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Così il commercio ittico influenza il rischio di esposizione globale ai Pfas


La nostra esposizione ai Pfas avviene anche tramite il pesce che mangiamo. A ribadirlo è una nuova analisi di un team di ricerca cinese che ha oggi puntato i riflettori sul mercato ittico globale, evidenziando il ruolo cruciale che ricoprirebbe nel determinare il rischio di esposizione alle cosiddette sostanze chimiche “eterne”. Lo studio, appena pubblicato sulla rivista Science, evidenzia quindi la necessità di una maggiore cooperazione internazionale e di politiche più rigide per ridurre la nostra esposizione ai Pfas attraverso il sistema alimentare marino.

I Pfas nei pesci

I Pfas, o sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, sono inquinanti “eterni”, in quanto hanno la capacità di persistere nell’ambiente per decenni, e molto diffusi: poiché si accumulano negli organismi e si diffondono attraverso l’aria e l’acqua, sono ormai presenti in tutte le reti alimentari e sono state rilevate in quasi tutte le principali categorie alimentari, incluso il pesce. Sebbene sappiamo che il mercato ittico internazionale sia il responsabile della ridistribuzione di questi rischi di esposizione ai Pfas in tutto il mondo, la portata e le modalità sono rimaste fino ad oggi poco chiare. “L’espansione del commercio alimentare globale ha arricchito le diete in tutto il mondo, ma ha anche aumentato le preoccupazioni sulla diffusione di contaminanti”, si legge nello studio. “I Pfas possono persistere nell’ambiente per decenni, ma i rischi che comportano attraverso il commercio alimentare rimangono poco chiari.”

La nuova analisi

Per colmare queste lacune, gli autori del nuovo studio hanno messo a punto un dataset sull’esposizione ai Pfas che combina i modelli delle reti trofiche marine, i dati sulla pesca globale e le misurazioni delle sostanze chimiche eterne nell’acqua marina prelevata da 3.126 siti nell’arco di 20 anni (dal 2010 al 2021). Hanno, poi, creato una mappa predittiva delle concentrazioni di Pfas in 212 specie di pesci commestibili che coprono circa il 99% della produzione ittica destinata al commercio globale. Dalle successive analisi è emerso che i pesci in Arabia Saudita, Thailandia e la costa orientale dell’Australia hanno mostrato i tassi più elevati di contaminazione da Pfas rispetto alla media, mentre quelli provenienti da Africa e Nord America hanno registrato i più bassi. Secondo i risultati, inoltre, le specie ittiche marine a livelli trofici più elevati contenevano costantemente più Pfas.

Il ruolo del commercio ittico globale

Uno degli aspetti più interessanti emersi dal nuovo studio è che il commercio ittico globale ha il potenziale per rimodellare il panorama dell’esposizione ai Pfas. In particolare, gli autori hanno scoperto come questo ridistribuisca il rischio di esposizione ai Pfas dalle aree ad alta contaminazione a quelle a bassa contaminazione. Nord America, Oceania ed Europa, per esempio, registrano i livelli di assunzione giornaliera di Pfas tramite il consumo di pesce più elevati.

“I paesi europei – precisano gli autori – svolgono un ruolo fondamentale nei flussi commerciali di C8-Pfas (ossia l’acido perfluoroottanoico, un Pfoa, e il perfluoroottano solfonato, un Pfos, ndr), rimodellando notevolmente le vie di esposizione e determinando un aumento dell’esposizione in molte nazioni”. Quantificando il movimento e la distribuzione di queste sostanze, spiegano gli autori, questa analisi può contribuire a orientare ispezioni alimentari mirate e a definire standard di esportazione, migliorando in definitiva le misure di sicurezza alimentare globale.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml

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