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Gli scienziati del clima che stanno lasciando gli Usa


Questa volta fa sul serio. L’amministrazione Trump (insediata a gennaio) non si è limitata a ritirarsi dall’Accordo di Parigi: ha pianificato di riscrivere la scienza del clima per come è conosciuta fino a ora. Non si tratta solo di tagli alle agenzie – peraltro cominciati da subito – : il tycoon è entrato nel merito e nel metodo come mai prima d’ora. Negli Stati Uniti il sistema universitario si trova al centro dell’attenzione come poche altre volte nella storia. Esiste un disagio, è innegabile, e la cronaca recente ha contribuito a rendere l’aria irrespirabile. È possibile per l’Europa approfittare di questa situazione? Vediamo. Cominciando dall’inizio.

Gli attacchi alla scienza di Trump

A fine maggio viene emanato un ordine esecutivo dal nome evocativo, Restoring Gold Standard Science, cioè più o meno: riportare la scienza all’età dell’oro. Nel testo il presidente afferma che “negli ultimi cinque anni la fiducia nel fatto che gli scienziati agiscano nel miglior interesse del pubblico è calata significativamente”. Non solo. La maggioranza dei ricercatori, secondo Trump, riterrebbe che “la scienza stia attraversando una crisi di riproducibilità. La falsificazione di dati da parte di eminenti scienziati ha condotto a ritrattazioni di alto profilo di ricerche finanziate con fondi federali”. Parole forti. “Sfortunatamente”, aggiunge, “il governo federale ha contribuito a questa perdita di fiducia”. Di conseguenza, è la conclusione, “devono essere mantenuti riproducibilità, rigore e una peer review senza distorsioni”.

Trump, quindi, ordina di “ripristinare le politiche di integrità scientifica della mia prima amministrazione, e assicurare che le agenzie mettano in pratica trasparenza nei dati”, “ tra cui “riconoscere [la presenza di ] rilevanti incertezze scientifiche”. Il fine è di “assicurare la continuazione della forza americana e della leasdership globale nella tecnologia”. Segue lista dei desiderata: riproducibilità, trasparenza, collaborazione, comunicazione dell’incertezza, scetticismo, assenza di conflitti di interesse.

Tutto insieme

Parrebbero criteri fondamentali, persino scontati, nell’ambito di ogni buona comunità di ricerca; ma, ribaditi in questo modo, e affibbiati per decreto, teorizzano una rigidità che ai più è parsa funzionale a valorizzare il dubbio, e quindi l’inazione sul clima. Come scrive il Centre for open science, un think tank statunitense, “l’ordine esecutivo suggerisce che la ricerca debba rispettare questi criteri perché si consideri svolta con integrità, e utile nel processo decisionale politico”. Quello che il testo non riconosce, aggiunge, “è che raramente si conseguono tutti questi obiettivi in un singolo studio, ammesso che accada mai. Non esiste uno studio perfetto. La buona ricerca è condotta il più rigorosamente possibile date le risorse disponibili. I progressi si raggiungono acquisendo evidenze, criticandole, e cercandone di altre per rispondere a debolezze e spiegazioni alternative”. La comprensione di un fenomeno, viene precisato, si ottiene solo attraverso l’accumulo di evidenze provenienti “da molti studi”: la precisione è indispensabile, l’errore possibile. La conclusione: trattasi di eccesso di zelo, una tagliola praticamente impossibile da superare. Se non per gli amici del presidente.

Attacco all’Ipcc

Il 23 luglio un documento intitolato A Critical Review of Impacts of Greenhouse Gas Emissions on the U.S. Climate ha proposto una revisione grossolana degli studi sul cambiamento climatico, mettendo in discussione le conclusioni dell’Ipcc, il panel intergovernativo delle Nazioni Unite che ogni 7 anni pubblica un rapporto sul clima in tre volumi raccogliendo alcune delle migliori menti al mondo. La strategia, scrivono i docenti Giacomo Grassi e Stefano Caserini, è sempre la stessa: promuovere il dubbio per giustificare l’inversione di rotta sulla decarbonizzazione.

Il lavoro di smontaggio della scienza climatica così come la conosciamo viene completato il 7 agosto, con un altro ordine esecutivo che si pone l’obiettivo (questa volta tutto pratico) di riorganizzare il sistema dei finanziamenti federali all’accademia. Il testo rompe gli indugi, se mai ve ne fossero stati, e pone direttamente la ricerca sotto le mani della politica. Non è un messaggio subliminale: si leggono frasi che spiegano come “i fondi discrezionali devono, dove applicabile, condurre a compiere passi avanti dimostrabili nelle politiche del presidente”. In parole povere: chi non è allineato resta a secco. Con tanti saluti all’indipendenza. Un atteggiamento che ci si aspetterebbe a Pechino – o a Pyongyang – , non a Washington.

Fuga di scienziati?

