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    Orchidea cymbidium, i consigli per prendersene cura

    L’orchidea cymbidium è un genere di pianta che appartiene alla famiglia delle orchidacee, di cui sono conosciute circa un centinaio di specie. Questa pianta è originaria dell’area asiatica – in particolare Cina – seppure in natura si trovi anche in Africa e in Australia. L’ibridazione tra le diverse specie ha portato allo sviluppo di tantissime varietà, con i caratteristici fiori di molteplici colori posti sulla lunga infiorescenza. La pianta è detta simpodiale, giacché la crescita avviene orizzontalmente, mentre i getti si generano a partire da un piccolo rizoma. Il cymbidium è dotato di diversi pseudobulbi, che si trovano a ridosso del terreno e sono «inguainati» dalle foglie. Gli pseudobulbi ospitano anche lo stelo floreale e un altro stelo da cui si generano i futuri bulbi. Il cymbidium deve il suo nome dal termine greco «kimbe», cioè barca, che allude all’aspetto del labello del fiore.

    L’orchidea cymbidium: luce, temperatura ed aria
    L’orchidea cymbidium preferisce gli ambienti molto luminosi: durante la stagione invernale, ciò si traduce nell’esigenza di sfruttare l’illuminazione artificiale. Per quanto riguarda la temperatura ideale di coltivazione, la pianta predilige la fascia tra i 15-18 gradi. Il cymbidium può comunque tollerare, per un lasso di tempo non prolungato, temperature anche a ridosso dei 30 gradi: in questi casi, però, accertiamoci di garantire sempre un buon livello di umidità e di ventilazione. La fioritura richiede però una temperatura minima notturna non troppo elevata, di circa 10 gradi. Se si supera questa soglia, è facile che i boccioli si possano danneggiare o, addirittura, che cadano. Per quanto riguarda la ventilazione, il cymbidium ama un buon ricambio di aria. Durante la stagione primaverile, possiamo quindi prevedere di spostarlo all’aperto, avendo cura però di non esporlo al soleggiamento diretto e di aver atteso che la fioritura sia completa.

    Concimazione, innaffiatura e potatura
    Il cymbidium richiede un’innaffiatura frequente, tale da mantenere il substrato sempre inumidito al punto giusto. Durante la stagione estiva (o in periodi con temperature eccezionalmente alte) dobbiamo prevedere la nebulizzazione delle foglie. La concimazione del cymbidium dev’essere regolare, avendo cura di usare un fertilizzante con una parte maggiore di azoto (rispetto a fosforo e potassio) all’inizio della stagione vegetativa. In concomitanza con la fioritura, la concimazione deve prevedere una quota maggiore di potassio e una diminuzione dell’azoto. Negli altri periodi, il concime deve avere una pari quantità di azoto, fosforo e potassio. Possiamo aggiungere il fertilizzante nell’acqua usata per l’annaffiatura una volta alla settimana, accertandoci che il substrato sia umido. Per quanto riguarda la potatura, dobbiamo rimuovere le foglie morte o danneggiate, senza però che questa operazione possa stressare troppo la pianta durante la stagione della fioritura.

    Coltivazione in terreno, vaso e come fare il rinvaso
    Per la coltivazione del cymbidium possiamo usare un terriccio pronto per le orchidee, oppure, il bark con polistirolo, perlite o gommapiuma al fine di trattenere l’umidità. In ogni caso, ricordiamoci di assicurare un drenaggio ottimale, poiché la pianta non tollera il ristagno idrico: a questo proposito, possiamo aggiungere dei cocci sul fondo del contenitore, che deve assicurare un ottimo sgrondo dell’acqua. Per non stressare inutilmente l’apparato radicale del cymbidium, scegliamo un vaso un po’ più grande (al massimo 25-30 centimetri) rispetto alla pianta, disinfettandolo prima dell’uso. Il rinvaso del cymbidium dovrebbe avvenire con un ciclo di 3-4 anni, attendendo che la fioritura sia conclusa. Se in concomitanza con l’esigenza del rinvaso la pianta non fosse fioritura, procediamo a rinvasarla tra marzo-aprile. Ricordiamoci di bagnare adeguatamente la pianta per rendere meno rigide le radici, le quali devono essere pulite e private di parti deteriorate. Per stabilire se sia il momento giusto per rinvasare la pianta, basta guardare gli pseudobulbi: se non hanno spazio per crescere oltre, procediamo. Al termine del rinvaso, ricoveriamo la pianta in un ambiente senza luce diretta e con temperatura stabile per una settimana. Possiamo riprendere ad innaffiare il cymbidium con una frequenza moderata. Prima di tornare a fertilizzare la pianta, attendiamo che le radici manifestino i primi segni di sviluppo.

