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    Ogni anno 1,5 tonnellate di cibo passano dalla tavola alla discarica

    Ogni anno nel mondo 1,5 miliardi di tonnellate di cibo passano direttamente dalla tavola alla discarica: circa un terzo della produzione alimentare globale non verrà mangiato ma gettato. E mentre così tanto cibo viene sprecato, 673 milioni di persone soffrono la fame, l’8,2% della popolazione mondiale, di cui il 20,2% in Africa e il 6,7% in Asia. Non solo. 2,3 miliardi di persone vivono in condizioni di insicurezza alimentare, senza accesso garantito a un’alimentazione sufficiente. Ma lo spreco e le perdite alimentari non sono solo un problema etico e sociale, hanno un impatto devastante sull’ambiente: sono responsabili di quasi il 10% delle emissioni globali di gas serra, 5 volte di più di quelle generate dall’aviazione.
    Miliardi di ettari coltivati per cibo che verrà buttato
    Basta pensare che il 28% dei terreni agricoli – 1,4 miliardi di ettari – viene utilizzato per produrre cibo che non verrà mai mangiato. È una superficie pari a 4 volte l’intera Unione Europea. E un quarto dell’acqua dolce utilizzata in agricoltura viene sprecato nella produzione di alimenti che finiranno nella spazzatura: si tratta di circa 250 km³ di acqua, l’equivalente del fabbisogno idrico annuo dell’intera popolazione mondiale. Dati che non lasciano spazio a dubbi quelli presentati oggi del nuovo report dell’Osservatorio Waste Watcher International in vista del 29 settembre 2025, Giornata Internazionale della Consapevolezza delle Perdite e degli Sprechi Alimentari istituita dalle Nazioni Unite giunta alla sesta edizione.

    Consumi

    La crisi del clima fa impennare i prezzi del cibo: verdure, olio e riso fino al 70% in più

    a cura della redazione di Green&Blue

    22 Luglio 2025

    Italiani spreconi
    Monitorato anche il comportamento degli italiani nel mese di agosto 2025, attraverso l’indagine promossa dalla campagna pubblica Spreco Zero con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari dell’università di Bologna. Nel nostro Paese si stima che ogni anno circa 6,7 tonnellate di cibo venga buttato. Una montagna di alimenti che finisce in discarica e che provoca 5,5 milioni di tonnellate di emissioni di Co2. Nel dettaglio comunque guardando il report di Waste Watcher International, l’Italia segna comunque un miglioramento anche se ancora adeguato ad arrivare al traguardo dei 369,7 grammi di cibo sprecato settimanalmente previsto entro il 2030.

    Consumo sostenibile

    Spreco alimentare: le strategie di 21 scienziati per salvare un’area più grande dell’Africa

    di Pasquale Raicaldo

    20 Agosto 2025

    Conservazione sbagliata del cibo, spesa senza una pianificazione, poca attenzione alla data di scadenza, gli italiani sembrano ancora tenere in poca considerazione la possibilità di evitare eccedenze oppure conservale, condividerle o donale. Così secondo il rapporto che ha monitorato il comportamento di migliaia di italiani ad agosto ogni settimana sono finiti tra i rifiuti 555,8 grammi. Meglio, rispetto a quanto accaduto nell’agosto 2024 dove la quantità di cibo buttato era di 683 grammi. Ci sono comunque delle differenze: la percentuale scende in modo significativo nell’area centrale del Paese, diventata la più virtuosa con “soli” 490,6 grammi, mentre a nord si sprecano mediamente 515,2 grammi di cibo ogni 7 giorni, e al sud il dato si impenna con 628,6 grammi a settimana.

    Sostenibilità

    Lotta allo spreco alimentare: le associazioni che aiutano a recuperare il cibo

    04 Febbraio 2024

    La hit dei prodotti che diventano rifiuti
    Più virtuose le famiglie con figli, che abbassano la soglia di spreco del 17% rispetto alle famiglie senza figli (+ 14 %) e più virtuosi i grandi comuni (-9%) di quelli medi (+ 16%). Nella hit dei cibi sprecati la frutta fresca (22,9 g), la verdura fresca (21,5 g) e il pane (19,5 g), segue l’insalata (18,4 g) e cipolle/tuberi (16,9 g). Spiega il direttore scientifico di Waste Watcher, l’agroeconomista Andrea Segrè, fondatore della campagna Spreco Zero: “Le pressioni economiche, in particolare l’inflazione che questa estate ha colpito fortemente i generi alimentari (+ 3,7%) possono aver suggerito alle famiglie acquisti più ponderati e una maggiore attenzione alla prevenzione degli sprechi.

