consigliato per te

  • in

    Fa sempre più caldo, i pipistrelli salgono di quota

    La verità sul cambiamento climatico? Arriva dai pipistrelli. Mammiferi longevi (arrivano fino ai quarantuno anni di età) e a riproduzione lenta (di norma, hanno un piccolo all’anno), sono tra gli animali più sensibili all’impatto umano. E stanno offrendo informazioni preziose sul rapporto tra climate change e biodiversità. Già, perché le ondate di calore, sempre più frequenti subito dopo i parti, stanno uccidendo i piccoli di diverse specie nei loro rifugi, non solo in quelli artificiali (le cosiddette “bat box”), ma anche negli edifici e perfino nelle cavità degli alberi. “Sono segnali inequivocabili, tanto più perché arrivano dagli animali, che non votano, non formano lobby e non hanno tessere di partito. – spiega Danilo Russo, ecologo dell’Università Federico II di Napoli e tra i massimi esperti internazionali di pipistrelli – Perciò, quando col loro comportamento raccontano i cambiamenti climatici prodotti dall’azione umana, tocca crederci”.

    Nuovi equilibri
    Così il team coordinato da Russo ha raccolto precise evidenze monitorando il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, lavora da molti anni. In quest’area, le temperature invernali sono aumentate di 4 gradi centigradi in due decenni. Con conseguenze evidenti. “Alcune specie legate ai fiumi stanno spostando le aree riproduttive verso altitudini più elevate, rese ospitali dal clima più mite e dalla maggiore abbondanza di insetti”, spiega Russo. È il caso del vespertilio di Daubenton (Myotis daubentonii), le cui femmine riproduttive sono risalite di 175 metri in 24 anni, seguendo “il caldo che avanza”. Lo fanno sfruttando la rigogliosa vegetazione ripariale dell’area, che offre loro rifugi e cibo. Ancora più rapido l’adattamento del raro vespertilio di Capaccini (Myotis capaccinii), specie legata a grotte e climi caldi: “Appena nel 2023 lo abbiamo registrato a 870 m, dove non era mai stato avvistato”, racconta ancora l’ecologo. Nel luglio 2025 abbiamo osservato una femmina a 1020 m, nel cuore del Parco”.

    Cosa succede al pianeta

    Stiamo cambiando gli equilibri della natura

    di Elena Dusi

    11 Agosto 2025

    Una strategia per sopravvivere
    Evidenze inoppugnabili, che confermano l’importanza di studi specifici come quello finanziato dall’Ente Parco, un progetto di ricerca in cui sono coinvolti anche. Luca Cistrone e il Laboratorio AnEcoEvo (Dipartimento di Agraria, Università Federico II di Napoli), in collaborazione con Mirjam Knörnschild del Museo di Storia Naturale di Berlino. L’obiettivo generale è proprio comprendere come i pipistrelli stiano rispondendo al riscaldamento globale in atto. Spostandosi di quota, e non solo. Perché a quanto pare Myotis daubentonii, in un periodo circa vent’anni, ha anche aumentato le proprie dimensioni corporee. “Riprodursi in rifugi più caldi significa risparmiare l’energia necessaria a scaldare il corpo, e le madri reinvestono questa energia nella crescita dei piccoli”, spiega Russo. Il clima starebbe dunque avvantaggiando questi mammiferi? Difficile dirlo. In un mondo dove gli insetti sono in forte declino, per pipistrelli insettivori come quelli italiani un corpo più grande potrebbe rappresentare un handicap, più che un vantaggio.

    Crisi climatica

    Estati lunghe fino a 5 mesi in molte città d’Europa

    di Paolo Travisi

    11 Luglio 2025

    Che il cambiamento climatico sia una minaccia seria lo conferma un altro studio coordinato da Russo, nel quale è stata documentata la mortalità neonatale in un bosco friulano per la nottola comune, una delle due specie migratrici che lo frequentano. “Le cavità più calde degli alberi attraggono le femmine partorienti – spiega Russo – ma quando arrivano le ondate di calore, quegli stessi rifugi diventano trappole letali da cui i piccoli non possono sfuggire”. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista “Ecology and Evolution”. LEGGI TUTTO

  • in

    Abruzzo, basta foto con gli orsi: al via una campagna di sensibilizzazione

    Il tema è caldo, oggi più che mai. L’overtourism e i suoi effetti, diretti e indiretti, sulla biodiversità. Al mare e in montagna, nel lungo mese di agosto che coincide con il picco del fenomeno: flussi imponenti di turisti smartphone-muniti che arrivano un po’ ovunque, sconvolgendo gli equilibri naturali, impattando sui territori. Usa l’arma della sottile ironia, allora, il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, raccontando una distopica presa di posizione degli orsi, animali simboli dell’area protetta, per i giorni che segnano tradizionalmente il picco delle presenze turistiche all’interno dell’area protetta. Con un post sui profili del Parco, si annuncia che “gli orsi si sono organizzati e costituiti in comitato per protestare contro ciò che vedono, allibiti dai diversi comportamenti tenuti dai turisti, non adeguati ad un territorio speciale che è anche casa loro”.