    Come distinguere lo sviluppo di foglie e fiori
    Per capire se il nuovo germoglio del cymbidium porta in dote un fiore, basta osservarne la sagoma: se è tondeggiante e fasciato dalle foglie, con la parte apicale a punta, è quello floreale. In linea di principio, la pianta sviluppa la spiga dell’infiorescenza tra i mesi di settembre e febbraio: la fioritura, quindi, avviene tra l’autunno e l’inverno. Teniamo presente che l’infiorescenza porta con sé parecchi boccioli e, a causa del peso, i fusti dei fiori devono essere fissati ad un supporto.

    Malattie e parassiti
    In tanti casi, i sintomi di malessere dell’orchidea cymbidium sono causati da qualche errore nella coltivazione. Ad esempio, un’eccessiva irrigazione può provocare la caduta delle foglie. Al contrario, una quantità insufficiente di acqua blocca la crescita della pianta e causa la caduta dei fiori. Se le foglie sembrano opache e non gonfie, è probabile che l’aria sia troppo secca (e se ci sono segni sbiaditi, è probabile la presenza del ragnetto rosso). Se la pianta non fiorisce, è spesso a causa dell’ambiente poco luminoso. Le bruciature sulle foglie, al contrario, sono causate dalla troppa luce concentrata su foglie umide e possono provocare l’attacco da parte di funghi. L’orchidea può essere comunque attaccata dalla cocciniglia, che si manifesta con tante piccole macchie scure: in questo caso, usiamo un batuffolo di ovatta con alcool per rimuovere l’insetto. Per prevenire tante di queste fisiopatie che colpiscono il cymbidium, adottiamo queste buone abitudini colturali:

    mantenere asciutte le parti aree nelle ore notturne;
    rimuovere parti deteriorate del substrato;
    usare solo utensili accuratamente sterilizzati;
    non nebulizzare la pianta a ridosso delle ore più calde;
    mantenere un tasso di umidità all’interno pari a circa il 50%;
    lasciar cicatrizzare per una settimana le radici, in caso di tagli;
    mantenere lontani tra di loro gli esemplari di orchidea. LEGGI TUTTO

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    Europei 2024, Uefa: “Quella strategia ambientale è un modello da replicare”

    Oltre 2,67 milioni di tifosi provenienti da 190 nazioni hanno assistito alle partite disputate dalle 24 squadre nazionali in dieci stadi diversi, migliaia le troupe televisive arrivate da tutto il mondo che hanno mandato in onda dirette seguite da 5,4 miliardi di telespettatori. Bastano solo questi pochi numeri per capire quanto apparisse complicato alla vigilia raggiungere l’obiettivo che si era posta la Uefa per gli Europei di calcio 2024 in Germania: rendere sostenibile un grande evento sportivo, abbassando le emissioni e aumentando l’inclusione sociale. Per la verità, ce n’era anche un altro di obiettivo, i cui effetti si vedranno a lungo termine: lasciare un’eredità ambientale al Paese che ha ospitato gli Euopei, dopo che i riflettori si sono spenti, alle nuove generazioni delle piccole e grandi realtà calcistiche locali. Una sfida. Un programma su cui la Uefa ha investito complessivamente 29,6 milioni di euro. I risultati? Anche qui i numeri contano.

