Febbraio 2025

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    Fango al posto della neve: le isole Svalbard al tempo del riscaldamento globale

    “Fango!”, esclama Tessa Viglezio, rientrando nella stazione italiana Dirigibile Italia. Viglezio è station leader della stazione dell’Istituto di Scienze Polari del CNR. Poi posa i pesanti stivali che usa quando guida la motoslitta fuori dalla base. “Non dovrebbe essere così, dovrebbe esserci neve”, dice ancora. La stazione è un centro di ricerca multidisciplinare situato a Ny-Alesund, alla latitudine 79° Nord nelle Isole Svalbard. La base è operativa dal 1997. Gli scienziati presenti nella base sono tra il sorpreso e lo sconcertato. Sono consci di essere testimoni dell’inizio di una nuova epoca, in cui gli inverni sono sempre più brevi e la pioggia si sostituisce alla neve.

    Intorno a loro nel pieno dell’inverno artico, la poca neve che c’è si sta inesorabilmente liquefando, ci sono pozzanghere d’acqua. Ogni tanto, invece di nevicare, piove. Le temperature sono da diversi giorni sopra lo zero termico, notte e giorno. Dai tetti delle stazioni scientifiche dei diversi Paesi si sente lo stillicidio della neve che si scioglie. “È estremamente caldo. Quattordici volte più caldo di quanto dovrebbe essere al momento. Questa stagione, febbraio-marzo dovrebbe essere attorno ai meno 20 gradi, in teoria sono i due mesi più freddi dell’anno”, dice ancora Viglezio. “Invece siamo al di sopra di 0 gradi da due settimane. È veramente impressionante. C’è acqua liquida in tutta Ny-Alesund, sono condizioni che ti aspetteresti in maggio o giugno”. “Ho parlato con chi vive qui da vent’anni e un artico così, con così poca neve e così caldo, a febbraio non lo ricorda nessuno”, dice Donato Giovannelli, microbiologo della Federico II di Napoli e attualmente ospite della base. I record di temperatura alle Svalbard sono aumentati, a testimonianza dei significativi cambiamenti climatici degli ultimi decenni. Nell’agosto 2024, la stazione meteorologica di Bjornoya ha registrato una temperatura di 22,5°C, la più alta dall’inizio delle registrazioni nel 1912. Inoltre, l’estate del 2024 è stata la più calda mai registrata, con una temperatura media di 6,9°C in tutte e quattro le stazioni meteorologiche delle Svalbard. Che questo settore dell’artico sia un hotspot del riscaldamento globale è evidenziato anche da uno studio a cui ha contribuito il CNR e appena pubblicato sulla rivista Nature.

    Crisi climatica

    La Groenlandia si scioglie sempre di più

    di Fiammetta Cupellaro

    03 Febbraio 2025

    Lo studio è la prima ricostruzione che collega la riduzione del ghiaccio marino e il ritiro dei ghiacciai con l’incremento dell’areale della vegetazione delle Svalbard, che diventano, in sintesi, sempre più verdi. Ma se in estate un po’ più di caldo nell’Artico può non fare notizia, in inverno è ben diverso: la fisica non perdona: sopra lo zero il ghiaccio e la neve diventano acqua e se ne vanno. La magia dell’inverno polare si liquefa e gli scienziati, i pochi abitanti dell’arcipelago, e anche i turisti a caccia di avventure ricalcando i passi di entusiasti influencer camminano non su morbida neve ma su una poltiglia bagnata, su lastre di ghiaccio coperte da un velo d’acqua, o nel fango. “Con il mio team siamo venuti nell’Artico a studiare l’ambiente invernale e le comunità microbiche che vivono in questo ambiente estremo. Sappiamo benissimo che in estate i microorganismi presenti diventano attivi e cominciano a consumare carbonio e a rilasciare gas serra come CO2 e metano. Non sappiamo molto di quello che succede durante l’inverno perché il terreno è quasi completamente congelato e coperto dalla neve” , spiega Giovannelli.

