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    Green deal europeo: giusto il fine, da rivedere mezzi e modalità

    Che qualcosa sia da correggere è ormai evidente. Ma la strada è stracciata e non si può tornare indietro. È quanto emerge dal dibattito sul Green Deal europeo dal titolo “Transizione green, investimenti e strategie”, organizzato da Adnkronos. Esperti, rappresentanti del Governo, delle istituzioni e del mondo imprenditoriale hanno cercato di rispondere alle domande più urgenti su come cambiano le politiche nazionali per consentire una migliore ed armonica attuazione del Green Deal, sullo stato dell’arte del processo di transizione ecologica, sul contributo delle aziende nel contrasto al cambiamento climatico.

    Tanti ancora i punti da sviluppare e molte le incertezze sollevate dai Governi di alcuni stati che sono in ritardo nell’adozione di politiche e iniziative legislative in linea con quanto indicato dalla Commissione UE. L’obiettivo finale di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 è irrinunciabile. Ma a che punto siamo? E soprattutto cosa resta del Green Deal europeo?

    La cronaca degli ultimi giorni che ha registrato il dissenso di una parte dell’industria automotive e le proteste dei lavoratori rappresenta un primo e importante segnale di quanto la visione ottimistica europea non corrisponda pienamente alle singole realtà nazionali, sia a livello politico sia a livello industriale. E una conferma, seppure non con valore statistico, arriva anche da una rilevazione effettuata da Adnkronos tra i propri utenti web e social: per il 65% il Green deal europeo andrebbe addirittura eliminato, per il 23% migliorato e solo per il 12% è una priorità. Dati rafforzati dalla percezione, secondo il 75% degli utenti intervistati, che così come viene realizzata la transizione danneggia l’economia (75%). Per fare qualche esempio specifico, sull’acquisto delle auto elettriche, il 46% segnala il costo ancora elevato e il 38% la carenza di colonnine per la ricarica. Se è vero che sui social si avverte spesso una polarizzazione verso risposte negative, è altrettanto vero che il dibattito sull’argomento in Italia è molto acceso. Come dire, “il sogno” che si scontra con la realtà e che richiede interventi correttivi.

    Enrico Giovannini, direttore scientifico ASviS, ha parlato dell’Agenda 2030 e degli obiettivi da raggiungere: “Tra pensieri, parole e azioni c’è una divergenza piuttosto impressionante. L’Italia purtroppo non sta facendo quello che i ministri ci hanno detto. Il Piano strutturale di Bilancio avrebbe dovuto definire riforme e investimenti su 5 temi: transizione digitale ed ecologica, attuazione della legge europea sul clima, pilastro sociale dei diritti europeo, resilienza economica e sociale, difesa. Nel Piano strutturale di bilancio c’è poco di tutto questo”.

    “Qual è la vera prospettiva che l’Italia vuole conseguire?, si chiede Giovannini, aggiungendo: “La paura è che l’idea sia quella di ridiscutere questi obiettivi, sia al 2030 sia al 2050”. Le risorse per proseguire nel lavoro verso gli obiettivi, ragiona Giovannini, “si possono trovare: ci sono 30 miliardi di sussidi all’anno dannosi per l’ambiente che il governo si è impegnato a smantellare nei prossimi anni”. Quanto al Green Deal europeo, Giovannini chiarisce: “Il green non è stato toccato di una virgola, c’è tutto e lotta insieme a noi. L’approccio ideologico non è mai esistito. E’ sempre stato pensato non come una politica ambientalista ma come una politica di sviluppo economico”.

    Stesse preoccupazioni sono state espresse anche dai rappresentati del Governo intervenuti al convegno: il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin ha introdotto la strategia del Governo: “L’attenzione del governo è su più fronti: il lavoro in corso sui settori in cui è più difficile carbonizzare, gli incentivi per le CER, l’avanzamento delle misure al PNRR e diverse altre azioni normative semplificatorie. Sono convinto che il rinnovamento delle istituzioni europee ci permetterà di affrontare con maggiore pragmatismo anche quelle norme del green deal che si sono dimostrate molto ma molto sbilanciate”.

    “L’Italia non ha mai lavorato per distruggere – ha precisato il ministro Fratin – Ha voluto piuttosto migliorare, anche riuscendo, direttive e regolamenti che rischiano di lasciare indietro interi settori dell’economia. Non c’è più posto in Europa per approcci che non tengano conto di quelle che sono le evidenze scientifiche e di contesti nazionali differenti tra i 27 paesi europei. Credo che su questa linea si possa lavorare nel nuovo parlamento, nella commissione e consiglio europei. Come già fatto al G7 clima, energia e ambiente così a COP 29, che si apre tra pochi giorni, porteremo con responsabilità la voce del sistema paese espressione di valore e di eccellenza”.

    Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, ha spiegato che “in questa fase, sul settore automotive, insieme alla Repubblica Ceca, il nostro Paese si è fatto promotore di un non paper che sarà presto discusso in Commissione al fine di riesaminare le modalità che porteranno allo stop ai motori endotermici nel 2035. La transizione deve esserci ma occorrono le condizioni per raggiungerla. Il processo va sostenuto con una forte immissione di risorse pubbliche a oggi fuori dalla portata dei bilanci pubblici non solo dell’Italia ma di tutti i Paesi europei. Non solo: serve un approccio basato su evidenze empiriche e non su posizioni ideologiche, che guardi con favore alla neutralità tecnologica e all’inserimento dei biocarburanti tra le modalità per raggiungere l’abbattimento di CO2. Per questo chiediamo di anticipare alla prima metà del prossimo anno il Rapporto di valutazione previsto per fine 2026”.

    “Il Governo – ha concluso il ministro Urso – è consapevole che l’obiettivo della decarbonizzazione non può essere messo in discussione, ma occorre un confronto aperto su quale sia la modalità corretta per raggiungerlo”. LEGGI TUTTO

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    La startup finlandese che combatte gli incendi con sfere di idrogel

    “Con il cambiamento climatico che aggrava la frequenza e l’intensità degli incendi boschivi, trovare soluzioni che non solo proteggano gli ecosistemi, ma che possano anche contribuire alla loro rigenerazione, è più urgente che mai. Le tecnologie attuali si concentrano principalmente sull’estinzione degli incendi, ma spesso trascurano il danno a lungo termine che viene inflitto agli ecosistemi locali”. A parlare è il team di Aviogel, startup innovativa che combina la protezione immediata della natura con una visione sostenibile per il futuro.

    Incendi

    I roghi sono in diminuzione, ma cresce la superficie bruciata

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    Fondata nel 2024, con sede a Helsinki, da William Carbone, Stéphanie Jansen-Havreng, Sevan Daniel Gerard, Aviogel ha sviluppato una tecnologia per la gestione e il contenimento degli incendi boschivi. Al centro di questa innovazione ci sono le sfere idrogel biodegradabili, progettate per essere rilasciate da mezzi aerei antincendio. Le sfere, a contatto con l’acqua o altri liquidi, li assorbono, aumentando il loro peso e garantiscono così una maggiore precisione nei lanci aerei, anche da altitudini più elevate. Questa caratteristica riduce il rischio per i piloti e rende le operazioni di spegnimento degli incendi più sicure ed efficienti. Con un potenziale in più: la sua capacità di combinare la lotta agli incendi con la rigenerazione immediata delle foreste. Le sfere, oltre ad aiutare a domare le fiamme, rilasciano anche semi e nutrienti, avviando il processo di riforestazione subito dopo l’intervento. In questo modo, ogni intervento aereo non si limita a combattere l’emergenza, ma semina già le basi per la rinascita dell’ecosistema. Inoltre, questa tecnologia riduce problema dell’evaporazione di una parte significativa dell’acqua rilasciata sugli incendi boschivi prima che essa raggiunga il suolo. LEGGI TUTTO

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    Le balene scambiano i rifiuti di plastica per calamari. Una drammatica somiglianza

    Da una parte c’è un palloncino di plastica strappato, poco distante un calamaro. Da cosa è attratta una balena? La risposta può sembrare ovvia, ma purtroppo non lo è. Si, perché questi giganteschi e meravigliosi animali marini, nelle profondità degli oceani dove si immergono e nuotano alla ricerca di cibo, sfruttando una delle loro abilità, affinate nel corso della loro evoluzione, le onde sonore per individuare il cibo di cui nutrirsi. Solo che nel blu dell’oceano, dove non arriva la luce del sole, le due figure su cui rimbalzano le onde sonore emesse dalle balene possono essere molto simili, al punto che il pesce possa decidere di mangiare il palloncino di plastica e non il calamaro. A rivelare questa drammatica somiglianza sono stati i test acustici subacquei condotti dai ricercatori della Duke University, negli Stati Uniti, che hanno mostrato quanto la spazzatura rinvenuta sulla spiaggia – in particolare pellicole e frammenti di plastica – fosse uguale a quella presente nello stomaco delle balene morte.

