consigliato per te

  • in

    Coltivazione della barbabietola: quando e come piantare, cura e consigli

    Appartenente alla famiglia delle Chenopodiaceae, la barbabietola è originaria dell’Europa meridionale e dell’Asia occidentale. Apprezzata per la sua enorme versatilità, questa pianta erbacea è coltivata principalmente per le sue radici commestibili, ma anche le foglie possono essere consumate come verdura a foglia. Gode di numerosissime varietà, tra cui la barbabietola rossa (la più gettonata), quella d’oro e quella da zucchero. Coltivarla è semplice, specialmente perché riesce ad adattarsi a diverse condizioni climatiche.

    Quando e come seminare la barbabietola
    La barbabietola è una pianta rustica che cresce bene sia in primavera, sia in autunno, a seconda del clima. In generale, in primavera la semina può iniziare quando il terreno raggiunge una temperatura di almeno 10 gradi, generalmente tra marzo e aprile nelle regioni temperate. Viene da sé che piantare in primavera garantisce un raccolto estivo. Si può coltivare anche in autunno, nelle aree dove gli inverni sono più miti.

    Il periodo migliore dipenderà sempre dalla zona climatica: verificare le condizioni locali servirà a evitare danni causati da gelate o da temperature troppo elevate.

    Sul “come” coltivare la barbabietola, invece, ci sono alcuni piccoli passaggi da seguire per ottenere un ottimo risultato e per favorire una crescita ottimale. Prima di questi, però, è bene distinguere le destinazioni della pianta: in vaso o in terra?

    Coltivazione della barbabietola in vaso
    Per coltivare la barbabietola in vaso, il primo passo da compiere è scegliere il vaso. In questo caso si dovrà optare per un vaso profondo, largo almeno 30 cm e con fori di drenaggio, fondamentali per la salute della pianta. Il terreno dovrà essere fertile e ben drenante, diversamente si dovrà preparare un mix di terra e compost. Fatto questo, si dovrà passare alla semina: i semi di barbabietola possono essere posizionati direttamente in vaso o, eventualmente, iniziare la semina in semenzaio e poi trapiantarli quando hanno raggiunto una certa dimensione. Per seminare si dovranno scavare dei buchi di circa 2-3 cm e piantare i semi a una distanza di circa 10-15 cm l’uno dall’altro. Eseguito anche questo step, occorrerà coprire i semi con il terreno restante e compattare leggermente il tutto.

    Coltivazione della barbabietola in terra
    Coltivare la barbabietola in terra non è poi così diverso dalla coltivazione in vaso. Anche in questo caso, infatti, il terreno dovrà essere fertile e ben drenante, mentre se troppo argilloso, avrà bisogno dell’aggiunta di sabbia per migliorare il drenaggio, essenziale per la buona crescita della pianta. La semina sarà semplicissima: vi basterà seminare i semi di barbabietola direttamente in terra a partire dalla stagione primaverile, e coprirli con il terreno restante, compattando il tutto in modo uniforme.

    L’esposizione della barbabietola: la soluzione migliore
    La barbabietola ama la luce e da amante di quest’ultima ha bisogno di almeno 6 ore di esposizione solare al giorno. Per questo motivo, infatti, l’ideale sarebbe esporla (sia che si tratti di coltivazione in vaso, sia che si tratti di coltivazione in terra) in un luogo soleggiato e riparato dal vento.

    Barbabietola: irrigazione e concimazione
    Anche l’irrigazione non richiede troppe attenzioni. La barbabietola ha bisogno di un terreno umido e ben drenato; quindi, è bene annaffiare il terreno in modo profondo, ricordandosi di non bagnare le foglie. Per quanto riguarda la concimazione, invece, sarebbe utile concimare le piante ogni 2 o 3 settimane nella fase di crescita, ricordandosi di utilizzare un prodotto completo e ricco di sostanze nutrienti. Per

    Cura della barbabietola
    Prendersi cura della barbabietola non richiede eccessivi sforzi, ma un’attenta osservazione della pianta e della sua salute. Ad esempio, appurato che per stare bene e crescere altrettanto bene debba essere costantemente umida (ciò eviterà che le radici diventino dure e fibrose), bisognerebbe:

    mantenere il terreno umido, ma non eccessivamente bagnato;
    aumentare la frequenza di irrigazione durante i periodi di siccità;
    procedere con l’uso della pacciamatura per aiutare a conservare l’umidità e a ridurre la crescita delle erbacce.