    Crisi climatica

    Artico sempre più caldo: ormai emette più gas serra di quanti ne assorbe

    di redazione Green&Blue

    22 Gennaio 2025

    “Siamo venuti per campionare suoli prevalentemente congelati e invece abbiamo trovato temperature sopra lo zero già da una settimana. Tutto si sta scongelando e abbiamo trovato grandi zone di suolo dove la neve non c’è più”. Questa situazione è anche origine di problemi logistici. Molti lavori di costruzione vengono compiuti in inverno, quando il terreno è congelato. La neve serve anche per muoversi. “L’anno scorso c’era tanta neve, anche 80 centimetri. Era perfetto per andare in motoslitta, perfetto per sciare. C’è stato qualche evento di “rain on snow” (pioggia sulla neve), ma non sono stati così devastanti come quelli di quest’anno”, spiega ancora Viglezio. Anche se da un lato questa è una opportunità per affacciarsi sul nuovo artico, quello che ci aspetta, “è deprimente guardarsi intorno e vedere distese di acqua liquida, invece che distese di neve. Ci sono ovunque distese di acqua, grandi come laghi. È febbraio, siamo nel pieno dell’inverno Artico, a 79 gradi di latutudine nord”, ammette Giovannelli. “È deprimente perché forse abbiamo sottovalutato la cosa, noi scienziati per primi, siamo stati troppo cauti nei messaggi che abbiamo dato. Invece gli effetti di cui parlavamo, e che pensavamo ci sarebbero stati tra 20 anni, 50 anni, 100 anni, probabilmente sono già qui. Lo so che una stagione come questa non fa statistica, però se guardiamo le statistiche, le temperature medie sono in aumento dagli ultimi 40 anni. Negli ultimi 6-7 anni ogni anno è stato l’anno più caldo mai registrato. Certo, la mia esperienza di quest’anno non fa statistica, però la tendenza è chiaramente in aumento e questo non si può nascondere”, conclude Giovannelli. LEGGI TUTTO

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    Pochi fondi per la conservazione degli animali “brutti”

    Salamandre, rane, pipistrelli, serpenti, lucertole, insetti. Animali certamente meno carismatici dei grandi mammiferi o di specie che per qualche motivo suscitano maggiore empatia e fascino, e che tuttavia necessitano almeno altrettante attenzioni e altrettanto supporto se vogliamo scongiurarne l’estinzione. Ma da uno studio pubblicato su PNAS emerge che i finanziamenti mondiali per la conservazione della biodiversità animale e vegetale sono indirizzati solo ad un piccolo numero di grandi specie, mentre quasi il 94% delle specie a diretto rischio di estinzione non avrebbe ricevuto alcun sostegno negli ultimi decenni.

    Gli autori e le autrici della ricerca hanno analizzato 14.566 progetti di conservazione messi in campo nell’arco di circa 25 anni, dal 1992 al 2016. In particolare, hanno esaminato l’importo dei finanziamenti destinati a specie minacciate o considerate a rischio di estinzione, inserite cioè nella cosiddetta “Red List of Threatened Species” dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). “Per la prima volta – spiega Stefano Cannicci, docente di Zoologia dell’Università di Firenze e coautore della ricerca – si è analizzato lo sforzo mondiale di conservazione delle specie e degli ambienti andando a studiare la distribuzione dei fondi dedicati alla conservazione, e non contando il numero di articoli pubblicati: dei 1.963 miliardi di dollari assegnati complessivamente dai progetti, l’82,9% è stato destinato a vertebrati. Piante e invertebrati hanno rappresentato ciascuno il 6,6% dei finanziamenti, mentre funghi e alghe sono appena rappresentati, con meno dello 0,2% per ciascuna delle specie”.

    Biodiversità

    Dal minuscolo elefante del Borneo alle lucertole di Ibiza: ecco i nuovi animali a rischio estinzione

    30 Giugno 2024

    Per inquadrare la questione è sufficiente considerare che gli invertebrati, di cui fanno parte per esempio gli insetti, costituiscono circa il 97% delle specie animali note. Inoltre, dallo studio emerge che anche all’interno di molti dei gruppi tassonomici che hanno ricevuto maggiori finanziamenti esistono grosse disparità: i mammiferi di grossa taglia, che secondo l’IUCN rappresentano solo un terzo dei mammiferi minacciati, avrebbero ricevuto l’86% dei finanziamenti. “I dati dicono, per esempio, che tra i vertebrati più a rischio di estinzione ci sono gli anfibi (come salamandre e rane), ma i fondi a loro dedicati sono meno del 2% del totale – prosegue Cannicci, che è anche membro dell’IUCN – In generale, gli animali che noi consideriamo ‘brutti’ o pericolosi (pipistrelli, serpenti, lucertole e moltissimi insetti, escluse le farfalle) sono scarsissimamente finanziati in termini di conservazione”. Tra l’altro, concentrare i fondi globali negli sforzi di conservazione di poche specie non contribuisce a preservare gli interi ecosistemi di cui quelle stesse specie fanno parte, sottolinea Cannicci. Per affrontare in modo efficace la sfida della tutela della biodiversità, gli autori dello studio propongono che siano destinate complessivamente più risorse alla conservazione, ma anche che le organizzazioni governative e non governative lavorino per riallineare, sulla base delle conoscenze scientifiche, le priorità di finanziamento verso le specie a reale rischio di estinzione e attualmente trascurate. LEGGI TUTTO