    Biodiversità

    Riscaldamento globale, aumenta il pericolo di collisioni tra navi e squali balena

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    11 Ottobre 2024

    Ingannate dai segnali acustici
    “Queste firme acustiche sono simili e potrebbe essere il motivo per cui sono portati a consumare plastica al posto delle loro prede”, ha spiegato Greg Merrill che ha guidato la ricerca. Ma in che modo cacciano capodogli, capodogli pigmei e balene dal becco d’oca? I cetacei emettono schiocchi e ronzii da una struttura simile a una corda vocale, vicino ai loro sfiatatoi. I suoni si diffondono nell’oceano dalla struttura bulbosa posta al di sopra della bocca: quando rimbalzano sugli oggetti in acqua e tornano indietro, vengono captati da organi di rilevamento che si trovano nelle mascelle inferiori. A quel punto, passano all’orecchio interno ed infine arrivano al cervello dell’animale che interpreta il segnale. Un sistema che per 25 milioni di anni è stato fondamentale alla sopravvivenza delle balene, e che ora, per colpa della plastica, sta entrando in crisi.

    Inquinamento

    Dal fegato allo stomaco, microplastiche nel 66% delle gazze marine trovate morte nel Tirreno

    di  Pasquale Raicaldo

    02 Ottobre 2024

    Il test acustico
    “Il 100% dei detriti marini di plastica analizzati ha un’intensità acustica simile o superiore a quella delle prede delle balene”, affermano gli autori in un articolo pubblicato sul Marine Pollution Bulletin, e purtroppo come è noto, la quantità di plastica che troviamo nei mari è in crescita, al punto tale da formare vere e proprie isole. Per condurre il test acustico, i ricercatori della Duke hanno raccolto spazzatura di plastica rinvenuta in alcune spiagge di Beaufort e della vicina Atlantic Beach, e hanno messo i campioni di plastica a circa 5 metri di profondità sotto al sonar transponder di una nave per eseguire il test, simulando il passaggio di una balena.
    Sono stati eseguiti diversi test acustici usando tre differenti frequenze sonar, 38, 70 e 120 kilohertz, che coprono la gamma di sonorità utilizzate da diverse specie di balene che nuotano abitualmente a quelle profondità. Per condurre lo studio scientifico in modo accurato hanno analizzato anche il “rumore” emesso dai calamari morti e dai pezzi di becco di calamaro recuperati dallo stomaco di un capodoglio morto.

    Lo studio

    Piccolissimi e sorprendenti: i tardigradi sanno difendersi dalle microplastiche

    Sara Carmignani

    30 Settembre 2024

    Una drammatica somiglianza
    L’esperimento ha dato un risultato drammaticamente sorprendente; i rifiuti in plastica emettevano – quasi sempre – rumori simili a quelli dei calamari, confermando la ragione per cui frammenti di plastica sono sempre più comuni nello stomaco delle balene morte.
    “Esistono centinaia di tipi di plastica e le varie proprietà dei materiali, tra cui la composizione chimica del polimero, gli additivi, la forma, le dimensioni, l’età, l’esposizione agli agenti atmosferici e il grado di incrostazione, svolgono probabilmente un ruolo nelle risposte specifiche in frequenza osservate”, affermano ancora gli autori dello studio della Duke University. Sappiamo che l’inquinamento da plastica è sempre più pervasivo, e l’aumento, purtroppo, continuerà a provocare la morte di questi splendidi e pacifici animali marini. L’unica soluzione che propongono i ricercatori è quella di riprogettare alcune plastiche in modo che non abbiano una firma acustica che inganni le balene, ma non si fanno illusioni. “Non credo che sia davvero un’opzione praticabile, perché poi, se la rete da pesca e la lenza sono invisibili, le balene potrebbero rimanervi impigliate”. LEGGI TUTTO

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    Lewisia, la succulenta che vuole tanto sole e poca acqua

    La lewisia è un genere di pianta erbacea succulenta perenne che appartiene alla famiglia delle montiacee (in passato era classificata tra le portulacacee). Deve il suo nome all’esploratore statunitense Meriwether Lewis, il quale ne ha scoperta l’esistenza. Le origini di questa pianta succulenta sono da ricercare in America Settentrionale. Il suo habitat ideale si trova tanto nelle aree rocciose quanto nelle foreste di latifoglie e conifere degli stati più occidentali dell’America. La lewisia può raggiungere mediamente un’altezza di cinquanta centimetri e, nella maggior parte delle specie, le foglie sono caduche. Esistono comunque delle specie di Lewisia – come la cotyledon – che rientrano tra le sempreverdi.