    Barbabietola: protezione dai parassiti e malattie
    Tra i problemi più comuni che possono colpire la barbabietola ci sono gli afidi, il marciume radicale, l’altica e lo oidio. Gli afidi si nutrono della linfa delle foglie e per trattarli si deve utilizzarle o un sapone insetticida o l’olio di neem, mentre l’altica, piccolo insetto causa di fori nelle foglie, per essere “sconfitto” ha bisogno di trappole adesive o coperture protettive. Infine, per sconfiggere l’oidio, malattia fungina che provoca una patina bianca sulle foglie, è necessario rimuovere quelle infette e usare fungicidi specifici.

    Consigli su come coltivare la barbabietola
    La barbabietola si raccoglie generalmente dopo un paio di mesi dalla semina, quando le radici raggiungono un diametro di circa 5-10 cm. Se lasciate troppo a lungo nel terreno, questa pianta erbacea rischia di diventare legnosa. Per raccoglierla vi basterà allentare il terreno intorno alla radice con una forca ed estrarre la pianta tirandola in modo delicato. Per conservarla, invece, si dovranno tagliare le foglie a circa 2 cm dalla radice e conservare le radici in un luogo fresco e asciutto, come una cantina o un frigorifero, per diverse settimane.

    Rotazione delle colture e utilizzo delle foglie
    Non piantare la barbabietola nello stesso punto per due anni consecutivi per prevenire l’accumulo di malattie e parassiti specifici del terreno. Sarebbe meglio alternarla con colture di legumi o altre piante a radice non commestibile. Anche le foglie di barbabietola sono commestibili: ricche di vitamine e sostanze nutrienti, possono essere utilizzate in insalate o saltate in padella! LEGGI TUTTO

  • in

    Le siepi aumentano del 40% lo stoccaggio di anidride carbonica dal suolo

    Sempre cara ci fu questa siepe. A Leopardi risponde un gruppo di ricercatori della University of Leeds, che in uno studio appena pubblicato sulla rivista Agriculture, Ecosystems & Environment ha analizzato le dinamiche della cattura e dell’immagazzinamento della CO2 da parte di siepi e prati in diverse località inglesi – Yorkshire, Cumbria e West Sussex – scoprendo che le prime sono molto più efficaci dei secondi in termine di stoccaggio di gas climalteranti. Per la precisione, gli scienziati hanno mostrato che il suolo sotto le siepi cattura, in media, 40 tonnellate di anidride carbonica in più per ettaro rispetto ai prati, indipendentemente dalla composizione del suolo e dal clima.

    Viva le siepi
    Le siepi sono un elemento fondamentale per il benessere degli ecosistemi. Oltre a fungere da “ponte” tra diversi habitat vitali nei terreni agricoli, forniscono rifugio e cibo a piante, animali selvatici e bestiame. E, come se non bastasse, sequestrano anidride carbonica dall’atmosfera, riducendo quindi il peso netto delle emissioni sui cambiamenti climatici. “Negli ultimi anni”, ha spiegato Sofia Biffi, ricercatrice in ecosistemi agricoli e prima autrice del lavoro, “abbiamo assistito a un impegno degli agricoltori nella piantagione di nuove siepi. Evidentemente si rendono conto della differenza che possono fare in termini di biodiversità nelle loro fattorie: vedono più uccelli, pipistrelli e impollinatori. Ora sanno anche che stanno facendo la loro parte nell’immagazzinare più carbonio nel terreno”.

    Tutorial

    Piante da siepi, le migliori sempreverdi

    21 Ottobre 2024

    Difatti, il governo inglese ha incoraggiato da tempo la piantagione di nuove siepi, annunciando l’obiettivo di arrivare a quasi 73mila chilometri di siepi entro il 2050 come strumento di mitigazione dei cambiamenti climatici.