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    Cop16 chiude con un accordo (al ribasso) sulla biodiversità

    Gli elefanti e le formiche, l’umanità e i funghi, le foreste e gli oceani dalle primissime ore di questa mattina hanno una chance in più per garantire la loro diversità e la loro sopravvivenza. In piena notte, nelle prime ore del 28 febbraio, dopo una lunghissima ed estenuante giornata di negoziati fra lacrime e sbadigli i delegati di oltre 150 Paesi riuniti nella sede Fao di Roma per i supplementari della Cop16 che fallì lo scorso novembre in Colombia questa volta hanno trovato una intesa al fotofinish: finalmente c’è una strada, comune, tracciata per tentare di proteggere la biodiversità planetaria. Un cammino, seppur al ribasso, che permetterà di mobilitare le risorse e di monitorare i progressi di salvaguardia passando attraverso un meccanismo finanziario condiviso che, si spera, potrebbe realmente aiutare i Paesi meno sviluppati e le comunità indigene, coloro che ospitano e proteggono le più grandi percentuali di biodiversità sulla Terra, attraverso risorse finanziarie accessibili.

    Non era scontato, ottenere questo accordo, qualcosa che Susana Muhamad, la presidente colombiana della Cop16, ha definito come “storico”. Il suo volto, esausto a fine trattative e ancora teso prima del liberatorio applauso arrivato poco prima di mezzanotte – quello della plenaria felice per l’adozione condivisa di un meccanismo finanziario – è diventato sereno solo quando le frizioni fra Paesi – come quelle tra il gruppo dei BRICS guidato dal Brasile contro il blocco europeo, canadese e dei Paesi più sviluppati – a suon di compromessi si sono finalmente allentate. Anche perché come ha detto il delegato egiziano, dopo tre giorni di continue negoziazioni, era ora di “mostrare la via del compromesso, vorremmo andare tutti a dormire”. Quello che è stato concordato a fatica e a poche ore dalla fine definitiva dei lavori è un accordo a ribasso, ma è pur sempre un piano che mancava e ora c’è. Si potrebbe dire che è stato costruito il salvadanaio, dotato di meccanismi per poterlo riempire, anche se non ci sono certezze su chi, come e quando verserà lì dentro il denaro. Come noto l’idea è quella di 200 miliardi di dollari l’anno entro il 2030, quantità comunque insufficiente a proteggere la biodiversità mondiale, ma è pur sempre un primo passo. I Paesi hanno confermato queste cifre e concordato strade e meccanismi per avere strategie di finanziamento nazionali e per destinare buona parte di questi soldi – e realmente, non solo sulla carta come avveniva finora – alle comunità indigene e ai popoli originari che stanno vedendo scomparire la biodiversità fonte di vita (si parla di 20 miliardi dai Paesi più ricchi a quelli più poveri).

    Focus

    Biodiversità e genetica: cos’è il “Cali Fund” e perché è uno strumento per la giustizia ambientale

    di Giacomo Talignani

    26 Febbraio 2025

    Uno dei punti più delicati – anche per far sì che l’accesso al salvadanaio sia reale e semplice – era l’idea di creare un fondo specifico dedicato alla biodiversità e non, come per lo più finora, un sistema che tramite Banca mondiale erogasse risorse. I Paesi meno sviluppati, guidati da Brasile, Russia e Kenya, chiedevano appunto un fondo nuovo e che fosse “dedicato”, gestito direttamente magari dalla CBD (Convenzione sulla biodiversità), dove far confluire i finanziamenti: la loro proposta è stata accettata tramite compromesso ma solo parzialmente, diciamo che per ora è stata aperta la possibilità di crearlo, o di utilizzare per lo stesso scopo fondi già esistenti. Sono state poi adottate strategie per mobilitare le risorse dal 2030 al 2050 per l’attuazione del Quadro Globale per la Biodiversità ed è stata promossa l’idea di un dialogo internazionale tra i ministri dell’Ambiente e delle Finanze dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo in modo da accelerare la mobilitazione delle risorse. Tutti questi passaggi potrebbero sembrare molto tecnici ma includono una speranza che, in tempi di tensioni geopolitiche e giorni in cui Donald Trump smantella ogni tipo di politica verde proprio mentre la Terra continua a surriscaldarsi e piante e animali soffrono ulteriormente per le azioni dell’uomo, va tenuta ancora accesa, dimostrando come alla Cop16 e nel mondo la macchina del multilateralismo internazionale funzioni ancora. Non era semplice infatti mettere d’accordo così tanti Paesi con punti di vista diversi in soli tre giorni, dopo che quattro mesi fa la Cop16 in Colombia fallì male e senza alcuna intesa. Questa volta anche se fra tanti compromessi – e parte del merito va alla presidenza colombiana – si è trovato un punto di incontro condiviso da cui partire. Un punto che serve come non mai dato che il tasso del declino delle specie corre veloce (1 milione quella a rischio), tanto da far parlare gli scienziati di “sesta estinzione di massa” sulla Terra. Per questo nel 2022 era stata concordata dalle Parti l’idea di proteggere il 30% di terre e mari: per farlo però servono i finanziamenti e per attivarli serve un processo, che è quello che è stato appunto definito a Roma.