    Euro 24 ha già vinto la partita della sostenibilità

    di Riccarlo Luna

    14 Giugno 2024

    120 sono state le azioni di sostenibilità messe in campo studiate da 15 manager che hanno lavorato solo sul fronte ambientale, dell’inclusività e della sicurezza insieme a 500 volontari. L’idea di fondo era anche di creare un modello che si possa replicare per i prossimi grandi eventi sportivi internazionali. Mostrare che è possibile abbassare l’impatto che queste manifestazioni hanno sull’ambiente.
    Leggendo il Rapporto Ambientale, sociale e di governance di Uefa 2024 presentato oggi a Francoforte, il calcio si conferma una potente cassa di risonanza per diffondere messaggi positivi e anche per mettere in atto buone pratiche dal un punto di vista ambientale e non solo. Insomma, i calciatori ma con loro tutto il mondo del calcio, possono dare il buon esempio.

    Sport

    Ambiente, diritti umani e accessibilità: così gli Europei di calcio diventano sostenibili

    di Luca Fraioli

    14 Giugno 2024

    “Ma la nostra ambizione andava ben oltre i numeri – ha spiegato Michele Uva, responsabile UEFA per la sostenibilità sociale e ambientale – Il cuore pulsante di questo torneo è stata la spinta verso la sostenibilità, l’inclusione e l’integrità, profondamente intrecciate nel suo nucleo. Guidato da tre principi: ambizione, azione e responsabilità, Euro 2024 ha dimostrato come il calcio possa dare l’esempio”.
    La strategia e i risultati fuori e dentro gli stadi
    Uno dei successi chiave agli Europei è stata la riduzione dell’impronta di carbonio del torneo. Nel suo complesso, le misure adottate in tutti i settori (dai trasporti delle squadre e dei tifosi al consumo d’acqua e di cibo fuori e dentro gli stadi, dalla riduzione degli scarti alimentari e dei rifiuti alla messa al bando della plastica) hanno infatti portato a una riduzione totale del 21% delle emissioni rispetto alle previsioni iniziali. Non era semplice.

    Europei di calcio, tutti allo stadio con mezzi ecologici

    di Luca Fraioli

    16 Luglio 2024

    Ad incidere maggiormente in maniera positiva sono state le scelte prese dagli organizzatori sui trasporti che era anche la voce più complicata. Aver raggruppato nella fase a gironi tutte le partite in hub regionali ha avuto l’effetto di ridurre al minimo i viaggi in aereo. Il 75% dei trasferimenti interni delle varie Nazionali sono infatti avvenuti su bus e treni. Impegnativo anche il lavoro portato avanti con i tifosi incentivando l’uso del mezzo pubblico (i bus erano gratis per chi aveva il biglietto del treno e della partita) delle bici e del car-sharing collettivo: solo il 5% è arrivato con l’auto privata. L’81 per cento degli spettatori invece hanno utilizzato i mezzi di trasporto pubblico. LEGGI TUTTO

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    La fusione dello strato di ghiaccio sull’Artico potrebbe influenzare le correnti oceaniche

    Le dimensioni dello strato di ghiaccio che si trova sulla superficie dell’Oceano Artico sono diminuite notevolmente negli ultimi decenni, come mostrano i dati satellitari. E, secondo alcune previsioni, dal 2050 la copertura di ghiaccio in questa zona potrebbe essere completamente assente in estate, con serie ripercussioni sul clima di tutto il Pianeta. Secondo uno studio appena pubblicato su Nature Communications, infatti, durante l’ultimo periodo interglaciale la fusione del ghiaccio marino artico avrebbe influenzato in modo significativo la circolazione delle correnti oceaniche, causando un drastico abbassamento delle temperature nell’Europa del Nord.

    Crisi climatica

    Scienziati in allarme per il rischio di blocco delle correnti marine atlantiche

    di  Jacopo Pasotti

    30 Ottobre 2024

    Cosa potrebbe accadere
    È un fatto di cui si parla da tempo: sono infatti diversi gli studi che mettono in guardia sulla possibilità che la Atlantic Meridional Overturning Circulation (AMOC), il principale sistema di correnti dell’Oceano Atlantico, collassi o comunque subisca drastici cambiamenti nel prossimo futuro anche a causa della fusione dei ghiacci. All’inizio di ottobre, inoltre, decine di scienziati che si occupano di studiare il clima terrestre hanno avvertito in una lettera aperta che il cambiamento climatico sta mettendo seriamente a rischio la circolazione oceanica nell’Atlantico, fatto che “avrebbe impatti devastanti e irreversibili specialmente per i Paesi nordici, ma anche per altre parti del mondo”, scrivono.

