di pino nero rimane una delle specie più amate in Giappone, e non solo.

    Il bonsai pino a cinque aghi (Pinus pentaphylla) è un’altra varietà molto conosciuta e apprezzata nel meraviglioso mondo dei bonsai. Il nome della pianta, è scontato, viene proprio dalla caratteristica peculiare della specie, che a differenza degli altri pini che hanno gli aghi a coppie, si presenta con mazzetti da cinque aghi. Questi sono corti e tinti di un verde-azzurrognolo molto delicato. Anche questo, come il Pino nero, non teme le avversità climatiche, ma teme invece le cure sbagliate. Ecco, quindi, che per prendersi cura di questa varietà bisogna essere realmente esperti.

    Bonsai pino: come prendersene cura
    Prendersi cura dei bonsai pino non è difficile, ma ci sono certe accortezze che è sempre bene seguire affinché viva bene e a lungo, più di quanto già non faccia. Prima di acquistarne uno, quindi, sarebbe meglio avere chiaro che cosa fare e come, partendo dalle basi. Esposizione, irrigazione, potatura e concimazione sono sempre i capisaldi da tenere a mente: scopriamoli nel dettaglio.

    Esposizione del bonsai pino
    Si parta dal presupposto che i Pini amano le posizioni soleggiate e ben ventilate. Data questa premessa importante, per far sì che il bonsai pino selezionato cresca in salute, sarebbe meglio esporli (e lasciarli) all’esterno. L’esposizione in pieno sole favorisce la resistenza della pianta, ma bisogna ricordarsi di proteggerli durante la stagione invernale, specialmente se sono in vaso. Come per tutte le conifere, anche il bonsai pino ama la rugiada, motivo per il quale l’esposizione a cielo aperto è sempre la più apprezzata. In questo modo durante la notte la chioma sarà inumidita nelle giuste quantità e la salute della pianta garantita. Nel caso in cui i vasi siano particolarmente piccoli, sarebbe meglio proteggere il bonsai pino dai freddi invernali (venti compresi) capaci di gelare il terreno e le sue radici.

    Che cosa fare, invece, in estate? Per evitare disagi e danni alla salute del bonsai pino, si consiglia sempre di esporre la pianta sotto una rete ombreggiante durante le ore più calde del giorno, assicurandosi poi di riporli all’esterno ogni singola sera. In questo modo saranno protetti dal caldo estremo durante il giorno ma potranno poi godere della rugiada notturna, migliore amica della loro salute.

    Bonsai pino: potatura
    Come per la maggior parte dei bonsai, anche la potatura del bonsai pino andrebbe fatta in inverno. In questo periodo dell’anno, infatti, l’albero è in riposo vegetativo e la pressione della linfa ai minimi storici; perciò, si eviterà la comparsa di resina, tamponabile con pasta cicatrizzante. Per eseguire una corretta potatura si consiglia sempre di togliere le candele della pianta in salute da inizio a metà estate, assicurandosi di lasciare solo un piccolo moncone di circa 5mm (da eliminar definitivamente l’anno successivo) più qualche coppia di aghi. Inoltre, è consigliabile tagliare la punta delle gemme dormienti: questo servirà per sollecitarne la crescita. Dopo la maturazione della seconda cacciata, presumibilmente in autunno, si dovranno eliminare tutte le crescite in eccesso. Infine, ma non per importanza, è bene eliminare tutti gli aghi vecchi in eccesso per donare equilibro alla crescita della pianta.

    Il taglio dei rami si deve sempre effettuare utilizzando la tronchese concava; in questo modo si eviteranno tagli drastici e si lascerà sempre un piccolo ciuffo di vegetazione in cima ai rami tagliati, così che possano continuare a vivere nonostante il ritiro di linfa.

    Pinzatura
    Un altro grande accorgimento da tenere in considerazione per avere sempre un bonsai pino con rami e aghi corti e folti è la pinzatura. Si tratta di un’azione da svolgere in primavera, quando i nuovi germogli (tecnicamente “candele”) hanno raggiunto la lunghezza di 3 cm e hanno bisogno di essere accorciati a 1 cm. Questo procedimento si può fare o direttamente utilizzando le mani, oppure, per essere più precisi, utilizzando la forbice adatta. Una volta svolto questo passaggio, si aspetta che arrivi l’estate; in questa stagione si può effettuare la pinzatura sui germogli deboli, gli stessi che si sono aperti dopo l’accorciamento delle candele.

    Bonsai pino: annaffiatura
    Prima regola per la cura del bonsai pino: non esagerare con l’acqua. L’annaffiatura di questa meravigliosa pianta deve essere adeguata e soprattutto dosata. Il bonsai pino, infatti, non ama la troppa umidità; quindi, bisogna aspettare sempre che sia asciutto prima di annaffiare di nuovo. In generale, se si lascia asciugare in modo adeguato la terra tra un’irrigazione e l’altra, il fogliame del bonsai assumerà un aspetto molto più compatto. In caso di piogge frequenti ed eccessive, proteggere la pianta con grande cura; senza questa attenzione gli aghi del bonsai si allungheranno più del dovuto.
    Infine, è importante tenere a mente che dall’inizio della stagione estiva fino a tutto l’autunno, non ci si deve dimenticare di nebulizzare gli aghi del bonsai e di farlo a fine giornata.

    Rinvaso, concimazione e malattie del bonsai pino
    È possibile rinvasare il bonsai pino ma è un passaggio da fare preferibilmente in primavera. Di solito, i bonsai pino giovani si trapiantano ogni tre anni circa, mentre gli esemplari più maturi ogni cinque o sette anni. Una volta effettuato il rinvaso bisogna bagnare molto bene il terreno e si deve posizionare il bonsai all’ombra, avendo cura di nebulizzare gli aghi almeno due volte al giorno. Quando gli aghi saranno completamente aperti, allora si potrà porre il bonsai pino a cielo aperto in pieno sole.