    In Italia una pubblicazione Ispra del 2010 sottolineava che “nelle aree agricole più o meno intensive, la conservazione, la gestione, il ripristino o l’impianto ex-novo di strutture arboreo-arbustive (cioè siepi, ndr) rappresenta uno degli interventi di maggior valenza ambientale e faunistica, in quanto consentono di diversificare nel modo più significativo l’ambiente agrario attraverso la stabile presenza di micro-habitat semi-naturali poco disturbati”. Lo studio appena pubblicato rinforza queste posizioni: “Siamo molto felici di condividere i risultati del nostro lavoro”, continua Biffi, “perché mostrano come piantare siepi può avere un impatto positivo sulla salute del suolo e sullo stoccaggio dell’anidride carbonica nel suolo in tutto il paese”.

    Vale dappertutto
    Uno degli aspetti più interessanti dei risultati dello studio appena pubblicato, spiegano ancora gli autori del lavoro, è che si applicano a tutti i tipi di suolo, indipendentemente dalla composizione e dal clima. Le località analizzate nello studio, infatti, sono state scelte proprio in modo da rappresentare un campione eterogeneo di condizioni climatiche, precipitazioni, temperature e tipo di terreno. In tutti i casi si tratta di pascoli per l’allevamento intensivo circondati da siepi: i ricercatori hanno carotato il suolo a intervalli di 10 centimetri, spingendosi fino a 50 centimetri sottoterra, e hanno poi confrontato i livelli di carbonio, azoto, pH e umidità.

    L’analisi ha mostrato, per l’appunto, che le siepi immagazzinano fino al 40% di carbonio in più grazie alle foglie cadute, alle radici e ad altre sostanze organiche incorporate nel terreno sottostante; nelle siepi più vecchie, inoltre, il fenomeno è più pronunciato che non nelle siepi più giovani. Esiste, inoltre, una “saturazione”, cioè un livello massimo di carbonio catturabile da ciascuna siepe: ed è per questo, concludono gli scienziati, che bisogna prendersi cura di quelle esistenti e piantarne di nuove. LEGGI TUTTO

  • in

    I numeri ingannevoli dell’industria automotive

    Alla fine del 2024 i miliardi erano 15. Ora sono 16 (e per qualcuno nel governo italiano persino 17). Parliamo di euro, delle somme che le case automobilistiche paventano di dover pagare per le multe Ue, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi 2025 di riduzione delle emissioni di CO2.

    La breve storia della mobilità elettrica, in Europa, è complessivamente positiva e mostra trend di crescita, dal 2019 a oggi, semplicemente impressionanti. Eppure, uno dopo l’altro, i carmaker hanno rilasciato, in questi mesi, dichiarazioni esagerate sulla “crisi” e sulle potenziali multe, incolpando tutti di non fare abbastanza.

    Quanto avviene oggi è la ripetizione esatta di quanto già avvenuto nel 2019, alla vigilia del primo obiettivo Ue di riduzione delle emissioni per l’automotive. L’anno successivo, però, quell’obiettivo fu raggiunto da tutte le case auto. Più recentemente, nel 2024, nel Regno Unito, i carmaker hanno insistentemente protestato di non poter rispettare i target di decarbonizzazione; ma ce l’hanno fatta tutti, nessuno escluso. Lamentarsi salvo poi arrivare al traguardo sembra essere la strategia preferita dell’industria dell’auto. Cosa c’è di falso o fuorviante nei suoi allarmi?

    In primo luogo, fare previsioni sulla possibilità di rispettare gli imminenti target sulla base dei dati di mercato del 2024 – un anno in cui le case auto non hanno avuto alcun incentivo a massimizzare le loro vendite di zero emission – è almeno ingannevole. I carmaker hanno programmato la loro strategia commerciale puntando soprattutto alla conformità ai target del 2025: per questo una dozzina di modelli full electric con prezzi accessibili, prodotti in Europa, stanno arrivando nei concessionari solo ora. E già i dati di gennaio dicono che sia la produzione che le vendite di auto elettriche (BEV) sono in aumento nella maggior parte dei mercati. Questo porta alla seconda questione: la domanda.

    Per conquistare il mercato di massa occorrono modelli di massa, largamente accessibili in termini di costo. Che stanno appunto arrivando, e arriveranno sempre più. T&E prevede che nel 2025 il market share delle BEV, nell’UR, raggiungerà il 20-24%. Considerando le flessibilità garantite dal regolamento ai costruttori, T&E si aspetta che le case automobilistiche riescano a raggiungere gli obiettivi o che, nel peggiore dei casi, paghino multe minime.