    Ricerca scientifica

    Dal clima alla biodiversità: al via la 40esima spedizione scientifica italiana in Antartide

    di  Fiammetta Cupellaro

    21 Ottobre 2024

    Uno sguardo al passato: i punti di svolta
    Quello che il nuovo studio aggiunge in questo contesto è uno sguardo al passato. Più di 100mila anni fa, infatti, durante la prima parte dell’ultimo periodo interglaciale, le temperature globali erano più elevate di quelle attuali e il volume dei ghiacci era minore. Per studiare gli effetti che queste condizioni hanno avuto in passato sulla circolazione delle correnti oceaniche, gli autori della ricerca hanno analizzato alcuni campioni di sedimento prelevati dai mari del nord. Esaminando le “firme chimiche” all’interno di questi sedimenti, il team è stato in grado di ricostruire le temperature superficiali e i livelli di salinità che in passato caratterizzavano questi mari, così come le fonti di apporto di acqua dolce. Secondo le analisi, la fusione dei ghiacci marini avrebbe allora alterato la salinità e la densità dell’acqua, sconvolgendo il normale flusso delle correnti e causando cambiamenti nei modelli di circolazione e nella distribuzione del calore nell’oceano.

    Crisi climatica

    Il ghiaccio marino artico al minimo storico

    di  Jacopo Pasotti

    30 Settembre 2024

    Le correnti trasportano calore
    La circolazione delle correnti oceaniche dipende infatti da due fattori: la temperatura e la salinità dell’acqua. L’acqua calda e poco salata è meno densa di quella fredda e caratterizzata da una salinità più elevata. Quest’ultima tende quindi ad inabissarsi nelle profondità dell’oceano in determinati punti del Pianeta, dopo aver rilasciato la quantità di calore necessario e raggiunto la “giusta” temperatura. Ma la fusione dei ghiacci influenza questo fenomeno poiché causa un elevato afflusso di acqua dolce. La corrente del Golfo, per esempio, che fa parte della AMOC e che tende a ridistribuire il calore dai tropici verso i poli, starebbe mostrando segni di rallentamento anche a causa di questo fenomeno. E una delle conseguenze del suo completo arresto sarebbe il drastico abbassamento delle temperature in Europa, esattamente come sembra essere successo in passato secondo i risultati della nuova ricerca.

    Clima

    Quello che i ghiacciai dicono (su di noi e sull’ambiente)

    di Federico Turrisi

    07 Settembre 2024

    Raffreddamento dell’Europa settentrionale
    “La nostra scoperta che un maggiore scioglimento dei ghiacci marini artici ha probabilmente provocato un significativo raffreddamento dell’Europa settentrionale in passato è allarmante – conclude Mohamed Ezat, professore associato presso il Centre for ice, Cryosphere, Carbon and Climate della Arctic University of Norway e primo autore dello studio – Questo ci ricorda che il clima del pianeta è un equilibrio delicato, facilmente perturbato da cambiamenti nella temperatura e nella copertura dei ghiacci”. LEGGI TUTTO

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    Le visite speciali del FAI per scoprire le meraviglie d’Italia minacciate dalla crisi climatica

    In vista dell’annuale conferenza ONU sul cambiamento climatico (COP29), che si terrà a Baku in Azerbaijan dall’11 al 22 novembre 2024 e che vedrà i capi di Stato di 197 Paesi impegnati a prendere accordi per arrestare e mitigare il riscaldamento globale, il FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano ETS consolida la campagna #FAIperilclima – lanciata in concomitanza con la Cop26 nel 2021 – con un programma di iniziative volte a diffondere conoscenza sul tema del cambiamento climatico a partire dal lavoro che la Fondazione stessa porta avanti nei suoi Beni, dove la crisi ambientale si tocca con mano.