    Le idee

    Cop16, gli aiuti al Sud del mondo per salvare la biodiversità

    di Greenpeace

    19 Febbraio 2025

    La sola idea di avere finalmente un piano e un meccanismo finanziario (da adottare nel 2028) ha fatto piangere molti dei delegati presenti. “Questa vittoria, questo applauso è per tutti voi. Avete fatto un lavoro incredibile” ha detto loro la presidente Muhamad ricordando che “abbiamo ottenuto l’adozione del primo piano globale per finanziare la conservazione della vita sulla Terra” e una tabella di marcia che potrebbe essere “una pietra miliare”. Abbastanza soddisfatte, ma non del tutto, anche le associazioni ambientaliste che hanno seguito i lavori. Il WWF ad esempio applaude ma ricorda che a mancare sono soprattutto i soldi. Per Efraim Gomez per esempio, Global Policy Director del WWF International, “le parti hanno fatto un passo nella giusta direzione. Ci congratuliamo per aver raggiunto questi risultati in un contesto politico globale difficile. Ma questo accordo non è sufficiente e ora inizia il vero lavoro: è infatti preoccupante che i Paesi sviluppati non siano ancora sulla buona strada per onorare il loro impegno di mobilitare 20 miliardi di dollari entro il 2025 a favore dei Paesi in via di sviluppo”. Per Bernardo Tarantino, specialista Affari Europei e Internazionali del WWF Italia, “a Roma le parti hanno rinnovato e rafforzato il consenso comune per la tutela della natura. In un contesto internazionale molto complicato, servono coraggio e leadership per portare avanti l’agenda diplomatica per la tutela della natura. Dopo la scarsa attenzione mostrata per la COP16 ospitata dal nostro Paese, auspichiamo che il governo italiano si unisca con maggiore convinzione e forza alla necessità di aumentare le risorse finanziarie per la biodiversità e ad eliminare i sussidi dannosi per l’ambiente”. Quel che è certo è che da Roma, come ha detto Susana Muhamed, usando “braccia, gambe e muscoli” il mondo ha iniziato a spostarsi nella direzione necessaria, anche se insufficiente, per proteggere quella biodiversità da cui tutti noi dipendiamo, che riguarda il 50% del Pil mondiale. Lo si potrebbe definire un primo grande passo in attesa di vedere se alla fine le risorse arriveranno davvero, per esempio alle comunità indigene, così come se continuerà la bella collaborazione mostrata in soli tre giorni a Roma fra i Paesi, oppure se il prossimo anno in Armenia alla futura Cop17 sulla biodiversità, i progressi mostrati nella notte rimarranno solo sulla carta. LEGGI TUTTO

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    La sfida della logistica green, quando i punti di ritiro battono le consegne a domicilio

    Quando si tratta di acquisti online, circa il 74% dei consumatori opta per la consegna a casa, ma se adeguatamente informati sull’impatto ambientale di questa modalità di consegna il 60% prediligerà un punto di ritiro, che determina una quantità di emissioni di CO2 pari a circa un terzo di quelle associate all’home delivery. Insomma un consumatore informato adeguatamente di quanto impattano i suoi click sulle piattaforme di e-commerce sceglie la modalità più ecologica del punto di ritiro.
    Lo rivela uno studio condotto da Valeria Belvedere ed Elisa Martina Martinelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, insieme a Herbert Kotzab dell’University of Northern Florida. L’articolo è pubblicato sulla rivista Journal of Business & Industrial Marketing. Lo studio si basa su un’indagine che ha coinvolto in Italia e Germania un campione complessivo di 1.010 consumatori. I ricercatori hanno individuato i principali elementi che determinano la scelta dei punti di ritiro automatizzati rispetto alla consegna a domicilio.