    Se sul versante della regolazione della domanda ci sono molte iniziative utili da prendere (una norma per accelerare la decarbonizzazione delle flotte aziendali; o l’utilizzo dei proventi dai dazi sul made in China e dei fondi post Covid non spesi per incentivi stabili), purtroppo la vera crisi si sta verificando sul versante della produzione di batterie. Molti progetti europei mostrano gravi difficoltà di crescita o stanno fallendo del tutto.

    Sia chiaro: non c’è un problema di disponibilità di sistemi di accumulo rispetto agli obiettivi climatici dell’UE. La sola Cina, già oggi, produce più celle per batterie di quante ne possa assorbire l’intera domanda globale. Ma le tensioni commerciali, geopolitiche e le preoccupazioni relative alla sicurezza devono spingerci a sviluppare un’industria del greentech autonoma, con competenze e capacità proprie.

    L’imminente Piano per l’industria automobilistica della Commissione dovrebbe concentrarsi su una strategia globale per le catene di fornitura delle batterie, prevedendo un’indagine sui sussidi potenzialmente iniqui alla produzione cinese, nonché criteri di resilienza per la concessione di aiuti di Stato e norme vincolanti sull’impronta di carbonio delle batterie. Sono anche necessarie regole chiare sugli investimenti diretti esteri nei nostri Paesi, per garantire che l’insediamento della produzione asiatica in Europa comporti un pieno trasferimento di tecnologia e competenze.

    Un piano dell’Ue che mantenga gli obiettivi di decarbonizzazione e che agisca per sostenere domanda e produzione domestiche può trasformare il 2025 in un anno storico per le nuove tecnologie, per l’industria, per i consumatori. A patto di non cedere a lamentazioni tanto veementi quanto ingannevoli.

    (Andrea Boraschi è Direttore di Transport & Environment – T&E) LEGGI TUTTO

  • in

    Londra-NY in meno di 3 ore, ma il jet supersonico consuma fino a 7 volte di più

    Mentre il mondo tenta di invertire la rotta, inseguendo obiettivi a ridotto impatto ambientale, per decarbonizzare il settore dei trasporti, (tra i più inquinanti), c’è invece chi insegue un’altra strada. Facendo un salto supersonico in avanti, ma di fatto tornando indietro nel tempo, soprattutto negli obiettivi collettivi. Parliamo di Boom Supersonic, l’azienda americana che ha costruito il velivolo XB-1, che ha superato per 3 volte consecutive la barriera del suono, nell’ultimo volo di 40 minuti sul deserto californiano, e che anticipa la prossima linea di aerei supersonici commerciali.

    Con una velocità di 1.18 Mach, l’aereo ha superato i 1.300 km/h, stabilendo un nuovo traguardo per un velivolo non militare, che sarà il modello prototipale di Overture, un jet in grado di trasportare tra i 65 e gli 80 passeggeri, che raccoglie la triste eredità del Concorde, l’aereo che dopo il devastante incidente del luglio del 2000, (113 le vittime) finì la sua era nel 2003. Troppo cari i biglietti, troppa la quantità di carburante necessaria per raggiungere quelle velocità, costi appannaggio solamente di clienti facoltosi, che volevano raggiungere le due sponde dell’Atlantico – Stati Uniti ed Europa – in meno di 3 ore di volo. LEGGI TUTTO

  • in

    Indi, la community del turismo responsabile: “Sì, viaggiare ma rallentando”

    “In occasione di un viaggio di lavoro mi sono reso conto di quanto fosse difficile entrare in contatto con le persone locali e vivere un’esperienza autentica, fuori dai soliti schemi. Quando ho condiviso l’idea con Fabio, Stefania e Luca, il loro entusiasmo e le loro competenze hanno dato al progetto ancora più valore e concretezza. Così, insieme, abbiamo fondato INDI, una realtà capace di connettere persone attraverso le loro storie, le loro passioni e il loro desiderio di scoprire il mondo in modo semplice e autentico”. Lui è Luca Di Pierro, fondatore e amministratore delegato di INDI, la community che unisce fisicamente viaggiatori, locali e creator digitali che vogliono immergersi in maniera autentica, totale e lenta in un’esperienza che è attenta, consapevole e sostenibile.