    Alla luce dell’evidente crisi climatica che stiamo vivendo, abbiamo oggi la responsabilità di conoscere quello che sta accadendo per individuare le azioni più efficaci da intraprendere e le modalità di intervento necessarie per affrontare questa sfida globale: serve capire quali sono le soluzioni per mitigare e ridurre le nostre emissioni di gas climalteranti e quali le strategie per adattarci, affinché gli effetti sempre più drammatici del riscaldamento globale non mettano a repentaglio la nostra vita e quella delle altre specie, né precludano alle generazioni future di vivere su un Pianeta prospero e sano. Proprio in conformità con una delle sue missioni, ovvero la diffusione della conoscenza, la Fondazione attraverso la campagna?#FAIperilclima vuole sensibilizzare e promuovere consapevolezza su alcuni dei numerosi temi connessi alla crisi climatica.

    Castello di Avio, Sabbionara di Avio (TN) – Martina Vanzo/FAI  LEGGI TUTTO

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    Meteo estremo, inquinamento e import: il miele italiano è ancora in crisi

    Caduta dei prezzi all’ingrosso, andamento produttivo altalenante, e, non bastasse, a peggiorare la situazione, gli effetti del cambiamento climatico. La crisi di miele e apicoltura italiana è tutta qui, tratteggiata in un rapporto pubblicato nei giorni scorsi dal Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura, che ha il gruppo di studio più importante in Europa su api e impollinatori. Una squadra di venti persone, di stanza a Bologna. A stemperare il quadro, e ad aggiungere complessità, un dato in controtendenza: le cifre mostrano che, nonostante tutto, negli ultimi anni aziende produttrici e numero di alveari sono aumentati.

    Le analisi del Crea si basano su dati della Banca Dati Apistica, il principale riferimento per il settore in Italia. Istituita nel 2009 – ed entrata in funzione nel 2016 -, raccoglie tutte le informazioni quantitative e qualitative relative agli allevamenti. Pensata per scopi fitosanitari, si è trasformata col tempo in uno strumento prezioso anche per il monitoraggio dei parametri economici della filiera. “Vengono registrati razze, varietà, spostamenti, modalità di allevamento tradizionale o biologica, per fornire un quadro attendibile di quanto cresce l’apicoltura in Italia”, dice Milena Verrascina del centro di politiche e bioeconomia del Crea, curatrice del rapporto, “favorendo, cosi, la predisposizione e l’attuazione di politiche di sostegno effettivamente tarate sulle esigenze specifiche dell’apicoltura”.

    “Siamo tra i primi Paesi al mondo ad aver creato una banca dati nazionale” prosegue Verrascina. Uno strumento erga omnes: “Tutti, anche gli apicoltori non professionisti, quelli con poche arnie e che producono per autoconsumo, devono necessariamente registrare i loro apiari”.

    Viaggio a Terra Madre, in cerca di una nuova “bio-logica” per salvare la nostra agricoltura

    di  Giacomo Talignani

    30 Settembre 2024

    Dal 2010 al 2020 (il periodo considerato dai dati) il numero di alveari in Italia è aumentato del 57%, cifre che collocano l’Italia al sesto posto in Europa. Gli alveari nella Penisola superano di poco il milione, con la concentrazione maggiore che si registra in Piemonte (ben 171.224). Seguono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, Sicilia e Calabria. L’80% è gestito da apicoltori professionali.

    Gli aumenti più significativi per quanto riguarda gli alveari, hanno interessato soprattutto Marche (+179%), Puglia (+167%) e Calabria (+143%). Invece, la crescita del numero di aziende dedite all’apicoltura ha interessato in particolare l’Umbria, dove sono passate da 146 nel 2010 a 976 dieci anni dopo (+568%), la provincia autonoma di Trento (+393%), la Puglia (+363%), il Veneto (+362%) ed il Lazio (+343%).

    Se l’interesse per il settore aumenta, la produzione, però, è altalenante. “Il principale fattore che nell’ultimo decennio ha influenzato negativamente i livelli produttivi rispetto alle effettive potenzialità è indubbiamente il cambiamento climatico” sottolinea Verrascina. “Gelate tardive ed estati torride decimano gli alveari, perché le api non sopportano temperature elevate, anche in alta montagna: in queste condizioni muoiono, costringendo gli agricoltori ad acquistare nuovi alveari”. Altro problema è costituito dalle piogge: “Gli insetti non escono per le precipitazioni continue, e quindi non producono” riprende la ricercatrice.