    Esposizione ideale
    Per la lewisia dobbiamo scegliere senza dubbio un’esposizione in pieno sole. Il luogo ideale in cui mettere a dimora questa pianta deve assicurare un soleggiamento diretto per diverse ore della giornata, indispensabile per la corretta fioritura. Nel suo ambiente naturale, la pianta tende a svilupparsi anche tra le rocce: possiamo quindi sfruttarla per impreziosire i giardini rocciosi, dove le sue radici contribuiscono a prevenire il dilavamento. Può sopportare senza problemi temperature fino a -10 gradi, tuttavia, durante la stagione invernale non deve essere irrigata: ripariamola quindi dalla pioggia.

    Il terreno per coltivare la lewisia
    La lewisia non ha particolari pretese per quanto riguarda la tipologia di terreno. Ricordiamoci però di preferire un terriccio moderatamente fertile, dal pH compreso tra il neutro e l’acido, ma soprattutto con una buona capacità di drenaggio. A questo proposito, per la messa a dimora possiamo miscelare un po’ di sabbia o della ghiaia al terriccio, in modo tale da scongiurare il fenomeno del ristagno idrico a livello radicale, che la pianta non sopporta. Se coltivassimo la lewisia in vaso, ricordiamoci di prevedere la sostituzione del terriccio ad ogni rinvaso.

    Innaffiatura, concimazione e come potare
    Durante la stagione vegetativa, tra la primavera e l’estate, la lewisia richiede innaffiature costanti, con una cadenza quindicinale. In ogni caso, prima di annaffiare la pianta, accertiamoci che il terreno sia ben asciutto, per evitare di provocare del ristagno idrico a livello radicale. Quando la pianta inizia a perdere i fiori (e in seguito le foglie), significa che sta entrando nella fase di riposo vegetativo: in quel momento, dobbiamo sospendere le innaffiature. Per concimare la pianta, possiamo usare un concime granulare a lento rilascio, solo durante la primavera e l’estate. Infine, la lewisia non ha particolari esigenze di potatura: ricordiamoci però di eliminare le foglie secche o danneggiate, per evitare che possano attirare dei parassiti.

    La fioritura della lewisia
    La lewisia regala una bella fioritura durante il periodo compreso tra la primavera e l’estate, con colori che variano in modo notevole tra le specie. Ad esempio, la lewisia cotyledon ha una fioritura tra il rosso-arancione, mentre la specie rediviva ha fiori con una sfumatura dal bianco al violetto. La lewisia longipetala regala invece una caratteristica fioritura rosa salmone e, infine, la nevadensis spicca per il colore bianco dei suoi fiori.

    Malattie e parassiti
    La pianta della lewisia non è particolarmente soggetta all’attacco da parte dei più comuni parassiti. Per contro, quando la lewisia entra nella stagione vegetativa – cioè nel periodo primaverile – dobbiamo accertarci che non sia colpita dalle chiocciole o anche le limacce. Questi molluschi sono soliti cibarsi delle foglie della pianta, che in caso di attacco presentano il classico aspetto bucherellato. Prestiamo molta attenzione alla quantità di acqua che diamo alla lewisia, poiché gli eccessi di irrigazione possono provocare con una certa facilità il fenomeno del marciume radicale, che a sua volta si traduce in molti casi nella morte della pianta. LEGGI TUTTO

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    Ritorno all’ora solare, ma adottare l’ora legale per tutto l’anno porterebbe a benefici per l’ambiente

    Ogni volta che arriva questo periodo dell’anno, soprattutto negli ultimi tempi, ci si continua a interrogare se il cambio dell’ora sia una pratica che al giorno d’oggi ha ancora senso. E soprattutto, se fa bene o meno all’ambiente. Tra sabato 26 ottobre e domenica 27 ottobre, alle tre del mattino, le lancette dell’orologio sono tornate indietro di un’ora: con il passaggio dall’ora legale all’ora solare le giornate si accorceranno via via. L’ora solare resterà tale fino all’ultimo weekend di marzo, poi di nuovo lancette in avanti. Questo cambio, che non esiste in tutto il mondo (per esempio in Africa avviene in pochissime zone, oppure Cina, Giappone e India dopo aver “provato” hanno abbandonato l’idea), si ripete ogni anno in Europa dal 1966 e in Italia dal 1965.

    Da fine ottobre di fatto entreremo nei ritmi dettati dalla luce del sole, mentre finora abbiamo vissuto secondo un orario, quello “legale”, che è frutto della necessità di risparmiare a livello energetico: spostare l’ora in avanti nei mesi primaverili ed estivi consente infatti di ridurre i consumi energetici in media di circa lo 0,2%. In generale, questa pratica non viene utilizzata in molti paesi equatoriali, dove c’è disponibilità di luce e nell’emisfero australe solitamente il cambiamento è opposto al nostro.