Possiamo fermarci, anche se non è tutto. Basta, comunque, a fornire un’idea dello scontro in corso. E del resto, non serviva certo questo per rendere l’aria irrespirabile: il clima nelle università statunitensi negli ultimi anni si è fatto pesante per gli studenti, con rette insostenibili e cortili che sono diventati terreno di conquista politica da parte di destra e sinistra. La classe dirigente di domani, è il ragionamento, si forma qui.

Annalisa Bracco, oggi al Cmcc, 19 anni negli States insegnando al Georgia Institute of Technology 

Secondo Annalisa Bracco, diciannove anni negli States insegnando al Georgia Institute of Technology, lo scontro in atto negli atenei ha radici lontane: probabilmente risale indietro fino alla presidenza Obama, nella prima decade del Millennio, quando le università si sono trovate al centro di un’ondata liberal e politically correct che ha indispettito gli studiosi meno interessati a esporsi, a prescindere dallo schieramento. Con la reazione di Trump, la situazione è ovviamente peggiorata.

Rientrata in Italia ad aprile, oggi Bracco lavora al Cmcc (Centro euromediterraneo per i cambiamenti climatici), hub di ricerca italiano. “Il primo elemento del declino in corso si deve al fatto che gli atenei Usa sono carissimi per chi li frequenta, e questo ha rovinato abbastanza l’ambiente che c’era”, afferma in collegamento video con Green&Blue. Ma c’è un altro punto su cui riflettere, aggiunge la studiosa. “A mio parere, le iniziative di facciata non aiutano. Anche quando hanno un obiettivo condivisibile, come quelle focalizzate sulla diversity and inclusion. Il problema è che negli ultimi anni sono diventate l’unico punto di attenzione, almeno a livello di ricerca universitaria. E in certi casi si è creata una situazione veramente esasperata, con persone privilegiate al di là dei meriti scientifici solo per l’appartenenza a questa o quella categoria. Questo crea frustrazione. Per quello che ho visto, è a causa di questo, più che di Trump, che molti colleghi hanno cominciato ad andarsene. E che alla fine l’ho fatto anche io”.

Secondo Bracco, il problema è cominciato ben prima dell’insediamento del tycoon alla Casa Bianca per il secondo mandato. Anzi. L’ambiente accademico statunitense, spiega, in generale non si opporrebbe troppo alle politiche del presidente. “Le università della Ivy league (le più rinomate, ndr) si sono tutte piegate di fronte alle sue richieste, e lo hanno fatto molto in fretta, a parte Harvard, che si sta comunque accordando. Un esempio? Nel giro di una notte molti atenei hanno rimosso le pagine su diversity and inclusion presenti sui propri siti, cambiato le scritte sui bagni. Forse la California rappresenta un’eccezione, con la Ucla che si sta mettendo in moto per cercare di creare una rete; ma va considerato che la California è uno stato dove governano i democratici”.

“Sono ben contenta di essere andata via dagli States”, prosegue Bracco. “Ma la decisione è stata antecedente all’elezione di Trump, e la situazione che mi ha spinto a compiere questo passo in fondo è la stessa che ha fatto perdere alla sinistra le elezioni presidenziali: una certa ipocrisia di fondo, con politiche pensate per guadagnare i voti delle minoranze, e non per integrarle davvero”. Non solo. “Le spese amministrative degli atenei sono aumentate moltissimo negli anni anche per colpa dei democratici che non hanno fatto nulla per fermare la burocrazia, e questo ha ridotto le risorse disponibili”. Ma il sistema americano è ancora attrattivo, oppure il declino è inesorabile? “Continua a pagare molto”, afferma la studiosa. “e la questione economica conta. Se si decide di dividere la propria carriera tra ricerca e burocrazia gli stipendi sono ancora molto interessanti. Contano anche le risorse per i laboratori: l’Europa non può ancora competere, mentre la Cina negli ultimi dieci anni ci è arrivata”.

Tutti in Cina

Già, Pechino. Nelle grandi conferenze internazionali sul clima, le Cop, viene ancora considerata un paese in via di sviluppo con il corollario di obblighi annacquati sulla riduzione delle emissioni; in realtà è diventata una superpotenza. Nell’economia, nella ricerca. E anche nell’ambito della scienza green.

“In Cina si fa molta ricerca ambientale, non solo ingegneristica, ma anche di base”, riprende Bracco. “Basta guardare le pubblicazioni scientifiche, e la provenienza degli autori che firmano gli articoli per rendersene conto”. Il Dragone sa attrarre le menti più brillanti, “e non sono pochi quelli che fanno carriera negli Stati Uniti per poi andare – o tornare – lì. Trattamento economico e infrastrutture sono allo stesso livello di quelli americani”. A spingere gli scienziati lontano dagli States c’è anche il problema dei visti. “Oggi essere un dottorando o post-doc straniero in Usa non è facile: se si torna a casa, anche per esigenze familiari importanti, si rischia di non poter rientrare. Ce ne sono tanti nel limbo, anche tra i miei allievi”.