    Biodiversità

    Ape nana rossa, scoperta in Europa la prima colonia della specie invasiva

    di Tiziana Moriconi

    30 Agosto 2024

    La conferma arriva dal professor Stephen Buchmann, associato del Dipartimento di Ecologia e Biologia evoluzionistica dell’università di Tucson, in Arizona (Stati Uniti), e autore del recente volume La personalità dell’ape (Edizioni Ambiente). Buchmann ha passato la vita a studiare gli insetti, approfondendone anche gli aspetti, per così dire, psicologici.

    “Il cambiamento climatico sta avendo impatti significativi sulle popolazioni di api a livello mondiale” rileva. “Aumento delle temperature, siccità e inondazioni sono i fattori principali che influenzano la sopravvivenza e il comportamento degli sciami”. Come quelle in Emilia-Romagna nel 2023, che ha spazzato via migliaia di alveari, aumentando i costi per le aziende e costringendole a imbastire una nutrizione di soccorso imprevista. Non va meglio, spiega Buchmann, quando il termometro sale. “Temperature più calde possono sconvolgere il naturale ciclo di vita delle api” prosegue l’accademico statunitense. “Esistono studi che hanno mostrato come lo stress indotto dal climate change sta riducendo la longevità di questi insetti, che nel giro di cinquant’anni si sarebbe addirittura dimezzata”. Non solo. Le temperature in aumento “hanno accresciuto la necessità di acqua per le api, aggravando ulteriormente lo stress sulle colonie, specialmente nelle aree che sperimentano siccità”.

    Non bastasse, “cambiamento climatico e inquinamento stanno compromettendo la capacità delle api di riconoscere le fragranze floreali, rendendo più difficile per loro individuare le fonti di cibo”. Le conseguenze non sono solo economiche: il ruolo delle api nella conservazione della biodiversità è noto, e – sottolinea il docente – insostituibile.

    I fattori di mercato
    “Poi ci sono i fattori di mercato”, riprende Verrascina. “La contrazione dei consumi negli ultimi anni post-covid è stata drammatica. Ma un colpo duro arriva anche dalla continua e costante importazione di mieli provenienti da Europa orientale e Asia, spesso adulterati, di pessima qualità, preparati con sciroppi di zucchero, e che non hanno certo le proprietà qualitative del miele italiano”.

    Il settore, spiega l’esperta, vive quello che può essere definito un vero e proprio caso di coscienza: “Il prezzo all’ingrosso è crollato anche per la comparsa sugli scaffali di altri mieli, provenienti da strane triangolazioni con Paesi come l’Ucraina. È chiaro che in questo momento stiamo assistendo alla necessità di incentivare gli scambi commerciali per fornire supporto a un Paese in guerra”, sottolinea. “Ma nondimeno, si tratta di una concorrenza che gli apicoltori italiani subiscono; abbiamo certamente il dovere di fornire il sostegno necessario a Kiev, ma il settore italiano così viene danneggiato”.

    Secondo Verrascina, il sostegno del governo, con l’esecutivo precedente e anche quello attuale, “fortunatamente si sente: di questa partita si occupano i sottosegretari, che hanno ben presente la questione e l’importanza della filiera italiana, oltre al fatto che il miele nazionale non è solo una questione economica, ma di tutela della biodiversità. Il Masaf negli ultimi anni sta conducendo un’operazione egregia, mettendo a disposizione risorse, ascolto e investimenti: anche sulla Pac (la Politica agricola comune di Bruxelles) l’Italia si è distinta rispetto altri Paesi per gli investimenti sugli impollinatori”. Insomma, “un buon lavoro, di cui il settore è soddisfatto”.

    Adesso, spiega Verrascina, “è necessario lavorare molto sulla comunicazione e sul ruolo del consumatore, che, con le sue scelte, si ripercuote sul mercato”. L’approvazione di un sistema di qualità nazionale va in questo senso: “L’etichetta del miele italiano è ben fatta e ricca di informazioni. Meglio consumare un po’ meno, ma privilegiare la qualità delle nostre produzioni” conclude la ricercatrice. LEGGI TUTTO

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    Quanti rifiuti elettronici produrrà l’intelligenza artificiale entro il 2030? La stima: circa 5 milioni di tonnellate ogni anno

    A volte potremmo forse avere l’idea che l’intelligenza artificiale, in tutte le sue variegate forme, sia immateriale. Niente di più sbagliato: i sistemi di AI sono fin troppo concreti, e il loro impatto sulla salute del pianeta rischia di essere una ulteriore minaccia. Su Nature computational science, infatti, è appena uscito uno studio che invita a considerare il rischio, annunciando che di qui al 2030 potremmo accantonare 5 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici solo per “colpa” dell’AI. Cifre considerevoli, dato che la produzione di rifiuti elettronici annuali supera già da tempo 60 milioni di tonnellate all’anno. Ma ci sono ampi margini perché questo non succeda, avvertono al contempo gli autori.