    Biodiversità

    Pettorano sul Gizio, il primo paese a misura d’orso

    di Fiammetta Cupellaro

    10 Aprile 2025

    Quando il turismo diventa una minaccia
    Nel dettaglio, prosegue il racconto, che ha collezionato centinaia di condivisioni, “sono stupefatti nel vedere turisti impreparati, improvvisarsi escursionisti della domenica, spesso urlanti, qualcuno addirittura salire in ciabatte anche a duemila metri, senza contare quelli che escono dai sentieri autorizzati e si fanno addirittura il bagno nei ruscelli”. Del resto, ed è qui la differenza, “gli orsi sanno sempre come comportarsi e quale sia il percorso migliore da scegliere in base alle loro capacità”. Sono stufi di essere paparazzati in ogni loro piccola e fugace uscita pubblica. Loro ogni volta che incontrano un umano si fanno gli affari propri con discrezione e rispetto, non si mettono a inseguirli per fargli le foto. Sono sconcertati nel vedere gli umani che si avvicinano ai cervi, alle volpi per dargli da mangiare: non è un comportamento rispettoso degli animali selvatici. Loro non hanno bisogno di noi umani”.

    I protagonisti

    La grande sfida della convivenza con la fauna selvatica

    di Piero Genovesi

    06 Giugno 2025

    Rischio di un Parco off-limit per i turisti
    Di qui, dunque, la reazione, con l’orsa Giacomina che – secondo la versione del Parco – “ha convocato tutti gli orsi marsicani ed insieme hanno deciso: tourist go home!”. Ma c’è una via d’uscita, per scongiurare il rischio di un Parco off-limits per gli umani. “Siamo venuti a conoscenza, da un portavoce del comitato, che basterebbe davvero poco per far cambiare idea agli orsi. – si legge nel messaggio – n fondo, sarebbe sufficiente: camminare per i boschi in modo rispettoso, dimenticarsi il telefono in tasca e godersi il luogo, non inseguire orsi in macchina, non dare da mangiare a cervi, volpi e orsi, riporre i rifiuti nel proprio zaino, riportandoli a casa e fare la differenziata”.
    L’appello
    Ed ecco, infine, la morale, che è un vero e proprio appello ai visitatori-turisti: “Quando venite al Parco, siate orsi. Rispettate ogni angolo di questo paradiso e condividete la gioia di poterlo vivere in armonia con la Natura. Chi saprà farlo, sarà sempre più che il benvenuto tra questi monti, valli, boschi e paesi”. LEGGI TUTTO

  • in

    É un batterio dello stesso ceppo del colera a sterminare le stelle marine

    Finalmente abbiamo il colpevole di un’epidemia che da un decennio sta uccidendo intere popolazioni di stelle marine lungo la costa occidentale del Nord America. Si tratta di un ceppo del batterio vibrio pectenicida che causa la cosiddetta Sea Star Wasting Disease (Sswd), malattia da deperimento delle stelle marine, considerata la più grande epidemia marina mai documentata in natura, tanto che fino ad oggi ha ucciso miliardi di stelle marine di oltre 20 specie diverse dall’Alaska al Messico. A riferirlo è stato un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Ecology and Evolution da un team di ricerca internazionale, guidato dell’Hakai Institute, dell’Università della British Columbia e dell’Università di Washington, secondo cui comprendere la causa della malattia sarà essenziale per mettere a punto strategie per il recupero delle stelle marine e degli ecosistemi colpiti dal loro declino.

    La misteriosa malattia che trasforma le stelle marine in poltiglia

    Noemi Penna

    06 Marzo 2023

    Il killer delle stelle
    Vibrio è un genere di batteri già ben conosciuti: vibrio cholerae, per esempio, è il patogeno che causa il colera negli esseri umani. Nel caso delle stelle marine, l’infezione con il ceppo FHCF-3 di vibrio pectenicida innesca una grave malattia che inizia con lesioni esterne e, in circa due settimane, arriva a uccidere le stelle marine “fondendone” i tessuti. Oltre il 90% delle stelle marine girasole (Pycnopodia helianthoides), che possono arrivare a sviluppare 24 braccia, è stato sterminato dalla malattia Sswd in appena un decennio ed oggi questa specie fa parte della Red List delle specie in via d’estinzione dell’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn).