    Nel dettaglio, INDI è un’applicazione che, grazie a un avanzato sistema di incrocio di dati, analizza l’intera piattaforma per suggerire le guide più affini agli interessi degli esploratori (Explorer) desiderosi di vivere esperienze a contatto con le comunità locali. Una volta individuato l’Indi: la guida locale con il maggior numero di affinità, l’utente può prenotare la sua visita insieme a una figura competente e compatibile, capace di arricchire l’esperienza come solo una persona del luogo sa fare.

    Turismo sostenibile

    Anche la montagna soffre di “overtourism”

    di Giulia Negri

    10 Agosto 2024

    Fondata nel 2022 da Luca Di Pierro, Fabio De Martino, Stefania Ingannamorte e Luca Bernasconi, INDI connette persone e storie in oltre 50 paesi nel mondo, tra cui l’Italia, la Germania, il Giappone, gli Stati Uniti e la Spagna. L’app è dotata di una mappa globale e di filtri personalizzati, tramite i quali ogni viaggiatore può immergersi nella cultura del territorio e allontanarsi dai percorsi turistici più battuti. L’idea di INDI coincide infatti con la possibilità di visitare, da esploratori, al fianco di chi vive quotidianamente una realtà, i locali, sulla base delle passioni e delle inclinazioni personali. LEGGI TUTTO

  • in

    Torna “M’illumino di meno”: l’iniziativa che invita a spegnere le luci

    Torna anche quest’anno per la XXI edizione M’illumino di Meno che diventa extralarge. Durerà infatti una settimana dal 16 al 21 febbraio. “Perché un giorno solo non basta più per raccontare la partecipazione di migliaia di persone, scuole, città, aziende, associazioni e comunità”, spiegano i promotori dell’iniziativa, i conduttori della trasmissione radiofonica Caterpillar su Rai […] LEGGI TUTTO

  • in

    Materasso, come sceglierlo e smaltirlo per ridurre l’impatto ambientale

    Quando un materasso compie dieci anni, è ora di mandarlo in pensione. Trascorso questo periodo, è inevitabile che, nonostante l’accurata manutenzione, perda rigidità e altezza, non offrendo più un supporto ottimale durante il sonno. Per rimpiazzare quello che viene dismesso, di norma occorre acquistarne uno nuovo. Ma non è sempre facile orientarsi nella scelta, visto che i parametri da considerare sono numerosi e che si è spesso bombardati da massicce campagne di marketing che finiscono per confondere le idee.

    Il marchio europeo
    In negozio l’unico elemento che può garantire una scelta effettivamente attenta all’ambiente è la presenza del marchio Ecolabel, etichetta ecologica istituita dall’Unione europea nel 1992 e modificata nel 2013. La certificazione assicura che il prodotto sia stato realizzato con materiali sostenibili, che abbia un limitato livello di residui tossici e che non incrementi l’inquinamento dell’aria domestica.

    Il nuovo regolamento
    Nel frattempo, si stanno compiendo dei passi avanti per fare in modo che materassi e altri prodotti risultino sempre più ecologici. Tra i provvedimenti più recenti, il Regolamento 1781 del Parlamento e del Consiglio europei pubblicato il 13 giugno 2024, che introduce criteri di ecodesign più vincolanti, con l’obiettivo di risparmiare energia e ridurre i consumi nei processi produttivi. Per quanto concerne i dispositivi per il riposo, le nuove regole dovrebbero essere definite entro il 2025, lasciando poi ai fabbricanti uno o due anni di tempo per adeguarsi.

    Alla larga dalla discarica
    Oltre alla fase produttiva, anche lo smaltimento ha un rilevante impatto ambientale, soprattutto se il materasso arriva in discarica, dove si degrada lentamente. I prodotti della degradazione e gli additivi (come ritardanti di fiamma, metalli pesanti, colle, stabilizzanti, sbiancanti ottici) possono, infatti, infiltrarsi nel suolo o nelle acque sotterranee, danneggiando l’ambiente circostante. Senza contare che alcune sostanze potrebbero risultare pericolose anche per la nostra salute.