    Economia circolare

    Ancora troppi rifiuti elettronici finiscono nella raccolta indifferenziata

    di Sara Carmignani

    15 Ottobre 2024

    Le previsioni del team guidato da Peng Wang della Chinese Academy of Sciences sono simili – concettualmente- a quelle che vengono eseguite negli studi sui cambiamenti climatici. Ovvero, gli effetti di quello che potremmo osservare in futuro dipendono ovviamente dalle nostre azioni, tanto dalle attività di utilizzo e produzione di beni e servizi, quanto dalle attività di mitigazione degli effetti che quei beni e servizi producono sull’ambiente. Così, procedendo con questa logica, i ricercatori hanno stimato gli effetti di utilizzi più o meno intensivi di servizi di intelligenza artificiale in termine di produzione di rifiuti elettronici. In questo modo, scrivono, hanno cercato di colmare un gap nel campo: spesso infatti si tende a stimare gli effetti dell’AI sull’ambiente limitandosi a calcolare emissioni e consumi energetici, senza prestare adeguata attenzione ai rifiuti elettronici. Problematici soprattutto perché gran parte di questi non viene smaltita correttamente, con rischi per l’ambiente ed enorme spreco di materiali preziosi, avvertono da tempo gli esperti nel campo.

    Per avere un’idea della mole di rifiuti potenzialmente prodotti nel prossimo futuro, gli scienziati guidati da Wang hanno calcolato il flusso di materiali collegati all’AI generativa, concentrandosi sui sistemi per i large language model (LLM). E se da una parte, come anticipato, le loro previsioni parlano di notevoli aumenti nella produzione di rifiuti elettronici, molto è anche quello che possiamo fare. Entrando nel merito delle loro stime, i dati mostrano che – ovviamente – i consumi maggiori si avrebbero per gli utilizzi più estensivi delle tecnologie di AI. In questo caso questo equivale a circa 2,5 milioni di tonnellate nel 2030, equivalente per avere un’idea, scrivono i ricercatori, a circa 13 miliardi di iPhone.

    Nello scenario più conservativo avremmo circa 0,4 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici (solo due miliardi di iPhone in tal caso). Le aree che più contribuiranno saranno – anche qui con poca sorpresa – Nord America (da solo quasi il 60%), seguita da Asia Orientale ed Europa.

    Tecnologia

    Smarthphone ricondizionati: il mercato sostenibile che vale un miliardo di euro

    di Antonio Piemontese

    08 Agosto 2024

    Ci sono però ampi margini di miglioramento. Usare più a lungo dispositivi e componenti, aumentare le capacità di riciclo e riutilizzo, e magari incrementare l’efficienza dei chip, sono azioni che potrebbero ridurre i rifiuti elettronici dal 16% all’86%, puntualizzano gli esperti. Ciò a testimonianza che se i trend da un lato appaiono abbastanza chiari, non mancano neanche le possibilità di contenerne le conseguenze. I dati snocciolati dai ricercatori vanno interpretati con cautela. Sono diverse infatti le incertezze – sia al ribasso che al rialzo, legate a diverse efficienze dei dispositivi o modalità di utilizzo dei sistemi di AI – ma a incidere saranno anche le condizioni geopolitiche e la conseguente disponibilità di componenti e materiali (in primis dei superconduttori), concludono gli autori. LEGGI TUTTO

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    Palma di areca: cura, esposizione e innaffiatura

    L’areca è un genere di piante che appartiene alla famiglia delle arecacee, le cui origini sono da ricercare tra la Malesia e le Filippine, sebbene siano presenti in aree calde (e umide) di Asia ed Africa. Nell’ambiente naturale, l’areca raggiunge dimensioni tipiche di un albero. Alle nostre latitudini, però, la sua coltivazione è possibile solo in vaso, dove la pianta si sviluppa solitamente fino ad un paio di metri di altezza, con una crescita lenta. L’areca si caratterizza per il suo cespo con piccoli fusti, nonché per le foglie pennate dal colore verde brillante.