    BACKGROUND
    Negli ultimi anni, la crescita dell’e-commerce ha posto nuove sfide alla logistica dell’ultimo miglio, con un impatto significativo sull’ambiente. La gestione inefficiente delle consegne a domicilio contribuisce all’aumento delle emissioni di CO?, rendendo necessario individuare soluzioni più sostenibili. Tra queste, i parcel locker, ovvero punti di ritiro automatizzati, emergono come un’alternativa ecologica ed efficiente associata a due terzi di emissioni in meno rispetto alla consegna a casa.
    Questa riduzione è attribuibile a una maggiore efficienza logistica: i corrieri possono consegnare più pacchi in un unico punto, diminuendo il numero di viaggi e, di conseguenza, le emissioni associate al trasporto. Inoltre, le consegne presso i locker riducono il rischio di mancate consegne dovute all’assenza del destinatario.
    Tuttavia, affinché vengano adottati su larga scala, è fondamentale comprendere quali fattori influenzino la propensione dei consumatori a sceglierli.

    LO STUDIO
    Dallo studio emerge che diversi fattori influenzano la propensione all’uso dei locker. Innanzitutto, contano le aspettative di performance e dello sforzo che bisogna fare per servirsene, ossia la percezione di affidabilità e facilità d’uso. Gioca un ruolo anche l’influenza sociale, ovvero il peso delle opinioni altrui. Un altro elemento rilevante è l’ansia tecnologica: i consumatori meno abituati all’uso di strumenti digitali potrebbero essere riluttanti a utilizzare i locker. Inoltre, ha un peso la cosiddetta “motivazione edonistica”, ovvero il piacere derivante dall’esperienza di utilizzo, che può incidere positivamente sulla loro diffusione.

    Tuttavia, il fattore più rilevante emerso dalla ricerca è la consapevolezza dell’impatto ambientale. Lo studio dimostra che l’informazione trasparente sulle emissioni di CO? delle diverse opzioni di consegna ha un impatto diretto sul comportamento dei consumatori. Nel questionario sottoposto agli intervistati, è stato chiesto loro di scegliere tra consegna a domicilio e ritiro in un locker. Inizialmente, circa il 74% ha optato per la consegna a casa. Tuttavia, dopo aver ricevuto informazioni sulle minori emissioni dei parcel locker, il 60% di questi consumatori ha cambiato scelta, preferendo il punto di ritiro automatizzato. Questo risultato evidenzia quanto la comunicazione aziendale sulla sostenibilità possa essere determinante nel guidare le scelte dei consumatori.

    “Dal punto di vista strategico, i risultati di questa ricerca offrono spunti importanti per le aziende attive nell’e-commerce – spiegano le docenti. La gestione della logistica dell’ultimo miglio non può limitarsi a soddisfare la domanda di consegne rapide ed economiche, ma deve integrare soluzioni sostenibili e incentivare i consumatori a preferirle. La chiave per il successo sembra risiedere nella capacità di educare e sensibilizzare il cliente, rendendolo consapevole dell’impatto ambientale delle proprie decisioni d’acquisto”.

    In conclusione, i parcel locker rappresentano una soluzione efficace per migliorare la sostenibilità dell’e-commerce, ma la loro diffusione dipende dalla capacità delle aziende di rimuovere le barriere percepite dai consumatori e di comunicare in modo chiaro i benefici ambientali di questa scelta. I dati dimostrano che quando i clienti vengono informati in modo trasparente, sono più inclini a modificare le proprie abitudini di consumo. Questo studio fornisce quindi indicazioni preziose per sviluppare strategie di marketing e logistica più sostenibili, con benefici sia per l’ambiente sia per l’efficienza operativa delle aziende. LEGGI TUTTO

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    Mammiferi, la convivenza con l’uomo rischia di alterare il loro modo di vivere

    Chi più chi meno siamo tutti regolati dal nostro orologio interno e, al di là di gufi e allodole, la nostra è una specie tipicamente diurna. Magari con qualche tendenza più notturna, d’estate, quando le temperature cominciano a diventare invivibili di giorno. E potremmo diventarlo forse sempre di più se il trend, per cui ogni estate batte i record di temperatura della precedente, si confermasse. Ma cosa succede agli altri animali? Come adattano i loro ritmi alle condizioni ambientali? E’ quanto si è chiesto un folto gruppo di ricercatori, impegnati nello sforzo di fotografare i pattern di attività di oltre 400 specie sparse nei sei continenti. Un grosso progetto di ricerca il loro, il Global Animal Diel Activity Project, di cui raccontano nel dettaglio sulle di Science Advances.