    Agricoltura

    La crisi climatica rende i raccolti imprevedibili

    a cura della redazione di Green&Blue

    04 Settembre 2025

    Le app per orientarci
    L’utilizzo di strumenti semplici e mirati, come la app Sprecometro, permette di attivare trasformazioni comportamentali durature, contribuendo a consolidare comportamenti virtuosi: quindi un percorso concreto verso la riduzione del 50% dello spreco alimentare entro il 2030. Trasformazione “strutturale” è anche l’atteggiamento dei cittadini nei confronti dello spreco. La sfida dei prossimi anni sarà rafforzare questa tendenza, affinché il traguardo del 2030 non resti un auspicio, ma diventi un risultato condiviso”.
    Spreco e cambiamento climatico
    Più di 1 cittadino su 3 (il 37%) ritiene utile puntare sui prodotti made in Italy nell’attuale contesto di guerre e tensioni internazionali, ma anche di crisi dei dazi. Una tendenza particolarmente marcata tra le persone di età compresa tra i 35 e i 44 anni e tra gli over 64, con una concentrazione significativa nel Centro Italia. E ancora: 1 su 10 privilegia semplicemente i prodotti più economici, a prescindere dalla loro sostenibilità, mentre il 5% ha direttamente ridotto la spesa alimentare per ragioni economiche, percentuale che raddoppia negli under 25.
    Un italiano su 5, ovvero il 22%, afferma di preferire prodotti locali e a chilometro zero, soprattutto nel Mezzogiorno. Il dato interessante è che una parte consistente della popolazione (20%) non ha modificato le proprie abitudini d’acquisto, dichiarando che le scelte alimentari restano indipendenti dal contesto internazionale. Due italiani su 3 (66%) hanno aumentato o conservato molto alta l’attenzione all’ambiente e ai comportamenti sostenibili. E 1 italiano su 2 dichiara di prestare maggiore attenzione all’impatto ambientale dei prodotti alimentari che acquista nel tempo della crisi climatica: il 17% degli italiani, però, dichiara di non aver modificato i suoi comportamenti perché “non ritengo che ci sia alcun legame tra la crisi climatica e temperature anomale”.

    Tutorial

    Dall’acquisto alla cottura: i consigli antispreco per i surgelati

    di Paola Arosio

    06 Marzo 2025

    Si deve migliorare
    Le temperature elevate dell’estate 2025 hanno avuto un impatto diretto e concreto sui comportamenti alimentari degli italiani: per fronteggiare la crisi climatica in rapporto allo spreco del cibo, 1 italiano su 2 (45%) cerca di consumare prima gli alimenti più deperibili e 1 su 5 (21%) prova ad aumentare la frequenza di acquisto degli alimenti deperibili oppure di privilegiare l’acquisto di prodotti non deperibili o a lunga conservazione (19%). Solo il 14% dichiara di non aver modificato i propri comportamenti e appena il 6% afferma di non aver percepito alcun impatto delle temperature anomale sulla deperibilità degli alimenti. More

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    Meno emissioni più energia pulita: gli impegni (insufficienti) della Cina

    Un annuncio importante, ma non abbastanza. E’ questa la possibile sintesi dell’intervento (nella serata italiana di ieri) di Xi Jinping all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dopo lo show del presidente statunitense Donald Trump che poche ore prima aveva, tra le altre bordate, affondato le politiche climatiche definendole “una truffa”, tutti gli occhi erano puntati sul […] More

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    Ecco gli alberi che raffreddano di più le città

    Da Madrid a Milano, da Roma a Lisbona, nelle grandi città la colonnina di mercurio sta aumentando sempre di più. Alcuni materiali edili, come asfalto, cemento, mattoni, assorbono il calore durante il giorno, lo trattengono e lo rilasciano lentamente di notte. Pertanto, anche dopo il tramonto, le temperature rimangono elevate, con una differenza sempre più marcata rispetto alle aree rurali, che può raggiungere gli 8 gradi. Una delle soluzioni più efficaci a questo problema sono gli alberi, che non solo forniscono ombra, ma raffreddano anche l’aria attraverso il trasferimento di umidità nell’atmosfera, un processo che gli esperti chiamano evapotraspirazione. Non tutte le piante hanno, però, lo stesso effetto: alcune sono più efficaci di altre nel rinfrescare le aree metropolitane.

