Lasciare gli Stati Uniti per continuare a fare ricerca climatica liberamente: un pensiero che, oggi, passa per la testa di tanti. Qualcuno lo fa. Le posizioni negazioniste del presidente americano Donald Trump sono alla base della decisione di molti scienziati di abbandonare, temporaneamente o meno, l’America, la terra che, dopo la Seconda guerra mondiale, era diventato il rifugio per tanti studiosi. Un brain gain, per dirla con un anglicismo, che aveva proiettato la tecnica e la ricerca di Washington davanti a tutti, e l’aveva assestata lì, sulla frontiera della conoscenza.
La storia
Gli scienziati del clima che stanno lasciando gli Usa
Quella stagione oggi rischia di finire. Come vi abbiamo raccontato nella prima puntata, le ragioni sono legate agli ordini esecutivi della Casa Bianca, che mai come in questi anni sono arrivati a intromettersi nel lavoro di chi passa la vita in laboratorio. Ma non solo. Più in generale, il problema pare che gli atenei sono diventati terreno di conquista per la politica.
Tessa Maurer, in Italia per fare scienza
Tessa Maurer è un’idrologa con studi a Berkeley. Americana di nascita, è arrivata in Italia a inizio 2024. Oggi lavora per la Fondazione Cima, realtà impegnata nello studio del cambiamento climatico. Maurer accetta di raccontarci la propria esperienza. “Mi sono spostata qui da voi l’anno scorso, prima delle elezioni che hanno portato alla Casa Bianca Donald Trump”, racconta. “Ma, anche se il trasferimento è avvenuto prima, la crescita generale dei sentimenti anti-scientifici è stato senz’altro un fattore rilevante nella mia decisione. E non sono l’unica a pensarla così”. Il percorso che l’ha condotta nello Stivale comincia per caso, con la conoscenza di uno studente italiano più grande, avvenuta durante il dottorato. “Era diventato ovvio che la situazione negli Stati Uniti stesse peggiorando – ricorda Maurer. Durante il Covid Biden ha vinto le elezioni; ma, solo pochi mesi dopo, abbiamo assistito ai fatti di Capitol Hill (l’assalto al Campidoglio, che Trump è accusato di aver incitato, ndr)”. “Mi faceva paura la mancanza di rispetto per le leggi che vedevo attorno a me – prosegue la studiosa -. Ed è in quel periodo che ho pensato che la leadership democratica non era abbastanza forte: che non era stata in grado di fornire una risposta coerente alla narrativa repubblicana di questi anni. C’era un presidente dem, ma la situazione non migliorava; è stato allora che ho cominciato a pensare di andarmene”. Maure passa il 2023 a viaggiare per il mondo, fino all’Australia. “Poi ho ricontattato il mio amico italiano, che mi ha chiesto se volevo venire alla Fondazione Cima. Ed eccomi qui. Mi è piaciuto subito il lavoro che si fa a Savona, perché è una combinazione di ricerca e progetti sul campo: potremmo definirla scienza applicata, e mi ci ritrovo molto”.
Aria irrespirabile
Negli Stati Uniti, dice collegata dal suo studio, l’aria è diventata irrespirabile. “Chi fa ricerca climatica aveva già avuto qualche esperienza con i tagli federali di Trump – prosegue la scienziata -. Non ci aspettavamo niente di diverso: anche in questo mandato era ovvio che il presidente non sarebbe stato di manica larga nei confronti dei programmi che non gli piacevano. Ma la cosa del tutto nuova è che questa volta la sua amministrazione ha cancellato anche fondi già approvati: questo è stato del tutto inaspettato, e ci ha sorpreso”. Una sorta di repulisti a efficacia retroattiva, basato sulla nuova dottrina negazionista di Washington, oggi più aperta che mai, e che marcia al ritmo dell’adagio drill, baby, drill, che sa di Texas e trivelle. L’interventismo del tycoon newyorchese è arrivato al punto da riscrivere per decreto presidenziale i capisaldi del metodo scientifico, di cui l’ordine esecutivo “Restoring Gold Standard Science” ribadisce i concetti chiave: ma lo fa, secondo i critici, con uno zelo tale da tagliare le gambe alla ricerca sgradita. Un Terrore in salsa ambientale, Forche caudine impossibili da superare per i non allineati.
L’università è diventata terreno di scontro politico?, chiediamo. “Sì”, risponde Maurer. “E’ così, e accade da parecchio. Da almeno dieci anni gli atenei sono sensibili ai cambi di amministrazione, e questa volta ho avuto la netta sensazione che non sarebbe finita bene. Personalmente, lo dico dalla metà del decennio scorso, che avrei lasciato gli Stati Uniti. All’inizio la gente sorrideva. Dopo qualche tempo hanno iniziato a cambiare atteggiamento. Mi rispondevano: io non lo farei, ma sai, ti capisco. E’ finita che quest’anno i colleghi mi dicono apertamente di non tornare indietro”. E perché? “Perché negli Stati Uniti è diventato molto difficile fare scienza senza le intromissioni della politica”.
Intelligenza artificiale usata per valutare i paper: via il cambiamento climatico dagli studi
Alcuni esempi possono servire a chiarire il quadro. “Sto lavorando ad alcuni paper assieme a ricercatori federali, e mi è stato chiesto di togliere le parole climate change dagli studi. Dobbiamo parlare, invece, di clima estremo ed eventi estremi. Abbiamo dovuto tagliare anche la parola biodiversity: non per il lemma in sé, ma perché contiene la parola diversity che non si può più usare. E tra le altre parole vietate c’è, per esempio, bias (distorsione, ndr) , che è un termine usato in statistica, per esempio nel valutare i dataset, ma che viene associata alla riflessione sui diritti. Pensiamo che stiano usando un programma di intelligenza artificiale per identificare le proposte che contengono queste parole. Se ne siamo sicuri? No, ma è quello che sospettiamo”.
La politicizzazione della scienza climatica viene da lontano, secondo Maurer, “almeno da quando i repubblicani si sono accorti che era politicamente utile usare questi temi per creare una guerra culturale, generare rabbia e creare una dicotomia sociale. E i democratici, dal canto loro, non hanno fatto un buon lavoro nel rispondere alle domande della gente. Mi sembra evidente che i repubblicani hanno capitalizzato questo tema e manipolato i cittadini al riguardo, anche se alla fine non sono convinta che siano riusciti a convincere la gente che il cambiamento climatico non esiste”. Parliamo del futuro. Come lo vede? “Incerto. Vedo mancanza di sicurezze per chi fa ricerca climatica oggi come oggi in America. Anche chi aveva un lavoro sicuro rischia il posto, e questo, peraltro, ha un impatto soprattutto i giovani”. Il Vecchio Continente può accogliere chi vuole attraversare l’Oceano? “Da voi ci sono alcuni programmi fantastici per attirare scienziati, climatici e non. Ma il problema è che per natura tendono a privilegiare i ricercatori con un curriculum solido e ben strutturato alle spalle. Insomma, figure senior. Per un giovane non è semplice avere l’occasione di trasferirsi”. Tempi duri per chi cerca lidi accoglienti. E così anche la Cina diventa un’opzione.
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