    La concimazione rientra tra le azioni da svolgere per prendersi cura del proprio bonsai pino. Per ottenere una pianta rigogliosa e in salute, si consiglia sempre di non abbondare con la frequenza ma di essere costanti, specialmente nel periodo vegetativo della pianta. Si parla quindi dei mesi che vanno da marzo a giugno e da metà agosto e metà ottobre. Data questa premessa, si predilige sempre un fertilizzante a lenta cessione.

    Prendersi cura del bonsai pino significa anche difenderlo da eventuali attacchi di parassiti e/o malattie. I nemici più comuni di questa varietà di bonsai sono gli afidi, gli acari e la cocciniglia. Per evitare che questi attacchino la pianta, si può pensare di effettuare alcuni trattamenti preventivi a cadenza regolare (quindicinale). Per evitare invece il tanto temuto marciume radicale, basterà eseguire un normale trattamento ad hoc e farlo almeno due volte all’anno. LEGGI TUTTO

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    L’Islanda autorizza la caccia alle balene fino al 2029

    Altri cinque anni di caccia alle balene. L’Islanda e decine di associazioni ambientaliste da tempo stavano aspettando una notizia che avrebbe potuto mettere fine alla caccia alle balene nel Paese: il primo ministro Bjarni Benediktsson però, che ricopriva anche la carica ad interim di ministro per l’Alimentazione, agricoltura e pesca, anziché negare le licenze di […] LEGGI TUTTO

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    Con l’aumento delle temperature di 2 gradi potremmo perdere un terzo delle specie animali

    Si stima che dagli anni ’60 a oggi, ossia da quando le temperature hanno iniziato ad aumentare rispetto al periodo pre-industriale, la quota di specie estinte a causa del cambiamento climatico sia aumentata del 4% ogni dieci anni. Secondo una meta-analisi appena pubblicata su Science, nel peggiore degli scenari dal punto di vista delle emissioni potremmo addirittura perdere un terzo delle specie animali note.

    Quelle più a rischio sarebbero quelle che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America, in aree montuose, insulari o in ecosistemi di acqua dolce. Lo studio è stato effettuato da Mark Urban, docente di ecologia e biologia dell’evoluzione presso l’Università del Connecticut (Stati Uniti), che ha analizzato i risultati di 485 studi effettuati negli ultimi 30 anni, riguardanti le previsioni (o, in gergo, proiezioni) sullo stato di conservazione della maggior parte delle specie animali conosciute.

    Dalla meta-analisi è emerso che nella situazione attuale di circa +1.3°C rispetto alle temperature dell’epoca pre-industriale si prevede l’estinzione dell’1.6% delle specie esistenti. Superando la soglia dei +1.5°C, presa come riferimento nell’Accordo di Parigi del 2015, e raggiungendo i +2°C, il rischio salirebbe al 2.7%. Ma, si legge nella pubblicazione, stando agli attuali impegni internazionali in termini di riduzioni delle emissioni, in futuro potremmo raggiungere i +2.7°C rispetto alle temperature pre-industriali, il che metterebbe a rischio di estinzione una specie ogni 20 di quelle attualmente note. Oltre questa soglia il rischio subirebbe poi un’ulteriore rapida impennata, balzando al 14.9% a +4.3°C e addirittura al 29.7% a +5.4°C. Ossia, nel peggiore scenario dal punto di vista delle emissioni di gas serra e quindi dell’aumento delle temperature globali, circa una specie su tre sarebbe a rischio di estinzione.

    Come anticipato, le specie che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America sono quelle che corrono un rischio maggiore. Per quanto riguarda i primi due paesi, il rischio particolarmente elevato sarebbe legato al fatto che le specie terrestri che li abitano hanno una possibilità di spostamento limitata prima di dover fare i conti con l’oceano. Nel caso del Sud America, spiega Urban, il rischio probabilmente riflette il fatto che questa zona sia caratterizzata da un’incredibile biodiversità e da specie che vivono in areali ristretti e in nicchie ecologiche particolarmente specializzate.

    Entrando poi nello specifico dei gruppi tassonomici e dei vari ecosistemi esistenti, dalla meta-analisi emerge che gli anfibi e gli animali che vivono in montagna, sulle isole e all’interno di ecosistemi di acqua dolce sono quelli maggiormente a rischio. Tendenzialmente, spiega Urban, perché queste specie si possono spostare di meno o perché l’ecosistema all’interno del quale vivono è di per sé più soggetto a cambiamenti climatici o all’invasione da parte di specie aliene.

    Anche i dati storici confermano questa previsione: la maggior parte delle estinzioni avvenute in passato e attribuite ai cambiamenti climatici avrebbero riguardato proprio specie che vivono in montagna, sulle isole o negli ecosistemi di acqua dolce. Un esempio è la Melomys rubicola, una specie di roditore originaria di una minuscola isola situata fra l’Australia e la Nuova Guinea, classificata come estinta nel 2015 probabilmente a causa dell’innalzamento del livello dell’oceano.

    Secondo Urban, tra l’altro, il numero di specie estinte a causa dell’aumento delle temperature globali è in realtà sottostimato. Questo perché tendiamo a focalizzare la nostra attenzione sui vertebrati, lasciando in secondo piano le miriadi di altre specie, magari più piccole o meno carismatiche. Senza considerare che possiamo tenere traccia solo di quelle che conosciamo, ma le specie esistenti sono molte di più. LEGGI TUTTO