    Focus

    Biodiversità e genetica: cos’è il “Cali Fund” e perché è uno strumento per la giustizia ambientale

    di Giacomo Talignani

    26 Febbraio 2025

    Lo scopo del lavoro, raccontano, era fare una sorta di censimento delle attività nel corso delle 24 ore delle diverse specie, allo scopo di verificare e integrare gli studi disponibili fino adesso. Non solo. L’intenzione dichiarata era anche di capire quale livello di plasticità gli animali mostrassero nei confronti di un ambiente che, anche per mano umana, è in continuo cambiamento. Un lavoro complesso. Sono state raccolte e analizzate quasi 9 milioni di immagini catturate da fototrappole piazzate in 20 mila diversi siti. Grazie a questa collezione di dati è stato possibile capire qualcosa di più sulle preferenze degli animali in fatto di pattern di attività durante il giorno e sulla loro capacità di adattamento alle condizioni variabili.

    Cambiato il modo di studiare gli animali
    Ecco cosa hanno scoperto i ricercatori. Il primo dato interessante che emerge dal lavoro è che la letteratura in materia è in disaccordo con quanto osservato. “Abbiamo osservato solo il 39% di concordanza tra i nostri risultati e le classificazioni di riferimento, il che suggerisce ulteriormente che dobbiamo rivalutare le attività delle specie durante la giornata per comprendere appieno la loro nicchia e come conservarle in un mondo antropogenico”, spiegano i ricercatori. Perché queste discrepanze con quanto osservato in passato? Forse, puntualizzano i ricercatori, il modo di studiare gli animali è cambiato e forse anche il comportamento degli animali è diverso a seconda di dove vivono oppure è cambiato rispetto al passato. Un’altra ipotesi è che sia semplicemente più sfaccettato di quanto abbiamo creduto fino adesso. Infatti nella loro rivalutazione, continuano gli autori, è emerso anche un altro aspetto: le specie sono più flessibili delle etichette loro date e non di rado mostrano più di un tipo di attività.

    L’orologio interno dei mammiferi

    Ma c’è di più. I fattori ambientali, tanto quelli naturali quanto quelli influenzati dalla nostra specie, sono legati ai pattern di attività delle diverse specie, così come la massa degli animali e il loro areale di distribuzione. Qualche esempio citato dai ricercatori: è più facile che un animale piccolo sia notturno rispetto a uno più grande, e specie più lontane dall’equatore tendono a essere più diurne e crepuscolari più che notturne, o ancora specie che hanno un grosso areale di distribuzione sono spesso catemerali (ovvero hanno pattern multipli di attività durante il giorno). I ricercatori hanno anche osservato che al variare di alcuni di questi fattori, può variare anche la tipologia di attività degli animali della stessa specie. Tra i fattori in grado di modificare l’orologio interno dei mammiferi figura anche l’influenza umana: dove era più forte, gli animali tendevano a diventare più notturni. Tendenza piuttosto chiara per alcuni, quali un tipo di lepre, la moffetta e il maikong (un canide), ma poteva succedere anche il contrario, ovvero che animali notturni sotto la spinta dell’uomo diventassero più diurni. Può succedere di tutto.

    Biodiversità

    Più alberi, meno cervi rossi: i benefici del ritorno dei lupi in Scozia

    di redazione Green&Blue

    17 Febbraio 2025

    Un certo livello di adattamento può essere utile a volte, ricordano gli autori, ma è bene tenere a mente e studiare quelli che potrebbero essere gli effetti. Dal momento che stiamo parlando del modo in cui gli animali si cibano, competono con gli altri e si riproducono, vanno avanti gli esperti. “Mentre il mondo sta vivendo un periodo di rapidi cambiamenti ambientali, molte specie stanno cambiando i loro pattern di attività con conseguenze sconosciute sulla loro fitness – scrivono in chiusura del loro articolo – le specie che non stanno cambiando i loro fenotipi di attività potrebbero incorrere in risultati peggiori sulla fitness essendo inflessibili sotto questo aspetto. Riconoscere le conseguenze sulla fitness della plasticità del tipo di attività giornaliera delle specie e della sua mancanza è un passo importante per comprendere gli impatti del cambiamento ambientale e può aiutare a indirizzare gli sforzi di conservazione”. LEGGI TUTTO

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    Scout Park, l’app che trasforma i cittadini in vigilantes della sosta

    Il problema del parcheggio selvaggio è una frustrazione comune per molti automobilisti di tutto il mondo. In Svezia, un’idea innovativa ha preso piede per affrontare questo problema, combinando tecnologia e senso civico in un’unica soluzione. L’app ScoutPark non solo consente agli utenti di segnalare parcheggi irregolari, ma prevede una ricompensa economica.
    Come funziona
    Semplice da usare, consente di segnalare diverse violazioni, come il parcheggio in zone vietate, l’occupazione di spazi riservati senza permesso. Per utilizzarla, bisogna avere almeno 16 anni, una tessera sanitaria e un numero di telefono svedese.
    Avvenuta la registrazione, l’app istruisce l’utente sulle regole in vigore nelle varie zone della città, rilevabili attraverso una mappa integrata. Selezionata la zona d’interesse e lette le specifiche regole stradali, l’utente una volta individuata la vettura parcheggiata male, dovrà scattare una foto con la targa ben visibile e caricarla sull’app.

