Questo è un pezzo che non doveva uscire. Il perché si annida nel clima che si respira nelle università americane. Il tema è la fuga degli scienziati, climatici e non, dagli Stati Uniti per via delle pesanti interferenze dell’amministrazione Trump nel mondo della ricerca. Abbiamo condotto l’intervista che state leggendo con la nostra fonte, la quarta di questa serie, dopo averne verificato le credenziali e la storia: si tratta di una scienziata non americana dell’università di Stanford. Eravamo pronti per la pubblicazione, ma poche ore prima la persona con cui abbiamo parlato, e che aveva accettato di buon grado di rispondere alle nostre domande, ci ha chiesto la cortesia di poter rivedere il testo scritto del colloquio, emendando alcune risposte. La motivazione? Nelle ore immediatamente precedenti aveva saputo di alcuni colleghi respinti alla frontiera, colleghi che non avevano, cioè, potuto fare ritorno ai propri laboratori dopo le vacanze estive. Temeva, insomma, di giocarsi la carriera a parlare con Green&blue. “Nel mio entourage gira voce che ci siano persone respinte per meno di questo”, si è scusata. Dopo un rimaneggiamento il testo sarebbe per forza di cose uscito annacquato: e dunque inutile. Così abbiamo proposto un accordo: mantenere il dialogo esattamente così come è avvenuto, sotto garanzia del completo anonimato. Manco fosse il Watergate. O ci trovassimo in Cina.
Quanto sopra è abbastanza inusuale in ambito scientifico: in tanti anni, raramente ci siamo trovati di fronte a una richiesta del genere. Roba da politici, talvolta da whistleblower aziendali: mai da scienziati. Rende, però, e forse più di ogni altro discorso, l’idea dell’aria che tira negli atenei americani e tra gli expat in questo 2025: la parola giusta, per quanto sia forte, è terrore. E nulla, nemmeno lo status di ricercatore o professore, mette al riparo.
La storia
Gli scienziati del clima che stanno lasciando gli Usa
Melting pot scientifico
La chiameremo Amanda. Di lei possiamo dire poco, per non metterla a rischio: solo che non è americana e si occupa di materie scientifiche in uno degli atenei più prestigiosi degli Stati Uniti, Stanford. Data la situazione, viene spontaneo chiederle perché a suo tempo abbia scelto di trasferirsi negli Usa, e se c’è un momento preciso in cui le cose sono cambiate. “Il fatto è che le migliori università al mondo nelle materie di cui mi occupo si trovano negli Stati Uniti”, risponde. “Harvard, Mit, Stanford attraggono le menti più brillanti del pianeta. La sola Stanford conta 58 premi Nobel, e ho avuto il privilegio di lavorarci. Le risorse a disposizione sono apparentemente infinite: qualsiasi esperimento immagini, qui c’è un modo per metterlo in piedi. In questi atenei si crea un ambiente che favorisce lo scambio di idee tra le discipline: e tutto avviene in maniera naturale, incentivando la collaborazione tra i dipartimenti – c’è sempre un esperto da consultare, se ne hai bisogno. Un successo dovuto non solo alle risorse di cui queste istituzioni in buona parte private dispongono, ma anche al loro ruolo di melting pot scientifici, che mettono assieme ricercatori provenienti da tutto il mondo”.
Di politica, spiega Amanda, prima si parlava raramente in facoltà. “A dire il vero, l’argomento non veniva affrontato nemmeno durante le pause caffè. Nonostante la fine dell’affirmative action nel 2023 (originariamente pensata per aumentare la rappresentanza delle minoranze meno privilegiate, ndr) ci abbia messo poco a diventare argomento di discussione, anche in quel caso l’interesse è calato presto, dal momento che non riguardava la maggioranza della comunità di Stanford. Ma oggi la situazione è differente: la politica è diventata un argomento quotidiano, dal momento che le decisioni del governo hanno un impatto su tutte le aree della ricerca. E, direi, anche sulla comunità scientifica nel suo complesso”.