    Le differenze stesse fra i 70 Paesi che adottano questo sistema, hanno portato negli ultimi tempi a punti di vista diversi sul cambio d’orario: i paesi Scandinavi per esempio, chiedono all’Europa di abolire il passaggio all’ora solare, dato che lo spostamento – che porta a ulteriore buio prima nella vita quotidiana – ha impatti sullo stato psico fisico dei cittadini.

    Anche negli Usa, dove il passaggio vige da oltre un secolo, ci sono richieste (già prese in carico dai legislatori) di rivedere il meccanismo, mantenendo permanente l’ora legale. In particolare negli States grazie al Sunshine Protection Act, reintrodotto nel 2023, sarebbero i singoli stati a decidere se adottare l’ora solare annuale o l’ora legale.

    Stop al cambio dell’ora: troppi problemi alla salute. La richiesta degli scienziati inglesi

    di Valentina Arcovio

    26 Ottobre 2024

    A seconda dei Paesi, delle regole e ovviamente delle condizioni di luce, da tempo si discute sui pro e i contro del cambio ora: dalla positiva opportunità di dormire più a lungo ai negativi impatti sui bioritmi, oppure semplicemente – dimostra uno studio Usa basato su una raccolta dati di 20 anni – sul fatto che il 6% in più degli incidenti stradali mortali si verifica nella settimana successiva al cambio dell’ora legale.In generale, e anche l’Europa ne sta discutendo con più forza dal 2018, buona parte dei Paesi che considera di modificare il passaggio dell’ora sta pensando di mantenere per sempre quella legale.

    Il perché è soprattutto una questione ambientale e di risparmi energetici e di emissioni. Recenti studi per esempio hanno dimostrato come l’ora legale può ridurre la quantità totale di energia necessaria per raffreddare gli edifici adibiti a uffici in estate di quasi il 6%. Se inizialmente ci si concentrava sull’illuminazione ora – con gli effetti della crisi del clima – come spiegano ricercatori svizzeri bisogna considerare di più il possibile risparmio su condizionatori e impianti di refrigerazione.

    “Gran parte della discussione sull’ora legale si è concentrata storicamente sul risparmio di elettricità derivante dall’illuminazione artificiale – ha detto Sven Eggimann dell’EMPA di Zurigo – tuttavia la domanda di energia per il riscaldamento e il raffreddamento degli edifici è molto più grande di quella per l’illuminazione”, una energia che contribuisce in maniera significativa alle emissioni di carbonio. Basandosi su modelli, i ricercatori hanno stabilito quindi che l’ora legale permette – grazie a lavoratori che arrivano in ufficio in ore più fresche e lasciano gli edifici in ore più calde – di ridurre in generale la quantità di energia necessaria per il controllo del clima degli uffici.

    Come viene descritto nel loro studio pubblicato su Environmental Research Letters “lo spostamento degli orari di lavoro influisce sull’interazione tra la domanda di energia per il riscaldamento e il raffreddamento”. Anche per questo gli scienziati chiedono che l’impatto climatico dell’ora legale sia considerato nelle discussioni politiche.

    A cavalcare la stessa tesi, quella che l’ora legale sia più sostenibile, anche le stime di Altroconsumo che indicano ad esempio come dal 2004 al 2021 grazie all’ora legale l’Italia abbia risparmiato circa 10,5 miliardi di kilowattora, riducendo di 200mila tonnellate le emissioni di CO2 nell’atmosfera. Anche il Sima, la Società Italiana di Medicina Ambientale, ha stimato – lanciando una petizione per mantenerla – che l’adozione dell’ora legale permanente tutto l’anno permetterebbe di consumare meno energia per circa 720 milioni di kwh equivalenti, con un possibile “risparmio in bolletta di circa 180 milioni di euro annui”.

    A queste cifre si possono aggiungere anche i dati di Terna che raccontano come dal 2004 al 2022 l’Italia ha risparmiato circa 2 miliardi di euro e 10,9 miliardi di kWh di elettricità proprio grazie all’ora legale. Nel 2018 la Ue ha avviato l’iter della proposta per porre fine al doppio cambio dell’ora, percorso che si è però poi parzialmente arenato a causa del Covid. Come hanno ricordato da Sima però, in chiave ambientale ormai è tempo di “impegnarsi per arrivare in Italia all’abbandono definitivo dell’ora solare adottando l’orario legale tutto l’anno, auspicando un coordinamento tra le varie nazioni per evitare ripercussioni sugli scambi commerciali e i movimenti transfrontalieri”. LEGGI TUTTO

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    Pesticidi e cambiamenti climatici: oltre 500 sostanze usate in agricoltura danneggiano gli insetti

    Cosa c’entrano i pesticidi con i cambiamenti climatici? Esiste un circolo vizioso tra le sostanze chimiche usate in agricoltura e l’aumento delle temperature: con il riscaldamento globale, causato anche dai pesticidi, aumentano i parassiti che a loro volta indeboliscono le colture. A quel punto, si richiede un maggiore uso dei pesticidi che però, si è scoperto, uccidono anche quegli insetti che invece sono importanti per la salute degli ecosistemi.