    Dove posizionare la pianta
    Per quanto la coltivazione in vaso dell’areca ne limiti in modo importante lo sviluppo, ricordiamoci che le foglie della palma possono superare i 100-150 centimetri di lunghezza. È quindi importante scegliere un luogo in cui la pianta possa essere sistemata, senza che il transito costante di persone o altre esigenze possano richiederne uno spostamento. Scegliamo un ambiente particolarmente luminoso, dove l’areca possa trovare tutta la luce di cui ha bisogno per crescere, ma non esponiamola ai raggi solari diretti. È anche importante che il luogo sia ventilato al punto giusto, ma senza correnti d’aria. L’areca vegeta in modo ottimale quando la temperatura media si colloca attorno ai 20-25 gradi.

    Quale terreno utilizzare per la coltivazione
    L’areca non richiede una specifica tipologia di terriccio per la sua coltivazione. Un aspetto al quale dobbiamo prestare attenzione è piuttosto la capacità di drenaggio del terreno, poiché l’areca non tollera il ristagno di acqua a livello radicale. Per rendere più drenante il terriccio, possiamo aggiungere della sabbia grossolana e dell’argilla espansa. Un’altra accortezza che possiamo adottare è la classica sistemazione di cocci sul fondo del vaso. Infine, ricordiamoci che l’areca necessita di un rinvaso solo nel momento in cui le radici hanno esaurito lo spazio a loro disposizione per svilupparsi.

    Guida alla cura efficace della palma di areca
    L’areca richiede un’annaffiatura costante, tale da mantenere il terreno sempre umido. Per avere sempre il giusto livello di umidità, durante i mesi estivi, nebulizziamo le foglie. In alternativa, possiamo anche aggiungere un po’ di ghiaia nel sottovaso e lasciare sempre un dito di acqua: in questo caso, controlliamo che le radici rimangano sempre asciutte. L’acqua dell’irrigazione dovrebbe essere preferibilmente piovana, o comunque, con un basso contenuto di calcio. Per la concimazione dell’areca, possiamo aggiungere del fertilizzante liquido all’acqua di innaffiatura, almeno un paio di volte al mese. La concimazione non dev’essere eseguita al di fuori del periodo compreso tra primavera-estate. La palma di areca non ha particolari esigenze di potatura: eliminiamo però le foglie in via di disseccamento o che presentano segni di danneggiamento, in modo tale da prevenire gli attacchi dei parassiti. Infine, ricordiamoci di pulire le foglie della pianta con l’ausilio di un panno morbido inumidito.

    Malattie e parassiti
    L’areca non è soggetta a particolari avversità, giacché nella maggior parte dei casi i sintomi di malessere della palma sono da ricondurre ad errori nella coltivazione. Ad esempio, quando le foglie dell’areca tendono ad avere le punte secche, significa che abbiamo annaffiato in modo eccessivo la pianta. L’unico rimedio adottabile in questo caso, è l’eliminazione della parte secca della foglia: non abbiamo infatti un altro modo per ovviare alla problematica.

    Se l’areca sembrasse crescere a stento, dovremmo sincerarci che non si sia verificata la problematica del marciume radicale. Leviamo la pianta dal vaso e tastiamo le radici: se non sono sode, procediamo ad asportare le porzioni molli e, in seguito, usiamo un fungicida. Aspettiamo una settimana prima di bagnare nuovamente l’areca. Se il lato inferiore delle foglie presentasse delle macchie scure, la pianta potrebbe essere stata attaccata dalla cocciniglia: per eliminarla, usiamo un batuffolo di ovatta con dell’alcool. Se le foglie avessero dei segni gialli, potremmo avere a che fare col ragnetto rosso: in questo caso, dovremmo nebulizzare dell’acqua, oppure, fare ricorso ad un prodotto contro gli acari. LEGGI TUTTO