    Ambiente

    I fondali degli oceani come miniere, a rischio habitat e biodiversità

    Alessandro Petrone

    27 Aprile 2023

    Le foreste di alghe
    L’enorme perdita delle stelle marine ha avuto effetti drammatici sugli ecosistemi marini. “Quando perdiamo miliardi di stelle marine, le dinamiche ecologiche cambiano radicalmente”, ha commentato Melanie Prentice, prima autrice dello studio. “In assenza di stelle marine girasole, le popolazioni di ricci di mare aumentano, il che significa la perdita delle foreste di alghe marine, con ampie implicazioni per tutte le altre specie marine e per gli esseri umani che dipendono da esse”. Le foreste di alghe, infatti, sono cruciali perché forniscono l’habitat a migliaia di organismi, contribuiscono alle economie locali attraverso la pesca e il turismo e immagazzinano l’anidride carbonica. “Capire cosa ha portato alla scomparsa della stella marina girasole è un passo fondamentale per il recupero di questa specie e di tutti i benefici che gli ecosistemi delle foreste di alghe offrono”, ha aggiunto Jono Wilson, tra gli autori dello studio.

    Ambiente

    I fondali degli oceani come miniere, a rischio habitat e biodiversità

    Alessandro Petrone

    27 Aprile 2023

    La ricerca
    Dopo ben 4 anni di ricerche e analisi per trovare il patogeno responsabile, il team di ricercatori ha scoperto livelli elevati di vibro pectenicida nel fluido celomatico, ossia il corrispettivo del nostro sangue, nelle stelle marine, riuscendo finalmente a identificarlo come agente causale della malattia. “Quando abbiamo esaminato il fluido celomatico tra stelle marine malate e sane, c’era fondamentalmente una cosa diversa: Vibrio”, ha commentato la co-autrice Alyssa Gehman. “Avevamo tutti i brividi. Pensavamo: è questo che causa la malattia”. Per confermare che il ceppo FHCF-3 di vibro pectenicida fosse la causa della Sswd, i ricercatori hanno creato colture di vibro pectenicida dal fluido celomatico di stelle marine malate e lo hanno poi iniettato in stelle marine sane, dimostrandone la patogenicità. Sebbene servano ulteriori ricerche per poterlo confermare, i ricercatori ipotizzano che tra i fattori scatenanti della malattia ci sarebbe l’aumento delle temperature oceaniche, dato che altri ceppi di Vibrio proliferano in acque calde. “Questa scoperta apre nuove interessanti prospettive in grado di sviluppare soluzioni per il recupero della specie”, ha concluso Wilson. “Stiamo conducendo studi che esaminano le associazioni genetiche con la resistenza alle malattie, l’allevamento in cattività degli animali e la riproduzione sperimentale per comprendere le strategie e i luoghi più efficaci per reintrodurre le stelle marine girasole in natura.” LEGGI TUTTO

  • in

    “Fulmini sempre più potenti: ecco come proteggersi”

    Non è il numero di fulmini in Italia a preoccupare, ma è l’energia in costante crescita che si sta verificando sul nostro territorio. Quello che un tempo poteva essere infatti un banale temporale estivo oggi è – per conseguenza della crisi climatica – “un evento potenzialmente letale se non si valuta attentamente il rischio” spiega a Repubblica Sante Laviola, climatologo e ricercatore del Cnr-Isac (Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima).

    In Salento, lungo la statale 275, un 42enne purtroppo è morto dopo essere stato sbalzato dalla sua motocicletta a causa di un fulmine caduto durante un temporale.Poche ore prima a Ferrandina stessa tragica sorte per un 29enne che si trovava all’interno di un’auto, dove si era rifugiato per via di una tempesta: la macchina è stata schiacciata da un albero caduto dopo l’impatto con un fulmine.
    Prima ancora ci sono stati casi di feriti o di persone folgorate a Pescasseroli, nelle acque di Palinuro, a Piombino, ma anche in montagna sopra Auronzo di Cadore o in Appennino a Cima Tauffi. Episodi gravissimi che ci ricordano, spiega l’esperto del Cnr, la necessità di una “nuova cultura del rischio” davanti ai fenomeni meteo estremi.
    Già due vittime e diversi casi di folgorazione potenzialmente letali. I fulmini sono in aumento in Italia?
    “No, per ora direi di no, nel senso che se parliamo solo di numeri gli ultimi dati a disposizione, che sono di un paio di mesi fa, non indicano per ora un particolare aumento. Il 2018 (con 7 milioni di fulmini, ndr) resta uno degli anni record, un picco massimo. Quello che sta crescendo invece è l’energia”.

    Cosa significa?
    “Che i temporali, all’interno dei quali si formano i fulmini, hanno un’accelerazione di intensificazione dovuta proprio al cambiamento climatico. La quantità di calore dovuta alle irruzione anticicloniche accumula energia in atmosfera che, in fase di rimescolamento – come quella che sta avvenendo ora al centro sud Italia con temporali anche intensi – contribuisce a formazioni nuvolose con tanto ghiaccio e grandine all’interno, condizioni ideali con cui si formano le scariche elettriche. Questo è accentuato in montagna, ma avviene anche lungo le coste, come in mare, dove può essere davvero alto il carico di attività elettrica”.