    La conferma arriva da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science e guidato dal Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (Embl), la cui sede principale è ad Heidelberg, in Germania. I ricercatori hanno scoperto che oltre 500 sostanze comunemente utilizzate in agricoltura e ritenute fino adesso non dannose, tra le quali pesticidi, erbicidi ed altri agro chimici, risultano avere conseguenze sugli insetti. Anche se utilizzate in piccolissime quantità. E non c’è dubbio che gli effetti nocivi vengono esacerbati in caso di temperature più elevate, preannunciando quindi un futuro sempre più a rischio per questi animali così importanti per la salute degli ecosistemi.

    Viaggio a Terra Madre, in cerca di una nuova “bio-logica” per salvare la nostra agricoltura

    di  Giacomo Talignani

    30 Settembre 2024

    L’Istituto europeo di bioinformatica
    Le popolazioni di insetti sono in declino da diversi anni, con una diminuzione che si attesta in media sul 2-3% l’anno. Per cercare di capire le possibili cause di questo calo, i ricercatori guidati da Lautaro Gandara, docente e autore dello studio, hanno passato in rassegna oltre mille molecole di varietà di prodotti agro chimici contenute nella biblioteca chimica dell’Embl, l’istituto europeo di bioinformatica esponendo sistematicamente in laboratorio le larve di moscerino della frutta, provenienti da varie parti del mondo, ad ognuna di queste sostanze. I ricercatori ne hanno seguito il periodo di sviluppo, il comportamento e la sopravvivenza a lungo termine per tutta la durata del loro ciclo di vita, scoprendo che il 57% delle sostanze chimiche ritenute fino adesso non dannose, alterava significativamente il comportamento delle larve di moscerini della frutta, anche in piccolissime dosi. Non solo. Spiega ancora il professor Gandara: “I cambiamenti sono risultati ingigantiti quando abbiamo aumentato la temperatura di 4 gradi, un’idea nata dal fatto che le temperature globali sono in aumento e potrebbero influenzare il modo in cui i pesticidi influenzano le larve”.

    Biodiversità

    Clima, con un po’ di aiuto le farfalle tornano a prosperare

    di Simone Valesini

    13 Settembre 2024

    I test alzando le temperature
    Gli scienziati hanno iniziato alzato la temperatura prima di due gradi (da 25 C a 27 C). Quando non hanno visto molta differenza, hanno aumentato ulteriormente fino a 29 C, che è considerata rappresentativa del clima in cui si vive durante la stagione estiva in gran parte del mondo. A quel punto, l’impatto sulle piante è stato evidente. “Inoltre, abbiamo mescolato alcune delle sostanze chimiche più comunemente rilevate nell’aria, a dosi ecologicamente rilevanti, esponendo nuovamente i moscerini della frutta fin dalla loro prima schiusa. Abbiamo quindi visto un effetto molto più forte – ha affermato Justin Crocker, Embl Group Leader e autore senior del recente articolo scientifico – abbiamo osservato un calo del 60 per cento nei tassi di deposizione delle uova, prefigurando il declino della popolazione ma anche altri comportamenti alterati, come il piegamento più frequente, un comportamento raramente osservato nei gruppi non trattati”.

    Con il Green Deal l’Unione europea ha fissato l’obiettivo di dimezzare i pesticidi che per la verità sarebbero già diminuiti del 6%. Ma è stata chiesta una revisione, soprattutto dopo che sono stati resi noti i risultati delle nuove ricerche scientifiche condotte con test che tengono presente l’aumento delle temperature. LEGGI TUTTO

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    La classifica shock sull’impatto dei fornelli a gas: l’Italia è il Paese d’Europa dove ci sono più vittime

    L’Italia è il Paese dove le cucine a gas uccidono più persone in tutta Europa. Una affermazione forte, che l’European Public Health Alliance (EPHA) sostiene grazie alle cifre dettagliate di un nuovo studio sulle morti premature legate all’uso del gas ai fornelli: sono oltre 40mila in Europa le persone che muoiono in media ogni anno a causa dell’inquinamento da gas domestico e di queste 12.706 sono italiane.