Lo scienziato americano venuto in Europa: “Colleghi terrorizzati”

Andrew Liebhold è uno scienziato statunitense che ha lavorato per 37 anni come dirigente nel servizio forestale governativo statunitense. Da qualche mese ha lasciato il paese, ed è venuto a vivere e fare ricerca in Europa, a Praga. Liebhold si occupa di specie invasive: in collegamento via Zoom ci conferma che qualcosa è cambiato negli ultimi anni nell’ambiente scientifico Usa. “Tanti colleghi sono in cerca di nuove opportunità”, dice. “Mi chiamano in molti per informarsi sulla mia scelta, e sapere come si sta qui da voi. Del resto, la comunità dei ricercatori è abituata a muoversi molto, e spostarsi non sarebbe un problema se ci fossero le condizioni giuste”.

Andrew Liebhold, scienziato americano, ha lavorato per 37 anni come dirigente nel servizio forestale governativo Usa 

L’Europa, prosegue Liebhold, è attraente per la qualità della vita e i finanziamenti che offre. “La scienza rimane scienza, anche con Trump”, prosegue. “Quello che è cambiato nell’ultimo anno è che, se qualcosa non piace al governo, l’esecutivo tende a nasconderla. Si sopprime quello che non si vuole vedere. Prendiamo il Bureau of Labor Stats: a Trump non sono piaciuti i dati pubblicati, e ha licenziato i vertici. Lo ritengo un tratto totalitario: ci sono intere agenzie federali cancellate dall’oggi al domani, ma anche programmi di monitoraggio ambientale, come quelli satellitari”.

L’Europa, per lo studioso, “è una potenza della ricerca, anche se c’è troppa burocrazia”. Liebhold, che ha radici tedesche, sottolinea un altro punto. “Qui da voi c’è meno sicurezza del lavoro per gli scienziati rispetto ai colleghi americani. Vedo pochi ricercatori certi del proprio posto, un fattore forse compensato dalla presenza di ammortizzatori sociali”. A bruciapelo: la comunità scientifica americana è spaventata da Trump? “Direi terrorizzata. Dalle sue politiche, e dalle sue purghe. E credo sia diminuita anche la produttività: perché se uno passa il tempo ad avere paura, chiaramente non vive bene”.

I programmi per attirare scienziati in Europa

L’Unione europea non sembra ancora pronta ad approfittare della situazione statunitense. Non con un piano strutturato per attirare donne e uomini provenienti dagli Usa. Esiste, però, un programma di riferimento per attrarre ricerca e innovazione dall’estero: è Horizon Europe, che dal 2021 al 2027 ha una dotazione finanziaria di 95,5 miliardi di euro. La sezione dedicata al clima ha un budget di 15,1 miliardi. Attualmente ci sono otto bandi aperti.

La Francia ha uno schema ad hoc per il clima. È stato presentato dal presidente Emmanuel Macron nel 2017 (all’indomani del primo ritiro di Trump dall’accordo di Parigi). Impossibile non vederci uno scatto d’orgolio. Si chiama “Make our planet great again”, canzonando il motto del tycoon newyorchese. “Fino a oggi in totale abbiamo supportato circa cinquecento scienziati da 78 diversi paesi, e le borse di studio nel 2025 sono state cento, il doppio rispetto all’anno precedente ”, spiega CampusFrance, che gestisce il programma. “Nel contesto di oggi il programma Mopga è più rilevante che mai. Seguiamo da vicino gli sviluppi negli Stati Uniti, e il presidente Macron ha riaffermato la determinazione ad accogliere gli scienziati impegnati contro il cambiamento climatico”, prosegue l’ente. “Se da un lato ci rincresce per le difficoltà degli scienziati all’estero, dall’altra pare vediamo questa situazione come un’opportunità per la Francia e l’Europa per rafforzare la loro expertise nell’ambito di ricerca e innovazione, e per posizionarsi come leader globali nelle scienze climatiche e ambientali”.

“Un aspetto prezioso di questo programma è che i ricercatori che accogliamo da tutto il mondo lavorano su questioni ambientali specifiche della loro regione”, conclude la portavoce, “affrontando al contempo anche le sfide ambientali globali. In questo modo il loro lavoro diventa una risorsa condivisa per il bene comune e la conservazione del nostro pianeta”.

E L’Italia? Abbiamo chiesto lumi al ministero dell’Università e della Ricerca. “Abbiamo alcuni programmi finalizzati al rientro degli scienziati”, rispondono da Roma. “C’è un finanziamento del Pnrr che stanzia 210 milioni di euro per trattenere o attirare 862 giovani ricercatori. Nessuno schema, però, è specifico sui temi ambientali e su quelli americani”. Potrebbe essere un’idea, dato che il cambiamento climatico colpisce il Mediterraneo e il nostro paese in maniera drammatica. E che la ricerca è il motore del pil.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml

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