Caccia alla diversity and inclusion: anche nelle caselle email private
Il vento è decisamente cambiato, racconta la studiosa. “Fino a poco tempo fa una equality statement era obblligatorio per presentare domanda da finanziamento”, prosegue Amanda, “anche in discipline in cui la necessità non appariva ovvia, come quelle scientifiche. Ovviamente l’impegno su uguaglianza e diversità è importante per tutti. Ma le politiche del governo di oggi non solo hanno rimosso l’obbligo di queste dichiarazioni, ma hanno anche tagliato i fondi alle richieste che si concentrano troppo su equity e diversity”. Un fatto, spiega la scienziata, che non l’ha mai riguardata personalmente, ma ha coinvolto diverse persone con cui ha avuto contatti. Fa degli esempi. “A una persona che conosco e che ha avuto un passato a Stanford è stato consigliato dall’amministrazione del proprio gruppo di ricerca di non impiegare termini come gender o diversity nella propria corrispondenza email [dalla casella dell’università, ndr], dal momento che queste parole, oggi usatissime, avrebbero potuto attrarre attenzione indesiderata”. In un articolo precedente vi abbiamo parlato del sospetto di una ricercatrice che le agenzie federali impieghino l’intelligenza artificiale per esaminare i progetti, alla ricerca di riferimenti woke. In questo caso, il sospetto è addirittura peggiore: che persino le caselle di posta elettronica private collocate sui server dell’ateneo siano monitorate non per fini di sicurezza nazionale, ma alla ricerca di simpatie, per così dire, troppo a sinistra. E stiamo parlando di Stanford, ateneo prestigioso, la cui nomea potrebbe tutto sommato fungere da scudo: realtà più piccole potrebbero essere esposte a interventi ancora più invasivi della privacy.
“L’ateneo ha accesso alle nostre email”, prosegue la studiosa. Una situazione asfittica. “Ci sono persone che conosco che hanno cambiato mestiere, abbandonando l’accademia per andare a lavorare nel privato e in altri ruoli”, continua. “Un’altra persona nella mia rete aveva pianificato una carriera negli Usa, ma ha spostato l’attenzione verso il proprio paese di origine in Europa: anche perché l’incertezza sui finanziamenti spinge molte istituzioni accademiche a non assumere, né consente a noi di pianificare. Questi esempi mostrano chiaramente come le interferenze politiche stanno limitando la libertà scientifica e spostando talento ed eccellenza fuori dagli Stati Uniti”. “Il clima qui? In generale lo definirei ‘preoccupato’, perché l’impevedibilità di quello che farà il governo rende impossibili investimenti di lungo termine in nuove tecnologie, personale di ricerca o apparecchiature. Gli scienziati hanno cominciato ad arrivare qui durante la Seconda guerra mondiale perché costretti a lasciare i propri Paesi, e l’America ne ha beneficiato enormemente, per decenni. Le cifre dicono che oggi il 60% dei post-doc è internazionale, e le rette universitarie alte assieme al patrimonio immobiliare universitatio, come nel caso di Stanford, hanno consentito al sistema di sostenere una ricerca di livello mondiale”. “Ma con gli ultimi sviluppi, non ultimo il blocco degli studenti stranieri ad Harvard, il futuro scientifico degli Stati Uniti è, come minimo, a rischio”.
Chiediamo: l’Europa può approfittarne? “Questo stato di cose offre senz’altro significative opportunità di attrarre talenti scientifici di primo piano al Vecchio Continente”, riprende Amanda. “Ma per farlo sono necessari investimenti finanziari, programmi dedicati e posizioni realmente attraenti. Sfortunatamente, il sistema accademico da voi ha parecchi problemi di lunga data: i posti a tempo indeterminato sono pochi, e molte posizioni a cui in teoria è possibile candidarsi in realtà sono già assegnate: in questi casi, le università pubblicano un annuncio di lavoro solo per conformarsi ai requisiti di legge, ma lo modellano esattamente sul profilo del candidato che vogliono scegliere. Per beneficiare del potenziale brain drain, l’Europa deve adattare pratiche di assunzione trasparenti e creare linee di finanziamento specifiche per gli scienziati stranieri. Solo combinando procedure pulite e opportunità di competizione l’Unione potrà rappresentare un’alternativa per chi non vuole o non può restare negli Usa”. E la Cina? “Credo che sia in una posizione eccellente per beneficiare del brain drain. I laureati di Pechino sono ben rappresentati negli atenei statunitensi. Ma, anche se tradizionalmente molti hanno cercato di restare qui, per loro il percorso sta diventando sempre meno attrattivo, per non dire ostile. E il numero di pubblicazioni di connazionali su riviste ad alto impatto sta aumentando costantemente. Di conseguenza, appare logico che gli scienziati cinesi al momento basati in Usa in futuro sceglieranno di tornare a casa”. La lunga marcia del Dragone per il primato nella tecnologia è cominciata.
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