    Ambiente

    San Francisco in testa alla classifica della mobilità sostenibile. Indietro le italiane

    di Giulia Cimpanelli

    10 Febbraio 2025

    La verifica
    Dopo avere aggiunto il tipo di violazione, l’app propone tre opzioni: parcheggio non permesso, nessun permesso, mancanza di disco orario. L’immagine, geolocalizzata dal sistema, viene inviata alle forze dell’ordine, a cui spetta il compito di verificare la veridicità della segnalazione e a quel punto far scattare la contravvenzione.

    Se la segnalazione è confermata, l’utente riceve una ricompensa in tempo reale sul proprio conto di 50 corone svedesi, circa 4,30 euro. A conti fatti, segnalando anche un solo veicolo al giorno, un cittadino potrebbe guadagnare più di 120 euro al mese. L’applicazione, inoltre, fornisce agli utenti una guida sulle regole relative al parcheggio in vigore nelle varie zone della città in cui ci si trova. LEGGI TUTTO

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    Nell’Artico trovata una pianta che normalmente cresce in ambienti più caldi

    L’Artico sta diventando sempre più verde. La tundra, la tipica vegetazione delle zone polari artiche è in rapida espansione, non da oggi ma a partire dall’inizio dello scorso secolo. Non solo. Si espande a una velocità senza precedenti. Il fenomeno si chiama “greening” e a svelarlo è una nuova ricerca basata per la prima volta sull’uso dei marcatori vegetali. Un approccio considerato dai ricercatori innovativo e che ha permesso di svelare la storia del “greening artico”, fornendo una risposta sul modo in cui la tundra sta mutando in base ai cambiamenti climatici e sulle possibili evoluzioni future degli ecosistemi polari.
    Quella sottile linea verde
    Dunque lo studio si è basato sull’analisi dei sedimenti marini delle Isole Svalbard, in Norvegia grazie ai quali è stata ricostruita la storia dei ghiacciai e dello sviluppo della tundra negli ultimi 6 secoli. Il team di scienziati è stato coordinato dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), in collaborazione con Alfred Wegener Institute, Helmholtz Center for Polar and Marine Research e Joint Research Center Eni Cnr. Lo studio rientra nell’ambito dei progetti PAIGE (Chronologies for Polar Paleoclimate Archives – Italian-German Partnership).

    Biodiversità

    Ecco perché la pelliccia degli orsi polari non si ghiaccia mai

    di Simone Valesini

    31 Gennaio 2025

    Secondo la ricerca, che ha ricevuto per le foto la copertina della rivista Nature Communication Earth & Environment, il fenomeno dell’inverdimento dell’Artico sarebbe strettamente legato al ritiro dei ghiacciai. “Ed è la prima volta che viene ricostruito il collegamento tra la riduzione del ghiaccio marino, il ritiro dei ghiacciai con l’incremento dell’areale della vegetazione delle Svalbard”, ha spiegato Tommaso Tesi ricercatore del Cnr-Isp e coordinatore dello studio. Le risposte sono state chiare.

    Un declino partito dai primi decenni del Novecento
    “Il drastico declino dell’estensione del ghiaccio marino registrato a partire dai primi decenni del ‘900 – ha spiegato ancora Tommaso Tesi – è coinciso con un incremento della vegetazione terrestre, suggerendo una forte espansione della tundra nelle aree precedentemente occupate dai ghiacci”. Inoltre, “i risultati dimostrano come la rapida espansione della tundra abbia avuto un picco massimo intorno agli anni ’90 del secolo scorso, in concomitanza con l’accelerazione del riscaldamento globale”.

    Le dinamiche del greening
    Lo studio ha anche permesso di ricostruire le dinamiche dell’inverdimento che ha determinato anche un cambiamento nella composizione delle comunità vegetali. “Attraverso l’analisi di firme chimiche da un archivio sedimentario marino prelevato alle latitudini estreme delle Isole Svalbard, in Norvegia, abbiamo individuato segnali riconducibili a un importante cambiamento nella copertura della tundra durante la transizione climatica registrata tra la Piccola Età del Ghiaccio (1400-1900 d.c.) e gli ultimi 100 anni in concomitanza con l’attuale riscaldamento di origine antropica”, spiega Tommaso Tesi.