    Biodiversità

    Dall’intelligenza artificiale le risposte sulla salute degli alberi di Milano

    di Pasquale Raicaldo

    18 Settembre 2025

    La ricerca spagnola
    Ed è proprio ciò che risulta da un recente studio pubblicato su Building and Environment e condotto dai ricercatori dell’Università di Valencia, in Spagna, che hanno usato sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale per analizzare la temperatura della superficie terrestre. Con le Support vector machines, un tipo di machine learning, hanno ottenuto previsioni molto accurate, con un’affidabilità superiore all’80%. Questo metodo ha consentito di andare oltre il dato generale sul calore e di identificare le specie arboree più idonee a mitigare l’afa. Grazie alle analisi, sono emerse tre varietà in particolare: il cinnamomo cinese (Melia azedarach), che cresce rapidamente e ha foglie grandi e fitte; il fiore d’arancio giapponese (Pittosporum tobira), che è resistente alla siccità e ha una chioma bassa e compatta, ideale per le strade strette; l’olmo (Ulmus minor), che vanta fronde ampie, sebbene il suo impiego sia diminuito a causa della vulnerabilità a malattie come la grafiosi, causata da un fungo.

    L’importanza delle specie autoctone
    “Questi esemplari si adattano bene al clima mediterraneo”, spiega Daniel Jato-Espino, professore di Ingegneria e gestione ambientale dell’ateneo valenziano, oltre che autore del lavoro. “Tuttavia, i primi due provengono dall’Asia, rispettivamente meridionale e orientale, mentre il terzo è autoctono europeo. Ed è importante dare priorità alla piantumazione di specie native, che si adattano meglio all’ambiente locale e presentano minori rischi ecologici negli ecosistemi urbani”.

    Tecnologia

    Dalla Corea del Sud arrivano gli alberi solari, per tutelare le foreste

    di Gabriella Rocco

    16 Settembre 2025

    Anche la posizione conta
    Non si tratta, però, solo di piantare più alberi. Bisogna anche scegliere attentamente il luogo in cui posizionarli. Un albero mal adattato o mal collocato avrà, infatti, un effetto limitato, al contrario metterlo a dimora nel posto giusto può ridurre in modo significativo le temperature nelle aree critiche. Nello specifico, per ottenere impatti su larga scala, gli esemplari devono essere integrati nelle reti verdi del territorio, collegandosi a parchi e giardini. Misure, queste, che migliorano pure la qualità dell’aria, aumentano la biodiversità, riducono il consumo energetico richiedendo meno aria condizionata e possono perfino incrementare il valore delle abitazioni nella zona.

    Salute

    Il 5% in più di alberi nelle città aiuta a prevenire 5mila morti premature all’anno

    a cura della redazione di Green&Blue

    11 Settembre 2025

    Città più vivibili grazie alle piante
    Inoltre, secondo la ricerca spagnola, è utile coinvolgere i cittadini nei progetti di riforestazione, incoraggiando così la cura degli spazi pubblici.

    “Gli alberi sono molto più di un semplice ornamento urbano”, sostiene Jato-Espino. “Sono infrastrutture naturali, in grado di fare la differenza tra una città soffocante e una vivibile. In un contesto di cambiamento climatico, investire negli alberi significa investire nel benessere, nella salute e nella resilienza delle nostre città”. More

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    La minaccia più grande per i pascoli è il riscaldamento globale

    Il sovrapascolo è da tempo considerato un fattore chiave nel degrado dei pascoli, ed è la ragione delle restrizioni sulle dimensioni delle mandrie o delle tasse sul bestiame che in alcuni luoghi possono limitare la capacità dei pastori di guadagnarsi da vivere. Ma un nuovo studio pubblicato su Science della Cornell University indica un’altra variabile: il cambiamento climatico.

    Tecnologia

    Dalla Corea del Sud arrivano gli alberi solari, per tutelare le foreste

    di Gabriella Rocco

    16 Settembre 2025

    Utilizzando quattro decenni di dati dettagliati provenienti dalla Mongolia, dove il 70% del territorio è costituito da pascoli, i ricercatori del Cornell SC Johnson College of Business hanno scoperto che, mentre mandrie più numerose possono ridurre leggermente la produttività dei pascoli di anno in anno, il meteo e il clima hanno un effetto molto maggiore. I risultati hanno implicazioni globali: oltre la metà della superficie terrestre è costituita da pascoli, che nutrono il 50% del bestiame mondiale e sostengono il sostentamento di oltre 2 miliardi di persone.