    Perchè in questi mesi serve una “doppia” attenzione ai fulmini?
    “Perchè soprattutto a luglio e agosto, mesi di picco massimo per i fulmini, i temporali hanno una elevata quantità di energia che si manifesterà probabilmente con scariche elettriche vigorose. Quelle che finiscono spesso al suolo, ma soprattutto su alberi, strutture puntiformi e in mare, zone dove d’estate tendiamo a ritrovarci. Proprio il mare caldo contribuisce a questa energia. In particolare il vapore d’acqua in atmosfera adesso ha un trend in aumento: più cresce più le nubi hanno una quantità di ghiaccio maggiore disponibile e questo provoca temporali più intensi. Dunque sia la stagionalità, sia la persistenza dell’anticiclone africano, sia il fatto che ci troviamo in un hotspot climatico come il Mediterraneo in caso di temporali devono sempre farci stare in allerta. Vale per i fulmini ma anche per il vento o la grandine in questo periodo”.

    Come comportarsi se una tempesta ci sorprende?
    “In generale la prima arma a disposizione è sempre il buon senso. Bisogna entrare nell’ordine di idee che i temporali estivi, sia Nord che a Sud, e questo almeno fino a ottobre, sono e saranno temporali intensi. Quindi quando si sta per verificare una tempesta non bisogna mai escludere venti forti e una carica elettrica elevata e mettersi subito al riparo. Dove? Non sotto alberi o ombrelloni, meglio sempre in strutture chiuse, che garantiscono l’effetto gabbia di Faraday (un sistema in grado di isolare l’ambiente interno da un qualunque campo elettrostatico, ndr). Se si è al mare uscire subito dall’acqua, se si è in montagna a maggior ragione consultare immediatamente meteo e bollettini e meglio preferire sempre escursioni nella prima parte della giornata per poi rientrare per pranzo: sulle cime infatti i fenomeni sono più accelerati spesso nel pomeriggio, dove è facile trovarsi nel bel mezzo di un temporale. Attenzione estrema anche alle ferrate, per via dei cavi metallici. Insomma, buon senso ovunque per evitare risvolti drammatici”.

    Con la crisi del clima e l’intensificazione dei fenomeni meteo serve dunque, anche d’estate, una nuova cultura rischio?
    “Non dobbiamo mai sottovalutare, sia i fenomeni sia le allerte, persino una gialla infatti può oggi rapidamente evolvere e trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso. Questo vale sempre, quando ci si sposta, durante le escursioni, ma anche in città. Bisogna che cambiamo tutti paradigma: mai sottovalutare infatti che in questo contesto climatico anche un banale temporale estivo può avere dei risvolti davvero tragici, dai fulmini improvvisi sino ai fiumi che da tranquilli corsi in pochi istanti diventano grandi flussi a carattere torrentizio”.
    LEGGI TUTTO

  • in

    Maggiociondolo, come coltivare “l’albero d’oro”

    Conosciuto anche come albero d’oro, falso ebano e avorniello, il maggiociondolo è un albero caducifoglio che si distingue per la sua eleganza e la sua fioritura primaverile profumata. Di medie dimensioni, raggiunge fino ai 7 metri di altezza e presenta grappoli di fiori giallo oro, che ricordano quelli del glicine, abbellendo boschi e giardini, dove viene largamente impiegato a scopo decorativo. Elegante e dalla notevole resistenza, coltivare il maggiociondolo è semplice con le giuste azioni e accortezze, tenendo conto che non necessita di cure complesse.

    Il maggiociondolo e l’esposizione
    Appartenente alla famiglia delle Fabaceae ha origine in Europa meridionale e centrale, Asia e nord Africa. Sboccia nel periodo tra aprile e maggio con una fioritura abbondante e profumata. Pianta velenosa in tutte le sue parti, il suo nome scientifico è laburnum anagyroides e presenta fiori giallo oro a grappolo pendulo, una chioma abbastanza ampia che tende a essere arrotondata e un tronco dalla corteccia marrone scuro. Albero caducifoglio, ovvero che perde le foglie durante l’inverno, si distingue per il suo aspetto scenografico e la sua forma slanciata, essendo diffuso in giardini, boschetti, parchi e siepi. Per quanto riguarda la coltivazione del maggiociondolo è importante tenere conto che predilige un’esposizione soleggiata. Malgrado la sua fioritura dia il suo massimo quando riceve i raggi solari diretti, l’albero si adatta anche all’ombra parziale. Il maggiociondolo è resistente, sopporta temperature sotto zero, ma non apprezza molto il caldo e la salsedine e va protetto dalle correnti d’aria fredda: il suo clima ideale è temperato, fresco e moderatamente umido. L’albero si adatta a ogni tipo di terreno, preferendo però quelli ben drenati, leggermente acidi, leggeri, sabbiosi e calcarei e tollerando meno quelli pesanti e umidi.