    Crisi climatica

    La Groenlandia si scioglie sempre di più

    di Fiammetta Cupellaro

    03 Febbraio 2025

    Nella tundra vive una pianta “anomala”
    “Inizialmente le superfici terrestri emerse dall’arretramento dei ghiacci sono state colonizzate da muschi e licheni, tipici della tundra. Successivamente, con il progressivo accumulo di materia organica e il miglioramento delle condizioni del suolo, hanno iniziato a insediarsi anche le piante vascolari (piante con radici, fusto e foglie)”, ha detto Gianmarco Ingrosso, ricercatore dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Cnr e primo autore dello studio “Tra le specie vegetali che sembrano beneficiare maggiormente del nuovo assetto climatico, un ruolo di primo piano è svolto da Salix polaris, una piccola specie arbustiva adattata a condizioni più miti, che sta gradualmente aumentando il suo areale di distribuzione”.
    L’equilibrio ecologico dell’Artico
    Un quadro complesso che solleva nella comunità scientifica di riferimento importanti interrogativi sull’equilibrio ecologico dell’Artico. “Se da un lato l’aumento della copertura vegetale potrebbe favorire il sequestro di carbonio atmosferico, dall’altro un cambiamento così drastico delle aree precedentemente occupate dai ghiacciai potrebbe portare a conseguenze significative sui cicli biogeochimici e sull’areale di distribuzione della fauna autoctona”, concludono i ricercatori del Cnr. “Inoltre, la fusione del permafrost, accelerata dall’aumento della temperatura, potrebbe rilasciare nell’atmosfera grandi quantità di gas serra, vanificando i benefici derivanti dall’incremento della biomassa vegetale. In questo caso, la crescita della vegetazione in Artico e un ambiente sempre più ‘verde’ rappresentano un serio campanello di allarme per i fragili ecosistemi polari”. LEGGI TUTTO

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    Imballaggi superflui, una startup crea scatole su misura

    “Il rifiuto migliore? È quello che non si produce”. Questo è il mantra di Voidless, startup milanese fondata nel 2022 da tre ingegneri under30: Carlo Villani, Mattia Bertolani, e Daniel Kaidanovic. L’azienda, partita da un garage accanto al Politecnico di Milano, oggi progetta e costruisce macchinari industriali di nuova generazione che creano imballaggi su misura direttamente nei magazzini. L’obiettivo è quello di ridurre il consumo di cartone, materiali di riempimento e di ottimizzare i trasporti. Abbattendo il fenomeno dell’overpackaging connesso all’espansione dell’e-commerce: “Ricevere pacchi grandi è un’esperienza sempre più comune e frustrante per il consumatore, che crea danni reputazionali al venditore e ambientali in termini di produzione di rifiuti e CO2 evitabili. Siamo convinti che una gestione più intelligente del packaging non solo riduca l’impatto ambientale, ma crei anche valore per le aziende, rendendo i loro processi più snelli ed efficaci”, ci racconta il co-fondatore e Ceo di Voidless, Carlo Villani.

    Nel dettaglio, i sistemi innovativi proposti da Voidless rappresentano una soluzione all’avanguardia per ogni tipo di magazzino, offrendo la possibilità di creare, in tempo reale, scatole della dimensione perfetta per qualsiasi oggetto da spedire. “L’integrazione di questa tecnologia permette agli operatori logistici di produrre internamente le scatole, eliminando la necessità di acquistarle da fornitori esterni. Questo processo riduce l’impatto ambientale, aumenta la flessibilità e semplifica il processo di approvvigionamento, ma offre anche la possibilità di personalizzare ogni singola scatola con messaggi o loghi specifici, una leva strategica fondamentale per il marketing moderno”.

    Scatole su misura. Come funziona il sistema
    Scatole su misura. E’ questo l’obiettivo di Voidless, nata per migliorare e rendere più efficiente il packaging nei magazzini, dove la gestione delle scatole standard è attualmente costosa e complessa, richiedendo l’ordine, lo stoccaggio e il coordinamento di diversi formati. L’idea, nasce dell’inventiva di tre ingegneri, si tratta di un sistema di packaging on-demand all’avanguardia (con sei brevetti), gestito da un algoritmo proprietario che consente la produzione in tempo reale di scatole (just in time) su misura per ogni ordine. Non solo, queste ultime possono essere arricchite in maniera totalmente automatica da un branding personalizzato, da eventuali grafiche o QR code. La missione di Voidless è risolvere il problema dell’over-packaging, un fattore che incide pesantemente sull’ambiente e sui costi operativi delle aziende.

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