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Le compagnie del tech e del fossile contro la scienza del clima


La chiama climate obstruction. Si tratta, spiega, di “una offensiva organizzata e collaborativa contro l’azione climatica, fomentata all’inizio dall’industria delle fonti fossili, e supportata, adesso, da Big Tech, in particolare motori di ricerca e social media”. Kate Cell coordina le campagne su clima ed energia della Union of Concerned Scientists, un’organizzazione non governativa statunitense che raccoglie circa 23mila scienziati preoccupati dalle politiche federali – segnatamente, da quelle del presidente Donal Trump – sulle questioni legate alla ricerca. Come vi abbiamo mostrato negli altri articoli di questa serie, il momento è difficile negli Stati Uniti per gli studiosi.

“Onestamente, al momento ovviamente siamo preoccupati del riscaldamento globale, degli sforzi per bloccare l’azione sul cambiamento climatico. Ma abbiamo anche programmi relativi alla sicurezza globale, armi nucleari, cibo e ambiente, trasporti puliti, e sul rapporto tra democrazia e scienza”. L’abbiamo incontrata al termine di una conferenza stampa durante Cop30 che ha passato a sfiancarsi tra i padiglioni per stringere contatti e mostrare che l’America c’è. “America is still in”, come si chiama il movimento guidato da Gina McCarthy (ex direttrice della Environmental protection agency sotto Obama) che raccoglie governatori e amministratori locali – tra gli altri, il californiano Gavin Newsom (accolto come una star alla conferenza) anche bipartisan. Tutti accomunati da un obiettivo: contrastare le politiche negazioniste di Washington. E, considerato il peso degli aderenti (due terzi della popolazione Usa, tre quarti del pil e più del 50% delle emissioni, dichiarano), non è poco.

La storia

Gli scienziati del clima che stanno lasciando gli Usa

Com’è cambiato l’umore negli atenei negli ultimi mesi? “Credo sia stato molto difficile per scienziati, ricercatori e professori – continua Cell – molti di loro hanno perso i propri fondi, o a perderli sono stati i loro studenti. Tutti percepiscono una certa freddezza nell’aria riguardo al loro campo di studi, e vivono aspettando il prossimo penny”. Periodo difficile, racconta l’americana, anche per i visti: c’è chi non torna a casa da parecchio per timore di non riuscire a rientrare negli Usa. “Sì, c’è ogni sorta di problemi con l’immigrazione, non ultimo il fatto che alcune agenzie governative tentano letteralmente di acchiappare le persone in strada, compresi cittadini americani. E’ terribile quanto il nostro Paese sia diventato militarizzato e spaventevole”. Qualcuno, alla fine, ha ceduto e ha scelto di emigrare. “Anche nel nostro network. Siamo 23mila, e alcuni di loro sono stati di mira direttamente da Big Oil. Se sono preoccupata della fuga di cervelli? Certo, ma anche del fatto che non riusciamo più ad accogliere studiosi stranieri nei nostri atenei”.

Via dagli Usa

La scienziata che sceglie l’anonimato: “Pericoloso criticare Trump”

AI contro la ricerca

Tutti i mezzi diventano leciti per la caccia alle streghe di Trump. Dagli ordini esecutivi all’intelligenza artificiale. Che, invece di aiutare la ricerca, verrebbe usata dal governo federale per scovare gli studi sgraditi tra quelli finanziati dal governo e privarli dei fondi. Basta poco per incappare nella rete dei software spia: che siano, per esempio, presenti parole come gender, clima, biodiversità – in quest’ultimo caso, il problema non è la conservazione della natura, ma le politiche su diversity and inclusion, una delle tante allucinazioni dell’Ai – . Altro che tecno-ottimismo: se sui social network si sono trovate strategie anti-censura come l’anguria per rappresentare la Palestina, in ambito scientifico la precisione è tutto, e non può essere sacrificata con perifrasi. Alcuni scienziati che abbiamo sentito temono che la propria email personale sia spiata da questi programmi, e per rispondere preferiscono usarne una privata. “Posso confermare tutto, assolutamente. È così. E non c’è solo il problema di togliere i fondi, ma anche quello di ciò che può apparire sui siti del governo. Che, a questo punto, possono essere considerati fonti di disinformazione in molti campi”. Va considerato che nella gerarchia delle fonti che contribuisce a determinare cosa finisce nelle risposte dell’Ai, un link della Casa Bianca pesa molto di più dei blog negazionisti delle content factory della destra. Il sigillo di Washington vale oro.

Via dagli Usa

La scienziata del clima: “Troppe intrusioni della politica, perciò sono venuta in Italia”

Semplificare, però, non aiuta. Non tutti prendono posizione, segno che qualcosa sfugge alla dialettica del bianco o nero. Il malanimo potrebbe nascere da lontano, ancora prima della prima era Trump. Da quando, cioè, l’università è diventata terreno di scontro tra fazioni, anche – in certi casi – a seguito di politiche animate dalle migliori intenzioni. Annalisa Bracco, oggi al Cmcc, aveva raccontato a questa testata che molti studiosi non hanno gradito le politiche dell’era Obama, che miravano a portare equilibrio in un ambiente in cui essere bianchi lasciava molte più possibilità di successo, e a farlo con il ricorso a quote su base etnica. Secondo Bracco, la frustrazione nasce dal fatto che si è finiti per privilegiare l’etnia rispetto alla qualità della ricerca, e per innescare una reazione di rigetto. Una sorta di reazione, che si manifesta nel silenzio, o in un appoggio aperto al nuovo corso. Cell conferma la divisione. “C’è una tendenza davvero disturbante in alcune delle principali università del Paese, che si accodano a quello che devo chiamare un racket della protezione”, sul modello di quello mafioso, per intenderci. “Non credo capiscano che quando cedi a questo sistema, la sicurezza non è certo ciò che ottieni. Altri, invece, stanno coraggiosamente mantenendo la schiena dritta, rifiutando la presa di controllo del presidente sulla libertà accademica”.

Una frattura tra costa e aree interne

C’è una frattura tra le città costiere come New York e Los Angeles e le aree interne? “Penso che per le città più grandi sia più facile resistere perché se aumenta la popolazione è più facile creare la massa critica di cui c’è bisogno”, risponde la campaigner statunitense. “Ma, dall’altra parte, vedo anche molti segni che le persone in tutto il Paese, non importa se parliamo di città o aree rurali, sono stanche della situazione, e vogliono vedere un cambiamento”. Per gli studiosi del clima americani il futuro sarà ancora più amaro: in questo anno che va a chiudersi hanno perso la libertà cui si erano lungamente abituati. Gli Stati Uniti, un tempo faro della conoscenza, non sono più la Mecca per gli scienziati del globo. E, nel mondo di oggi, caratterizzato dalle appartenenze, trovarne un’altra non sarà semplice.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml

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