    Si muore per malattie, soprattutto per sostanze inquinanti e gas nocivi collegati a malattie cardiache e polmonari e si muore, in percentuale, quasi il doppio rispetto agli incidenti automobilistici. In media una cucina a gas riduce di quasi due anni la vita di una persona e ovviamente questa riduzione avviene nei Paesi dove prevale ancora, fra i sistemi di cottura, quello a gas anziché l’elettrico a induzione: in Italia, così come in Polonia o Romania, la percentuale di famiglie che usano ancora i “vecchi” sistemi per cucinare è pari al 60%.

    Dati e cifre che dovrebbero farci riflettere, ma su cui c’è ancora pochissima consapevolezza dei pericoli. “La portata del problema è molto peggiore di quanto pensassimo” ha spiegato l’autrice principale dello studio, Juana María Delgado-Saborit, che dirige il laboratorio di ricerca sulla salute ambientale presso l’Università Jaume I in Spagna e che ha realizzato l’analisi, poi rilanciata da l’European Public Health Alliance, insieme a colleghi da tutto il mondo.

    La guida

    La cucina a induzione: come funziona e quali sono i vantaggi

    13 Novembre 2020

    Finora, le cifre delle vittime di malattie collegabili all’uso di fornelli a gas, secondo gli esperti sono state sottostimate: si considerava infatti solo l’effetto sulla salute del biossido di azoto e non di altri inquinanti estremamente pericolosi per la salute, come il monossido di carbonio e il benzene.

    Più in generale secondo i ricercatori le linee guida dell’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) vengono regolarmente violate nelle case di almeno 14 Paesi europei “quando l’inquinamento di fondo si combina con i fumi delle cucine a gas durante l’uso normale”.

    Gli Stati più colpiti, si legge nello studio, sono Italia, Polonia, Romania, Francia e Regno Unito, dove appunto si cucina di più con il gas, ma da noi la percentuale di morti premature è quasi il doppio rispetto a quella per esempio dalla Polonia, secondo stato in classifica per vittime. “Le vite in Italia si accorciano, in media, di poco meno di un anno”.

    Inoltre, gli esperti sottolineano come l’inquinamento sia più grave laddove c’è scarsa ventilazione e nelle “sessioni di cottura prolungate”. La dottoressa Delgado-Saborit ricorda che “già nel 1978 scoperto che l’inquinamento da NO2 è numerose volte più alto nelle cucine che utilizzano fornelli a gas rispetto a quelle elettriche. Ma solo ora siamo in grado di quantificare il numero di morti prematuri. L’entità del problema è molto peggiore di quanto pensassimo, con i nostri modelli che suggeriscono che la casa media in metà Europa supera i limiti dell’OMS. L’inquinamento esterno crea la base per questi superamenti, ma sono i fornelli a gas a spingere le abitazioni nella zona di pericolo”.

    Non solo, se si considera l’impatto generale di gas, benzene, formaldeide e particolato, si stima che le cucine a gas probabilmente potrebbero causare “367.000 casi di asma infantile e 726.000 casi in tutte le fasce d’età in Europa ogni anno”. La stessa Nasa ha affermato che negli ultimi decenni “c’è stata una significativa diminuzione dell’inquinamento da NO2 nelle città europee grazie alle normative sulle emissioni dei veicoli e ai progressi tecnologici dei veicoli stessi. Tuttavia, l’inquinamento persistente continua a rappresentare uno dei maggiori contributori ai pericolosi livelli rilevati dallo studio”.

    Salute

    Con il fornello a gas si respirano da 10 a 100 volte più particelle rispetto a stare nel traffico

    di Paola Arosio

    24 Maggio 2024

    Per tentare di prevenire le morti, oltre che una necessaria spinta dell’elettrificazione e all’induzione, l’EPHA ricorda che servirebbero standard precisi per la qualità dell’aria indoor, standard che l’Ue oggi non ha. La stessa Ue però proporrà nuove norme per i fornelli a gas entro la fine dell’anno e sta valutando restrizioni per l’inquinamento, compreso quello da NO2. A tal proposito l’European Public Health Alliance sta sollecitando le Istituzioni europee” a eliminare gradualmente i fornelli a gas attraverso limiti alle emissioni abbinati a incentivi finanziari per passare a fornelli più puliti” e chiede anche etichette obbligatorie sui fornelli per segnalare i rischi di inquinamento e campagne di sensibilizzazione sui pericoli della combustione di carburanti in ambienti chiusi. Come ha spiegato Sara Bertucci, responsabile delle politiche globali di salute pubblica per l’EPHA, “per troppo tempo è stato facile ignorare i pericoli dei fornelli a gas. Come per le sigarette, la gente non pensava molto agli impatti sulla salute e, come le sigarette, i fornelli a gas sono un piccolo fuoco che riempie la nostra casa di inquinamento. I veri impatti sono probabilmente maggiori di quelli previsti in questo studio. Sapendo questo, i Governi dovrebbero prendere l’iniziativa per aiutarci a smettere di usare il gas, proprio come ci hanno aiutato a smettere di fumare”. LEGGI TUTTO

