Il riso in Italia è tradizione agricola e simbolo culturale, soprattutto nelle province di Vercelli, Pavia e Novara, che concentra gran parte della produzione nazionale, delle varietà più pregiate. Eppure oggi la filiera è fragile: il cambiamento climatico, la pressione dei prezzi, la concorrenza internazionale e l’omologazione varietale mettono in crisi soprattutto i piccoli produttori. Un allarme di Coldiretti lo attesta: in molte aree il prezzo del riso all’origine è sceso sotto i costi di produzione, rendendo insostenibile coltivare qualità. Il risultato è che oggi la metà della produzione nazionale è ormai destinata al riso da sushi, mentre le superfici coltivate a Carnaroli, Arborio e Vialone Nano si riducono perché meno richieste e remunerative. Quando una varietà scompare, perdiamo anche un ecosistema fatto di tecniche, micro-abitudini, microclimi.
Lo studio
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Perdiamo biodiversità agricola e identità gastronomica, mentre chi coltiva queste varietà fatica a ottenere un prezzo che ne riconosca il valore. In questo contesto, restituire valore alle varietà storiche diventa un gesto non solo economico ma ambientale: significa frenare l’omologazione, preservare colture che hanno bisogno di territori specifici e che sono parte essenziale dell’agricoltura italiana. È in questa frattura della filiera che si inserisce la storia di Nicola Coppe, 34 anni di Quero, fondatore di Riso Sakè, la prima sakagura italiana (in giapponese significa: luogo in cui si produce il sakè), nata a Feltre nel 2020, ai piedi delle Dolomiti. Il suo progetto nasce quasi come una deviazione accidentale, a partire dalle sperimentazioni di birra artigianale: “Ogni compleanno chiedevo in regalo il piccolo chimico”, racconta Nicola.
Dopo un diploma da perito termotecnico, si avvicina alle tecnologie alimentari e alla microbiologia, lavorando con docenti universitari su progetti di fermentazione e microorganismi. Durante la pandemia due ricercatori dell’Università di Pavia lo coinvolgono in un progetto dedicato alla valorizzazione del riso italiano. “Mi cercavano come sperimentatore, non pensavo minimamente al sakè. Ci sono arrivato per curiosità e poi per amore del processo”. Quel primo studio vince un bando innovazione e apre la porta a un’idea: esiste una possibilità per dare al Carnaroli una nuova destinazione, fuori dal risotto, senza abbandonarlo alla marginalità commerciale.
Per un anno Coppe studia la tecnica giapponese e costruisce e raccoglie le attrezzature necessarie per avviare la sua sakagura. Si concentra sulla lavorazione del riso, che è la sfida più complessa: il chicco deve essere sbiancato e privato degli strati esterni che interferirebbero con la fermentazione. Bisogna individuare il metodo migliore, adattare strumenti nati per altri scopi, imparare errori e tempi. Poi il riso viene lavato, ammollato, asciugato, seguendo sequenze calibrate al minuto, in un processo complesso che non ammette errori. “Se resta troppa farina si incolla, se si asciuga troppo non assorbe. Una volta pronto viene coperto con il koji, il micelio che trasforma gli amidi in zuccheri, e trasferito in vasche che fermenteranno lentamente per sei-otto settimane” spiega Nicola. A Feltre, spiega Nicola, si trovano una serie di elementi che lo rendono un luogo quasi perfetto per realizzare il sakè: il freddo fa sì che d’inverno si possa produrre senza quasi alcun supporto energetico, perché il clima garantisce le condizioni che in Giappone si ottengono solo nei mesi più freddi. L’acqua poi, è ottima.
Politiche green
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Coppe seleziona solo piccoli produttori che coltivano risi pregiati, lavorati in modo specifico e tracciabile. “Non volevamo comprare il riso standardizzato per il sushi. Volevamo sostenere chi continua a fare qualità”. Nel 2023 avvia anche una collaborazione con IRES (Italian Rice Experiment Station): per la prima volta in Italia viene coltivato un riso destinato esclusivamente al sakè, un prototipo nato nei campi di Novara che rappresenta una nuova possibilità per la filiera. Un riso giapponese, adattato alla terra italiana, torna in Giappone in forma di sakè, chiudendo un cerchio culturale e agricolo.
Per rendere sostenibile il progetto, Coppe apre accanto alla sakagura una piccola osteria in cui forma cuochi interni e ospita chef giapponesi. Una parte della produzione di sakè viene servita lì, il resto raggiunge ristoranti giapponesi, bistrot specializzati e locali stellati. E nel 2025 parte la prima esportazione verso Tokyo, in partenza proprio in questi giorni: si tratta di sakè frizzante ottenuto con il lievito del Prosecco, una fusione tra tecniche venete e tradizione giapponese che sta incuriosendo anche i produttori nipponici.
“Trasformare Carnaroli in sakè significa sottrarlo alla spirale del prezzo più basso, restituirgli valore, proteggere chi lo coltiva e generare un impatto ambientale positivo: fermentazioni invernali con consumi ridotti, materie prime locali, filiere corte, biodiversità salvaguardata” conclude Nicola.
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