    Come coltivare il maggiociondolo
    Il laburnum anagyroides può essere piantato in primavera oppure in autunno. Se si coltiva in giardino è necessario individuare un punto dove riceva luce solare diretta, considerando anche come l’albero crescendo possa raggiungere i 7 metri di altezza. Si procede posizionando i semi a una profondità di 2-3 centimetri, lasciando tra ciascuno una distanza di circa 30 centimetri e, fintantoché non germogliano, è necessario mantenere il substrato umido. Il maggiociondolo può essere coltivato anche in vaso. In questa operazione è fondamentale scegliere un recipiente che sia abbastanza capiente, per consentire lo sviluppo ottimale delle radici, e dotato di fori di drenaggio, con cui scongiurare eventuali ristagni di acqua. Per aumentare il drenaggio si può mescolare il terriccio con della sabbia, per poi interrare i semi a una profondità di 2-3 centimetri e posizionare il vaso in un luogo soleggiato. Qualora si debba trapiantare in giardino la pianta già radicata in vaso bisogna creare una buca che sia il doppio del contenitore, aggiungendo nel terreno del compost per arricchirlo e migliorare il drenaggio. È importante verificare che il buco realizzato sia abbastanza profondo da accogliere le sue radici senza schiacciarle troppo, facendo sì che si possano espandere.

    Maggiociondolo e la sua cura: gli interventi cruciali
    Estremamente resistente, il maggiociondolo richiede cure semplici per crescere in modo rigoglioso. Nel momento in cui viene messo a dimora è fondamentale annaffiarlo costantemente (evitando però i ristagni idrici), fintanto che non si radica, per poi ridurre le irrigazioni. Se coltivato in giardino, si accontenta dell’acqua delle precipitazioni quando il clima è temperato, dovendo invece aumentare le annaffiature durante i mesi estivi, bagnandolo ogni 10 giorni. Dopo i primi anni di vita, una volta radicato l’albero resiste alla siccità ma nonostante questo, in caso di climi torridi, le irrigazioni vanno potenziate. Qualora sia coltivato in vaso è importante avere maggiori accortezze, tenendo conto di come il substrato tenda a seccarsi prima rispetto che in piena terra, irrigando il maggiociondolo in modo regolare, facendo sì che il terreno non sia mai asciutto, ma allo stesso tempo non risulti zuppo. La pianta viene minata dai ristagni di acqua, che portano al marciume radicale. Nella cura dell’albero, per assicurarsi una sua fioritura ottimale, è possibile ricorrere a del concime organico durante la primavera. Per quanto riguarda la potatura, non sono necessari grandi interventi, visto che sviluppa di suo una chioma densa e, inoltre, non tollera molto i tagli dei rami: infatti, la cicatrizzazione del punto di taglio è faticosa e rende il legno più incline al marciume. Le operazioni di potatura devono quindi essere eseguite in modo moderato, in seguito alla fioritura, eliminando i rami danneggiati e secchi oppure intervenendo su quelli troppo lunghi accorciandoli.

    Manutenzione del maggiociondolo: le problematiche più diffuse
    Nonostante il maggiociondolo sia molto resistente, è comunque soggetto a diverse problematiche. Tra le più comuni rientrano gli attacchi di afidi e piccoli insetti, che si nutrono della sua linfa, dovendo intervenire tempestivamente con rimedi naturali o con pesticidi specifici per contrastare le infestazioni. Altra criticità diffusa è la clorosi, malattia che porta le sue foglie a ingiallirsi, causata da una carenza di ferro nel terreno: per risolvere questo problema è necessario ricorrere ai chelati di ferro. L’albero può essere colpito anche dal virus del mosaico, responsabile di macchie clorotiche sulle foglie e bande giallastre sulle venature, e da malattie fungine, come il marciume radicale e l’oidio, che comporta una patina bianca sulle sue foglie. LEGGI TUTTO

  • in

    Specie aliene, per frenare la diffusione del pesce scorpione inizieremo a mangiarlo