    “Quando analizziamo attentamente l’equivalente della scala di contea sull’intero Paese, nell’arco di 41 anni, scopriamo che i cambiamenti a lungo termine nelle condizioni dei pascoli sono interamente attribuibili ai cambiamenti climatici”, ha affermato Chris Barrett, professore di economia applicata e gestione e autore principale dell’articolo. Il team di Barrett ha scoperto che i pascoli mongoli sono maggiormente influenzati dai comportamenti collettivi che emettono gas serra in tutto il mondo piuttosto che dai pastori locali. Esortano i responsabili politici a concentrarsi maggiormente sulla mitigazione globale, nonché sul risarcimento internazionale per i danni climatici, e meno sulla tassazione dei pastori in una nazione che contribuisce poco alle emissioni globali di gas serra.

    Lo studio

    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    a cura della redazione di Green&Blue

    23 Settembre 2025

    Il governo mongolo effettua un censimento annuale di fine anno di tutto il bestiame del Paese, quindi a giugno effettua indagini e campionamenti sulla vegetazione dei pascoli per determinarne le condizioni. Sulla base di questa ricca raccolta di dati, nel 2021 il governo ha reintrodotto un’imposta nazionale sul bestiame, volta a indurre una riduzione dei tassi di capienza per far fronte agli impatti negativi percepiti sui pascoli. Il team di Barrett ha utilizzato questi dati insieme a un metodo di analisi statistica in due fasi, utilizzando i dati del censimento delle mandrie a livello di soum (un soum è simile a una contea) insieme agli eventi dzud (tempeste invernali estreme che causano un’enorme mortalità del bestiame) sui pascoli invernali, per prevedere la variazione nelle dimensioni delle mandrie a giugno. Nella seconda fase dello studio, i ricercatori hanno utilizzato le dimensioni previste della mandria per giugno per generare stime causali degli effetti delle dimensioni della mandria e del clima sulla produttività dei pascoli estivi.

    Per distinguere tra clima e variazioni meteorologiche a breve termine, il team ha costruito medie pluriennali di ciascuna variabile e le ha confrontate su periodi di 10 e 20 anni. Analizzando i dati, il gruppo ha scoperto che le dimensioni più grandi delle mandrie hanno un modesto effetto negativo sulla produttività dei pascoli nel breve termine, ma nessun effetto significativo nel lungo periodo. Il clima, e persino le variazioni meteorologiche annuali, hanno avuto un impatto molto maggiore. “Sono rimasto sorpreso dall’entità dell’effetto climatico rispetto agli effetti delle dimensioni delle mandrie, anche nel breve periodo”, ha ammesso: “Anche solo i cambiamenti climatici annuali hanno avuto un effetto circa 20 volte superiore alle dimensioni delle mandrie”. More

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    Un nuovo materiale per padelle antiaderenti senza Pfas

    Dai tessuti impermeabili agli utensili da cucina: le superfici capaci di respingere liquidi e oli sono onnipresenti. E, di conseguenza, onnipresenti sono diventate le sostanze chimiche che conferiscono queste proprietà: i composti perfluoroalchilici, o Pfas. Peccato che i Pfas siano noti per essere agenti chimici perenni, che tendono a rimanere nell’ambiente e ad accumularsi negli organismi viventi, e sembra siano nocivi anche per la salute umana. Nel tentativo di trovare un’alternativa, un team dell’Università di ingegneria di Toronto ha sviluppato un materiale che, sebbene non li sostituisca del tutto, riduce in modo considerevole il loro impiego, risultando quindi più green e salutare. Ecco di cosa si tratta.

    Pfas, difficili da sostituire
    La repellenza all’acqua e all’olio è una caratteristica ricercata in molti ambiti dell’attività umana: serve per rivestimenti protettivi, per i materiali anti-macchia e per le superfici autopulenti utilizzate in campi come l’elettronica, il settore sanitario e quello tessile. I Pfas conferiscono queste proprietà e sono molto difficili da sostituire se non si vuole perdere in prestazioni. Tuttavia, trovare un’alternativa oggi sta diventando una necessità. Diversi Paesi, compresa l’Unione europea, infatti, hanno ristretto l’utilizzo di Pfas, in particolare di quelli a catena lunga, considerati i più pericolosi.