    Dal paraspifferi al futon
    Ecco perché è bene puntare sul riutilizzo. Chi ha messo da parte i materassi di lana di una volta può cominciare proprio da questi. La materia prima deve essere anzitutto estratta, lavata, cardata, in modo da renderla nuovamente pulita e soffice. Poi, come suggerisce Altroconsumo, si possono creare pouf, futon, cuscini, paraspifferi per finestre. Ci sono poi i materassi in poliuretano, più facili da tagliare: si possono rifoderare per trasformarli, per esempio, in una nuova cuccia per il cane. Non si possono, invece, tagliare i prodotti in lattice o a molle: un’idea è impiegarli per un letto utilizzato raramente o per un letto in una seconda casa. In alternativa, se il materasso dismesso è ancora in buone condizioni, dopo un’attenta pulizia può essere ceduto o donato a chi ne ha bisogno: una scelta sostenibile e anche etica.

    I vantaggi del riciclo
    Nel caso in cui il materasso fosse davvero giunto a fine vita, non può essere conferito insieme ai rifiuti solidi urbani o lasciato accanto ai cassonetti. Deve essere portato, magari usufruendo dei servizi di ritiro a domicilio, all’isola ecologica o in un centro di raccolta, che provvederà a inviarlo a impianti specializzati in grado di disassemblarlo per recuperare i materiali di cui è formato: secondo l’azienda Seco, le componenti riciclabili sono poliuretano e lattice (25%), acciaio (30%), lana e cotone (10%), feltro (10%), ovatta (10%), che possono essere riutilizzate nei settori tessile, arredamento, edilizia. In un report realizzato dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, si stima che il 90% delle materie prime utilizzate per i materassi possa essere riciclata, con un risparmio di 13.500 tonnellate di anidride carbonica ogni 10mila tonnellate di prodotti trattati. LEGGI TUTTO

  • in

    La coltivazione e la cura della primula per una magnifica fioritura

    Le primule sono tra i fiori che riescono a sopravvivere con l’arrivo dei primi freddi: ecco una piccola guida per scoprire di più riguardo a questa pianta, dalla coltivazione alla cura ideale per una fioritura colorata e bella.

    La coltivazione e la cura della primula
    La primula è una pianta appartenente alla famiglia delle primulaceae e se ne trovano davvero molte specie tra esemplari annuali, sempreverdi, rustiche ecc. La più comune è sicuramente la primula vulgaris o primula comune, pianta originaria dell’Europa occidentale, che rallegra i giardini soprattutto nel periodo invernale. Questa pianta si presenta con foglie disposte a rosetta, leggermente pelose nella parte inferiore. I fiori, invece, sono singoli e disposti in diverso modo a seconda della specie: infatti, si possono trovare esemplari con fioritura a ombrello e a spiga. Ma come ci si occupa della coltivazione della primula? In realtà, la primula non richiede una cura particolare, bensì è necessario capire quali sono gli esemplari che si possono sistemare comodamente sia all’esterno sia all’interno della propria casa. La temperatura ideale per la primula è di 10-16°C durante la stagione estiva, mentre in inverno riesce a tollerare fino ai 7°C, ma non per periodi troppo prolungati. Per una corretta coltivazione della primula è importante ricordare che non ama la luce diretta del sole e le correnti d’aria fredda. La posizione migliore per la sua cura è ombreggiata o con luce solare indiretta.

    Le specie più conosciute
    Come accennato in precedenza, in natura si possono trovare davvero molte specie: si parla addirittura di 500 specie differenti tra di loro. Tra le più note è possibile citare le seguenti:
    Primula acaulis o vulgaris: si tratta di una specie spontanea che nasce nei boschi europei. Non va oltre i 10 cm ed ha foglie strette con margini ondulati. Si possono coltivare anche in appartamento, a patto che vi sia il giusto fresco durante la fioritura. Da questa specie sono state ricavate molte piante ibride.
    Primula Veris od Odorosa: è possibile osservare questa specie a fine inverno. I fiori si presentano con disposizione a campanula e sono di colore giallo-oro o con macchie arancioni. Hanno un profumo spiccato e foglie dentate con una fitta peluria sul lato inferiore. È una sempreverde e specie protetta.
    Primula obconica: è una pianta originaria della Cina, caratterizzata da foglie oblunghe con margini ondulati. Anche questa pianta presenta peluria nella parte inferiore della foglia, ma meno fitta. Inoltre, le foglie possono irritare per via di una sostanza che contiene. I fiori a ombrello sono grandi e di diversi colori e sono su steli di 30 cm al massimo di lunghezza. Sbocciano a partire dalla stagione invernale e proseguono fino all’estate.
    Primula Malacoides: un’altra specie di primula, sempre originaria della Cina, è questa. La pianta non supera mai i 25 cm di altezza ed è caratterizzata da foglie piccole dentellate e verdi con nervature bianche. I fiori, posizionati su steli di 40 cm di lunghezza, sono bianchi e rosa e si possono osservare tra gennaio e aprile.
    Primula elatior: si tratta di una specie che si presenta con foglie alla base della pianta e fiori a ombrello su lunghi steli che, però, non profumano.
    Primula farinosa: tra le specie che troviamo comunemente sulle Alpi italiane vi è questa. È una pianta che cresce spontanea ed è caratterizzata da fiorellini di piccole dimensioni che sbocciano tra maggio e settembre.

