Un sistema di emissioni attive sul fondale artico, a 2700 metri di profondità, sotto il livello del mare, nell’area di passaggio tra Groenlandia e isole Svalbard. C’è una nuova, straordinaria scoperta che promette di favorire la comprensione dell’origine e della persistenza della vita in condizioni estreme, compresi altri pianeti e lune, e apre nuove prospettive per lo studio della formazione del metano, degli ecosistemi profondi e della geologia artica. Arriva grazie al lavoro di un team internazionale di scienziati e studenti, guidato dall’Università Artica della Norvegia, nel corso della spedizione Extreme25, a bordo della nave da ricerca Kronprins Haakon, e in particolare grazie a un Rov, ÆGIR 6000, che sta consentendo di esplorare il margine di placca che divide Nord America e l’Eurasia. Così, lungo la scarpata di faglia di un “oceanic core complex”, un sensore speciale, sviluppato dalla Woods Hole Oceanographic Institution, ha evidenziato la presenza di metano nei fluidi: una scoperta ritenuta rilevante perché il contesto geologico dell’area suggerisce la possibilità che il metano sia di origine abiotica, ovvero prodotto senza intervento biologico.
Battezzato “Frigg Vent Field”, in ossequio alla dea norrena della saggezza e lungimiranza, il sito rappresenta una finestra tettonica sul passato del pianeta: apre, vale a dire, un’opportunità unica per studiare processi simili a quelli che caratterizzavano la Terra primordiale, e forse altri mondi oceanici. Già, perché le rocce della crosta e del mantello esposte sul fondale creano ambienti chimici che potrebbero ricordare quelli che hanno favorito l’origine della vita su questo pianeta .“Questa scoperta rappresenta la prima evidenza chiara di flussi idrotermali attivi attraverso crosta oceanica giovane in questa parte dell’Artico, rivelando un sistema molto più dinamico di quanto previsto”, sottolinea la responsabile scientifica della spedizione, Giuliana Panieri, direttrice del Cnr-Istituto di Science Polari, docente all’Università Artica di Norvegia. “Aver trovato fluidi in emissione da queste rocce esposte sui fondali marini – annota Marco Cuffaro, geofisico del Cnr-Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria – dimostra che le scienze della Terra nel Cnr contribuiscono agli avanzamenti della conoscenza in queste regioni remote ed estreme in Artico, per comprendere il funzionamento del nostro pianeta, dalla superficie al suo interno. Ma c’è ancora molto da esplorare e da scoprire”.
Intanto, le prime osservazioni indicano che il Frigg ospita specie simili a quelle note in altri siti di fuoriuscita di fluidi artici, in gergo chiamate seeps, in particolare gasteropodi, crostacei, vermi tubicoli e pesci. I campioni e i dati raccolti saranno analizzati nei prossimi mesi, contribuendo a migliorare la comprensione dei processi in atto e del loro ruolo a livello globale. Un tassello di conoscenza importante legato a una spedizione, Extreme25, che coinvolge – con un approccio multidisciplinare – scienziati, studenti, esperti di comunicazione e artisti provenienti da tutto il mondo per esplorare ambienti estremi. Tra loro, il gruppo di Microbiologia degli Ambienti Estremi dell’Università di Napoli Federico II, guidato da Donato Giovannelli: nella spedizione il postdoc Matteo Selci e il dottorando Antonio Longo. “Stiamo esplorando la diversità microbica negli ambienti profondi dell’Artico e il ruolo dei microbi nei cicli biogeochimici dell’idrogeno, del metano e degli elementi in tracce”, spiegano. “Questi ecosistemi rappresentano laboratori naturali fondamentali per comprendere come le comunità microbiche si adattino a condizioni estreme e contribuiscano ai processi geologici e climatici in corso nell’Artico. La componente microbiologica si integra quindi con quella geologica e chimica della spedizione, contribuendo a ricostruire l’intera rete di interazioni che definisce questi ambienti profondi”.Molti più dubbi, invece, sull’opportunità di utilizzo in chiave energetica di queste riserve profonde di metano: “La loro raccolta e il loro utilizzo rappresenta al momento più un rischio che una risorsa. – spiega Giovannelli – Gli idrati di metano, in ragione della loro profonda instabilità, hanno anzi contribuito in passato ai grandi cambiamenti climatici e le attività antropiche, anche indirette, mettono a rischio la loro stabilità”. La scoperta di ecosistemi incredibili che prima di essere potenzialmente sfruttato dovranno essere studiati a fondo.
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