    Ricerca

    Olio di semi di cotone per tessuti idrorepellenti senza Pfas né formaldeide

    di Sara Carmignani

    21 Agosto 2025

    Un “pennello” repellente
    Il lavoro del team di Toronto si è concentrato proprio sulla ricerca di un nuovo materiale che risultasse ugualmente efficace ma più sicuro. L’attenzione è ricaduta sul polidimetilsilossano (Pdms), un materiale a base di silicone, già noto per la sua biocompatibilità e infatti impiegato anche per la realizzazione di dispositivi medici. Il problema è che, così com’è, il Pdms non può competere con le prestazioni dei Pfas.

    Per superare questo limite, i ricercatori canadesi hanno ideato un metodo originale chiamato nanoscale fletching. Questa tecnica consiste nel creare una struttura superficiale simile a setole microscopiche di brevi catene di Pdms, a ciascuna delle quali viene poi attaccata una molecola di Pfas a catena molto corta, costituita da appena un atomo di carbonio e tre di fluoro. La disposizione su scala nanometrica ricorda le piume stabilizzatrici poste sulla coda di una freccia, da cui deriva il nome della tecnica.

    Salute e ambiente

    Pfas nel vino 100 volte superiori rispetto all’acqua potabile

    di Paola Arosio

    30 Maggio 2025

    Performance elevate e rischio ridotto
    Per convalidare la loro scoperta, il gruppo ha ricoperto un tessuto con il nuovo materiale ibrido e vi ha versato sopra diversi oli, raggiungendo un punteggio di 6 sulla scala di valutazione dell’American Association of Textile Chemists and Colorists – un risultato equivalente a quello conseguito da molti rivestimenti standard basati su Pfas.

    È vero, non ci si è liberati del tutto dei Pfas, ma secondo gli esperti le catene chimiche impiegate sono così corte da non avere lo stesso potenziale di accumulo negli ambienti e negli organismi. Il rischio, insomma, sarebbe nettamente più basso rispetto ai materiali antiaderenti tradizionali.

    Questo nuovo materiale ibrido, secondo i suoi ideatori, può rappresentare un avanzamento fondamentale per i settori industriali che mirano a eliminare gli elementi chimici tossici mantenendo alti standard prestazionali. L’équipe è disponibile a collaborare con i produttori per commercializzare il processo e sta già studiando opzioni ancora più sicure. L’obiettivo finale è sviluppare un materiale che superi le prestazioni del teflon ma sia completamente privo di Pfas. More

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    “La giustizia climatica è un obbligo giuridico, non un principio politico”

    “Disinvestire dalla guerra – Investire nella transizione giusta!”. È questo il motto che ha accompagnato la Settimana di azione globale per la Pace e la Giustizia Climatica, rilanciata in Italia dalla Rete Italiana Pace e Disarmo. Un appuntamento che ha riunito reti pacifiste, ambientaliste, associazioni, giovani e comunità locali, nato dalla consapevolezza che pace e clima sono due dimensioni inscindibili della stessa sfida. E tra le voci emerse, una è diventata sempre più urgente: la giustizia climatica non è solo un principio politico. È un obbligo giuridico.

    Il parere della Corte Internazionale di Giustizia
    A sancirlo, lo scorso luglio, è stato il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite: gli Stati hanno l’obbligo legale di agire per prevenire i danni del cambiamento climatico, proteggere i diritti fondamentali e cooperare attivamente per la mitigazione della crisi. Un principio che, secondo l’avvocato Daniele Marra, esperto di diritto della salute ambientale, si innesta pienamente nel nostro ordinamento. “L’articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale considera la consuetudine tra le fonti giuridiche vincolanti” spiega Marra. “E se è vero, ed è vero, che una consuetudine si forma attraverso una pratica costante e la convinzione che sia obbligatoria, allora l’obbligo di difendere il clima esiste da tempo”. Il parere della Corte sottolinea, ad esempio, che l’impegno a ridurre le emissioni previsto dal Protocollo di Kyoto — pur riferito al periodo 2013/2020 — continua ad avere effetto giuridico. “L’assenza di un nuovo periodo temporale” si legge nel testo, “non priva quel trattato della sua validità legale”.