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    Come smaltire i tubetti di dentifricio (in attesa che diventino riciclabili)

    Quanti di noi sanno smaltire in modo corretto uno degli oggetti più usati per l’igiene personale? Il tubetto del dentifricio. Una delle più importanti aziende mondiali che produce il dentifricio ha iniziato nel 2019 una fase di transizione per rendere il tubetto completamente riciclabile in tutti i paesi del mondo dove distribuisce il suo prodotto, con l’obiettivo di raggiungere un risultato ottimale entro il 2025. Fino ad allora non in tutti i Paesi, una volta consumato il dentifricio e buttato nella plastica il tubetto, questa sarà riciclato. Per sapere se quello che state usando è riciclabile, basta cercare uno dei due simboli che reca la scritta HDPE2 o Recycle Tube. Infatti il tubetto HDPE sta per polietilene ad alta densità, una plastica ampiamente riciclata. Insieme al tubetto, anche il tappo (fatto di plastica PP polipropilene) va comunque buttato nell’apposito cassonetto per la plastica, perché tecnicamente sono riciclabili, ed il modo migliore per farlo è riavvitarli ai tubetti vuoti prima di gettarli; un gesto semplice che aiuta a ridurre la dispersione dei tappi.

    Ad Hong Kong per sensibilizzare questa buona pratica, l’azienda leader nella produzione di dentifrici ha lanciato una nuova iniziativa di riciclo chiamata “Small Act, Big Smiles”, che incoraggia i consumatori a ridurre i rifiuti di plastica. In che modo? Gli abitanti della metropoli asiatica possono depositare i tubetti usati, indipendentemente dalla marca, presso 180 negozi di una nota catena di Hong Kong che ha aderito a queste pregevole iniziativa. E non è ancora tutto, perché per spingere al cambiamento, a volte, c’è bisogno anche di un incentivo in più, meglio quando è anche di carattere economico. Infatti, chi acquista un tubetto di dentifricio riciclabile della marca che ha lanciato l’iniziativa, riceverà dei punti di accumulo presso il negozio, e chi restituisce il tubetto di dentifricio di qualsiasi brand per il riciclo, avrà anche un buono di 10 dollari di Hong Kong da spendere in prodotti per l’igiene personale.

    E’ evidente che dietro l’intento lodevole di incentivo al riciclo ci sia anche una pratica commerciale e di marketing, ma tanto chi non usa ogni giorno e più volte al giorno, il dentifricio per lavare i denti e mantenerli in salute? Ma il programma non si conclude con il riciclaggio, perché successivamente i tubetti raccolti saranno suddivisi in categorie riciclabili e non riciclabili: i primi saranno trasformati in nuovi prodotti, utilizzando la tecnologia di stampaggio a iniezione, mentre i non riciclabili verranno riutilizzati per creare materiali da costruzione, riducendo al minimo gli sprechi. E gli articoli da cancellare realizzati con i tubetti riciclati saranno poi donati a bambini svantaggiati, tramite la Hong Kong Young Dentist Federation.

    Insomma, un bell’esempio, ma tornando alle modalità con cui gettare correttamente il tubetto dopo averlo usato, possiamo dire che non è necessario tagliarlo per rimuovere eventuali residui di dentifricio, perché durante il processo di riciclaggio il tubetto viene triturato e sottoposto a un procedimento specifico di lavaggio per eliminare ciò che è rimasto all’interno. Altra informazione da conoscere è che il tubetto – come la plastica in generale – non è progettato per essere biodegradabile, quindi non si degrada nell’ambiente, se non dopo decenni e decenni. C’è da considerare, infatti, che in Italia ogni anno sono circa 44 milioni i tubetti di dentifricio che finiscono in discarica, un motivo in più per fare grande attenzione quando si butta via, anche perché alcuni tubetti potrebbero contenere anche parti in alluminio, per cui è buona regola conoscere anche le varie modalità di riciclo adottate da ogni singolo Comune per differenziare correttamente questi materiali. LEGGI TUTTO