    Era quasi certo di trovarlo, immergendosi nel mar Ionio, in Calabria. E lui non si è fatto aspettare. “L’ho visto a venti metri di profondità, vicino al relitto di un peschereccio abbandonato, atteggiamento confidente proprio come nei mari tropicali, pronto a esibire la sua voracità nei confronti dei pesci che lo circondavano. Venti giorni dopo, era ancora lì: una specie stanziale, che ha pochissimi predatori potenziali”. Il fotografo subacqueo Pasquale Vassallo ha cercato e trovato il pesce scorpione partendo dal Ficarella Diving Club di Saline Joniche, in provincia di Reggio Calabria.
    Basta un’immersione, qui, per imbattersi nella specie aliena per eccellenza, che è (ormai) diventata inquilina fissa dei nostri ecosistemi. Così, nei giorni in cui anche il Washington Post lancia un allarme globale sui pesci velenosi che invadono il Mediterraneo, ricercatori, scienziati e appassionati si interrogano sulla diffusione (incontrastata) del “lionfish”, specie originaria del Sud-est asiatico, che avanza imperterrito lungo le coste italiane, dalla Sicilia (dove in media si registra addirittura una segnalazione al giorno) alla Calabria, favorito dal riscaldamento del Mare Nostrum, la cui temperatura è aumentata, negli ultimi quattro decenni, il di 1,5 gradi Celsius.

    Cosa succede al pianeta

    Stiamo cambiando gli equilibri della natura

    di Elena Dusi

    11 Agosto 2025

    Come contrastarlo? “Un’ipotesi è mangiarlo”
    Sottolinea al Washington Post Paraskevi Karachle, che studia questa ed altre specie come ittiologa per l’Hellenic Center for Marine Research. E sulla piccola isola di Cervi (Elafonisos in greco), ad appena 570 metri dalla costa del Peloponneso, alcuni ristoranti già lo propongono nel menu. “Per ora i clienti girano alla larga, preferendo piatti più tradizionali”, fa spallucce Chris Berdoussis, chef e ristoratore. “Ci vuole ancora tempo”, aggiunge. Ma la strada potrebbe essere segnata, anche perché la popolazione di polpi è in netto declino e i visitatori, viceversa, in aumento esponenziale. E allora il Wwf ha avviato una serie di dimostrazioni guidate con chef riconoscibili che mostrano la preparazione del pesce scorpione. Il risultato? A Rodi e Creta nei mercati si inizia a trovare, ad Atene ancora no. Questione di tempo, forse.

    L’allarme

    Attenzione all’alga tossica nell’Adriatico, un software per monitorarla

    di Giacomo Talignani

    23 Luglio 2025

    Il progetto AlienFish

    Di specie aliene si occupa Francesco Tiralongo, ittiologo dell’università degli studi di Catania. Con il progetto AlienFish monitora, con l’aiuto della cosiddetta citizen science, la diffusione del pesce scorpione, ma anche dei pesci coniglio e dell’ormai famigerato granchio blu, assieme a tante altre specie aliene invasive. “La risposta all’invasione – dice – non può essere una sola: bisogna contenere, conoscere e, dove sicuro, valorizzare a tavola, trasformando parte dell’emergenza in opportunità per pescatori e filiere locali”. Il caso studio è proprio quello del granchio blu, voracissimo: in Alto Adriatico la sua proliferazione ha messo in ginocchio la venericoltura, causando danni enormi. “In risposta, nel 2025 è stato varato un Piano nazionale di contenimento con risorse dedicate e obiettivi espliciti di rimozione massiva, protezione degli allevamenti e tracciamento dei flussi, anche con misure regionali attuative. – spiega Tiralongo – Il piano dialoga con iniziative locali: in Veneto, ad esempio, centinaia di tonnellate di granchio blu sono state commercializzate nel 2024, mentre altre non commerciabili (in particolare le femmine e gli esemplari sottotaglia, ndr) sono state rimosse e destinate a mangimistica e farine proteiche, oppure allo smaltimento. Dove c’è mercato, si crea un incentivo economico alla rimozione, fondamentale per alleviare la pressione sugli ecosistemi e sostenere le imprese”.

    Un granchio blu preda uno scorfano nel Golfo di Napoli (foto Mimmo Roscigno)  LEGGI TUTTO

  • in

    Cycas, come coltivare la pianta che viene dalla preistoria

    La cycas abbellisce giardini, terrazzi e interni con le sue splendide foglie verde brillante. Questa pianta è considerata un fossile vivente: la sua comparsa sulla Terra risale a circa 280 milioni di anni fa, ben prima dell’arrivo dei dinosauri. Chiamata anche cycas revoluta, palma sago e palma nana, ricorda una palma, pur non essendolo visto che presenta foglie arcuate e rigide ed è più imparentata con le conifere. Oltre al suo aspetto decorativo, la cycas è molto apprezzata per la sua notevole resistenza e la coltivazione semplice, tanto da essere ideale anche per chi si avvicina al giardinaggio.