    Ambiente

    Gli attivisti esultano per la sentenza della Corte dell’Aja: “Trionfo per la giustizia climatica”

    24 Luglio 2025

    Le radici dell’obbligo dello Stato
    Secondo Marra, il parere mostra chiaramente come le norme sul clima si siano stratificate nel tempo, fino a delineare un obbligo vero e proprio per gli Stati. Dalla Conferenza ONU di Stoccolma del 1972 al Rapporto Brundtland del 1984, fino alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite del 1992 e l’Accordo di Parigi del 2015 emerge un dovere di cooperazione e un’obbligazione di risultato: garantire ai cittadini un ambiente salubre. “È evidente la presenza dei due elementi che definiscono una norma consuetudinaria” osserva Marra. “La pratica costante degli Stati e la convinzione della sua obbligatorietà. Questo rende l’obbligo di difendere il clima vincolante, anche in assenza di un trattato formale”. È un dovere che prevale perfino sulla sovranità statale, come dimostra un caso del 1941 tra Canada e Stati Uniti: lì, una sentenza arbitrale stabilì per la prima volta che nessuno Stato può usare il proprio territorio in modo da danneggiare un altro Stato. “Già allora, si riconosceva l’obbligo di agire contro l’inquinamento transfrontaliero, riducendo la sovranità del singolo stato inquinante” aggiunge.

    La legge del clima è già scritta
    Oggi, quel principio vale anche per la crisi climatica e può e deve essere fatto valere anche nei tribunali italiani. “I magistrati hanno già oggi le basi giuridiche per riconoscere l’obbligo dello Stato a difendere il clima come parte del diritto consuetudinario, e dunque pienamente applicabile, anche in Italia. Lo prevede l’articolo 10 della nostra Costituzione, che impone il rispetto delle norme internazionali generalmente riconosciute”. Anche la giurisprudenza nazionale si sta muovendo in questa direzione. Con l’azione nota come Giudizio Universale, lo Stato italiano è stato portato in tribunale per inazione climatica. Recentemente, nella causa intentata da Greenpeace e ReCommon contro ENI e altri soggetti pubblici e privati — la cosiddetta Giusta Causa — la Corte di Cassazione ha riconosciuto, nel luglio 2025, che è possibile promuovere azioni civili contro comportamenti che violano obblighi climatici internazionali. Un precedente che potrebbe aprire le porte a un contenzioso strutturato anche in Italia. “Se il diritto a un ambiente salubre è già riconosciuto sia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sia dall’articolo 37 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, allora già oggi i giudici italiani possono applicare quel principio, riconoscendo che lo Stato ha il dovere giuridico di proteggere il clima” ribadisce l’avvocato romano. La giustizia climatica, insomma, non è più un’utopia. È un obbligo che ha già varcato le soglie dei tribunali. Ora, chiede solo di essere applicato. More

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    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    Entro il 2100 il rischio di gravi carenze idriche dovute ai cambiamenti climatici interesserà quasi tre quarti (74%) delle regioni soggette a siccità. Lo rivela una ricerca pubblicata su Nature Communications. Si tratta della prima stima pubblicata di questo tipo. Gli autori riportano che in questo decennio e nel prossimo emergeranno probabilmente focolai di scarsità […] More

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    I ghiacciai italiani pieni di contaminanti e metalli pesanti, che finiscono nei fiumi e in mare

    Per decenni abbiamo congelato i nostri “problemi” ma adesso, per via del surriscaldamento generato dalle nostre stesse attività, stanno per essere “liberati”. I ghiacciai italiani sono infatti pieni di contaminanti: metalli pesanti, DDT, PCB e inquinanti vari sono rimasti congelati negli anni sulle vette ma la crisi del clima che pone gli stessi ghiacciai sempre più in sofferenza oggi amplifica il rilascio di queste sostanze destinate ad arrivare fino ai fiumi e poi ai mari, impattando direttamente sugli ecosistemi da cui dipendiamo.

    Cambiamento climatico

    Alaska, il ghiacciaio si scioglie e emerge una nuova isola

    di Fiammetta Cupellaro

    18 Settembre 2025

    La prima mappa su ampia scala dello stato di contaminazione dei ghiacciai italiani è stata realizzata dall’Università Statale di Milano insieme a One Ocean Foundation che in un articolo pubblicato sulla rivista Archives of Environmental Contamination and Toxicology mettono proprio in evidenza lo stato di inquinanti e la connessione fra sistemi montani e marini.

    Finora, hanno ben documentato gli scienziati in tutto il mondo, i ghiacciai globali hanno mostrato caratteristiche di sofferenza comune: stanno arretrando, diventano più scuri e meno riflettenti e accelerano, con la fusione la perdita delle riserve idriche di ogni Paese aumentando così parallelamente l’innalzamento del livello dei mari. Un nuovo rischio però, ricorda la ricerca italiana, è alle porte: lo scioglimento può infatti comportare il rilascio di tutta una serie di sostanze inquinanti – soprattutto di natura antropica – che sono rimaste congelate per lunghissimo tempo. More