    La fioritura
    I fiori di questa pianta sono molto belli sia per quanto riguarda la forma sia per la colorazione. Come accennato in precedenza, possono assumere la forma di una campanella posizionata su lunghi steli, ma anche di un ombrello ampio. I colori sono tanti: si va dal giallo al bianco, dal rosso al viola e dal blu all’azzurro. È importante considerare un aspetto particolare che riguarda la fioritura. Infatti, la primula non gradisce più di 16°C quando i fiori stanno sbocciando. Temperature elevate possono causare una riduzione sensibile della fioritura della primula.

    Qual è il terreno migliore per la pianta?
    Se si coltiva la primula in vaso, è necessario selezionare un terreno leggero, ma allo stesso tempo ricco di sostanze organiche. Si può anche mescolare un po’ di sabbia per rendere il terreno più drenante. Anche la coltivazione in piena terra richiede un buon terreno: meglio se un terreno ricco di humus, leggermente acido, e ben drenato.

    Le annaffiature
    Durante l’estate la primula ha bisogno di acqua data in maniera regolare: il terreno dovrà essere umido, ma mai eccessivamente bagnato. Infatti, è una di quelle piante che non tollera i ristagni idrici. Ogni tanto si può nebulizzare dell’acqua sulle foglie, facendo attenzione a non bagnare i fiori. Anche durante la fioritura è importante irrigare con costanza la pianta: in questo modo, i fiori trovano la giusta umidità per crescere bene.

    La concimazione
    Il concime può essere dato alla pianta quando la si innaffia, magari diluendo quello liquido nell’acqua, ogni 2 settimane. È consigliato iniziare quando vi sono i primi germogli di fiore per proseguire durante la stessa fioritura. Si suggerisce un concime con bassi livelli di azoto e alti di potassio e fosforo. È preferibile sfruttare anche quelli che al loro interno presentano manganese, rame, zinco, ferro e boro, elementi che aiutano la crescita della pianta.

    La moltiplicazione della primula
    È possibile moltiplicare la pianta sia per seme sia attraverso la suddivisione delle piantine effettuata durante il rinvaso. È necessario poi sistemare i semi nel semenzaio, così poi da ottenere una piantina in poco tempo e sistemarla in vaso o in piena terra.

    Il rinvaso e la potatura
    Il rinvaso della primula si può eseguire ogni 2 anni, prima dell’arrivo della stagione autunnale e prima ancora dell’ingresso nella fase vegetativa della pianta. È importante selezionare un ottimo terreno per offrire il meglio della cura alla primula. Il vaso da selezionare deve essere leggermente più grande del precedente, fino a un massimo di 20 cm. Nel caso in cui la pianta si fosse espansa più di questa dimensione, allora è preferibile dividere le piantine e sistemarle in altri vasi. La potatura si potrà eseguire anche durante il rinvaso, eliminando foglie secche e gialle o gli steli morti. Se non si effettua il rinvaso completo della pianta, si può decidere di sostituire i primi centimetri di terriccio con dell’altro fresco.

    Le malattie e i parassiti in cui può incorrere
    Come molte altre piante, anche la primula può andare incontro a problematiche comuni. Per esempio, la muffa grigia sulle foglie dovute a un fungo per via di elevata umidità. Facendo asciugare completamente il terreno e trattando con un fungicida specifico si può ottenere di nuovo una pianta sana. Gli acari e il ragnetto rosso possono trovarsi facilmente sulla pianta e, anche in questo caso, è importante selezionare un prodotto ad hoc per il trattamento. La primula può anche presentare foglie ingiallite, ma in questo caso si tratta solo di un problema dovuto all’aria troppo secca e calda. LEGGI TUTTO