    L’esposizione della Cycas
    Parte della famiglia delle Cycadaceae e originaria del Giappone, la cycas unisce robustezza, longevità, eleganza e fascino ed è molto diffusa per abbellire case e giardini. Questa pianta ornamentale presenta grandi foglie dalla forma pennata e un tronco corto, robusto e legnoso, cresce lentamente, fiorisce ogni 15 anni ed è tra le più resistenti, richiedendo una bassa manutenzione. Adatta sia per gli interni, che per gli esterni, predilige luoghi luminosi, dovendo però evitare i raggi solari diretti, che potrebbero bruciarne le foglie. Qualora si coltivi all’aperto l’ideale è sistemarla in una posizione dove non batta il sole nelle ore centrali della giornata oppure in un’ombra parziale, mentre se la si tiene all’interno, è necessario collocarla nei pressi di una finestra luminosa, facendo in modo però che la luce sia filtrata. Una luce troppo esigua potrebbe rendere il suo aspetto poco sano e le foglie rade. L’habitat perfetto per la cycas vede le temperature tra i 20 e i 25 gradi e il terreno leggermente acido, arricchito con torba e sabbia e ben drenato, evitando tassativamente i ristagni d’acqua, causa del marciume dell’apparato radicale.

    Coltivazione in vaso e giardino della cycas
    La cycas è facile da coltivare, cosa che la rende particolarmente apprezzata e popolare. Con semplici accorgimenti cresce in modo rigoglioso, dando molte soddisfazioni: questa pianta antichissima può essere seminata in vaso o in piena terra. Il periodo migliore per interrarla è la primavera, in particolare tra marzo e maggio, momento dell’anno in cui il clima mite stimola i germogli e le giornate si allungano progressivamente, ma la luce solare non è ancora troppo forte. Per quanto riguarda la coltivazione in vaso, per permettere il corretto sviluppo delle radici, il recipiente scelto deve essere profondo, aggiungendo sul fondo uno strato di argilla espansa per migliorare il drenaggio. È necessario ricorrere a del terriccio universale, aggiungendo torba, sabbia o perlite e porre i semi a una profondità di 2-3 centimetri, dovendo lasciare, in caso di semina multipla, tra ogni seme 3-5 centimetri. Una volta effettuata questa operazione bisogna portare pazienza, tenendo conto che la cycas ha una crescita lenta, mediamente 3 centimetri all’anno. Il rinvaso va eseguito ogni 3-4 anni, spostando la pianta in un vaso poco più grande.

    La cycas può essere coltivata in giardino, prediligendo un terreno ben drenato, aggiungendo sabbia e torba per tenere alla larga i ristagni d’acqua: durante il periodo di germinazione il substrato va mantenuto sempre leggermente umido, evitando però che sia zuppo. I semi vanno interrati a una profondità di 2-4 centimetri, che può variare a seconda della dimensione del seme: quelli più piccoli possono essere interrati a 0,5 centimetri. Tra ciascun seme bisogna lasciare circa 3-5 centimetri, in modo tale che le piante sviluppino al meglio le radici. Il trapianto di una cycas in vaso va effettuato tra la primavera e l’autunno: per eseguirlo è necessario scavare una buca larga il doppio del paniere radicale e profonda quanto questo. La pianta deve essere posizionata alla stessa profondità del vaso in modo da non comportarle troppo stress e prevenire il marciume radicale. Il terreno in cui si trapianta deve essere arricchito di materiale drenante e compost per poi irrigarlo in modo consistente dopo l’intervento.

    Come prendersi cura della cycas: irrigazione, potatura e concimazione
    Molto resistente e facile da curare, la cycas richiede una bassa manutenzione. Per un suo sviluppo rigoglioso è necessario irrigarla in modo regolare, prestando però attenzione ai ristagni d’acqua, responsabili del marciume radicale. Prima di procedere con l’innaffiatura è sempre bene verificare con un dito che il substrato sia asciutto. Durante il periodo di crescita bisogna darle da bere ogni 1-2 settimane: le irrigazioni devono essere abbondanti soprattutto in caso di caldo e clima secco. La frequenza delle annaffiature è influenzata dalla stagione, tenendo conto che in inverno e autunno le irrigazioni devono essere ridotte, visto che in questo periodo dell’anno la pianta è in riposo vegetativo, effettuandole ogni 3-4 settimane. Per prevenire il marciume dell’apparato radicale, il terreno deve essere drenato, leggermente umido, ma mai zuppo ed è necessario non dare da bere alla corona, la parte centrale della pianta.

    In merito alla potatura, questa non è richiesta in modo regolare e occorre limitarsi a rimuovere le foglie rovinate oppure secche, di solito concentrate nella parte inferiore della pianta, ricorrendo a forbici sterilizzate e facendo dei tagli precisi, per prevenire il marciume radicale ed eventuali attacchi da parte dei parassiti. Questo intervento può essere eseguito annualmente oppure al bisogno, preferibilmente alla fine dell’estate o durante la primavera avanzata. La concimazione deve essere svolta durante la primavera e l’estate e la frequenza è determinata dal tipo di fertilizzante impiegato. Se si ricorre a un concime liquido specifico per la cycas l’operazione va effettuata ogni 2 settimane, mentre ogni 3 mesi se si utilizza un fertilizzante granulare a lenta cessione.

    Manutenzione della cycas: malattie e parassiti
    Nella cura della cycas possono insorgere alcune problematiche. Per esempio le sue foglie possono ingiallire, cosa che viene causata da irrigazioni eccessive, fertilizzante troppo abbondante, carenza di ferro o magnesio e attacco da parte di parassiti, in particolare della cocciniglia. Questo parassita può essere rimosso ricorrendo a un batuffolo di cotone imbevuto di alcool oppure utilizzando del sapone neutro o ancora un antiparassitario ad hoc. La pianta è soggetta anche ad attacchi di afidi, ragnetto rosso, thrips e punteruolo e all’insorgere di malattie fungine, come ad esempio oidio, marciume radicale e macchie fogliari, dovendo intervenire prontamente con trattamenti specifici se insorgono queste problematiche. LEGGI TUTTO

  • in

    Alaska, cede un lago ghiacciato. La causa è l’aumento della temperatura

    L’allarme è rientrato da poche ore: è cessata la minaccia di un’inondazione nel Suicide Basin, in Alaska, e le acque si sono ritirate. Nella città di Juneau, attraversata dal fiume Mendenhall, le aree evacuate sono ora aperte, anche se accessibili solo ai residenti.
    A generare l’allarme nei giorni scorsi il repentino rilascio di acqua di fusione da parte del ghiacciaio Mendenhall. Mercoledì scorso i corsi d’acqua alimentati dal ghiacciaio si sono gonfiati a livelli da record (più di 2 metri in 24 ore), preoccupando le autorità della capitale che conta poco più di 30mila abitanti.

    Il fenomeno è ormai diventato periodico, ennesimo sintomo del riscaldamento globale. E il pericolo non è rappresentato solo dall’acqua prodotta dalla fusione del ghiaccio. Più acqua scorre sulla superficie, più l’erosione aumenta e ci vuole meno pioggia per innescare un’alluvione: in queste condizioni, una tempesta prevista una volta ogni dieci anni può causare il tipo di alluvione catastrofica che si prevede solo ogni 100-200 anni.

    Lo studio

    Isole Svalbard, l’allarme dei ricercatori: inverni con più pioggia e meno neve

    di Pasquale Raicaldo

    21 Luglio 2025

    Le contromisure
    Le prime inondazioni di questo tipo si sono verificate a Juneau a partire dal 2011, ma con il passare del tempo sono diventate sempre più distruttive e ormai rappresentano una minaccia “estiva” costante.
    Tanto che la città ha imparato a prendere le contromisure: quest’anno, con l’aiuto del genio dell’esercito Usa, sono state costruite barriere fatte di sacchi piene di detriti o sabbia e rinforzato con strutture metalliche per arginare l’acqua e mettere al riparo soprattutto le zone abitate lungo il fiume. L’operazione ha avuto successo, perché ha evitato le distruzioni provocate dalle alluvioni verificatesi ad agosto sia nel 2024 che nel 2023. L’anno scorso l’acqua travolse un centinaio un centinaio di abitazioni, nonostante fosse stata installata una barriera anti-inondazione nelle aree a rischio, dove risiedono circa mille tra residenti e aziende.

    Lo studio

    Dove c’era il ghiacciaio ora crescono più fiori: il fenomeno del greening in alta quota

    di Fabio Marzano

    15 Luglio 2025

    Allerta caldo e inondazioni
    Misure di adattamento ai cambiamenti climatici, che cercano di porre rimedio agli effetti della crisi climatica dovuta all’uso di combustibili fossili. L’Artico, compresa l’Alaska, si sta riscaldando a una velocità doppia rispetto al resto del Pianeta, a causa dell’aumento delle temperature globali. In questa parte del Profondo Nord, l’aumento delle temperature ha ridotto drasticamente l’estensione del ghiacciaio Mendenhall e del suo bacino, creando il rischio annuale di inondazioni dei laghi glaciali, poiché il ghiaccio viene sostituito da acqua liquida e si avvicina sempre di più al bordo del bacino durante l’estate.

    L’iniziativa

    Reinhold Messner: “Ecco il mio museo dedicato ai ghiacciai”

    di Paola Arosio

    05 Luglio 2025

    Tra i 10 e i 15 milioni le persone esposte alle alluvioni glaciali
    A livello globale, sono tra i 10 e i 15 milioni le persone esposte agli effetti delle inondazioni dei laghi glaciali. E si prevede che l’aumento del numero e delle dimensioni dei laghi glaciali farà crescere la frequenza delle inondazioni in futuro. Ma non si vedono all’orizzonte politiche serie di mitigazione (taglio delle emissioni di gas climalteranti, nonostante il 2025 sia stato proclamato dall’Unesco Anno internazionale della Conservazione dei Ghiacciai. LEGGI TUTTO