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    Lavori green, il manager del riciclo: “Così trasformiamo in farina i rifiuti alimentari”

    Dalle idee in circolo sui banchi dell’università sino a creare un’impresa che fa dell’economia circolare, la lotta allo spreco alimentare e il riciclo, la propria missione. Unendo le competenze acquisite nelle aule di Biotecnologie dell’Università di Modena e Reggio Emilia alle esperienze di chi opera nel mondo del diritto, del commercio oppure della sostenibilità, un manipolo di giovanissimi ormai otto anni fa a Reggio Emilia ha dato vita come spin-off dell’ateneo a una startup chiamata Packtin, oggi diventata una piccola media impresa che dà nuova vita ai sottoprodotti alimentari. Gestita da quattro soci, tutti under 40, l’azienda ha avuto una visione che si è poi sviluppata con il tempo, inventando un processo innovativo e sostenibile per recuperare una lunga serie di sottoprodotti, come le bucce di arance o pomodori, oppure quelle dei mirtilli e dello zenzero scartate da chi produce succhi, per trasformare il tutto in farine vegetali.

    Andrea Bedogni, classe 1990, nato a Scandiano (RE), è oggi uno dei manager che insieme ai soci si occupa del riciclo e del recupero dei sottoprodotti: per lui lavorare in una impresa che fa del recupero una missione è sembrato quasi una continuazione della sua grande passione, il vintage. Se è finito ad occuparsi di una professione green, basata sul riciclo, probabilmente era destino: “Sono cresciuto in una zona di campagne e natura e allo stesso tempo ho sempre avuto una passione per i vecchi oggetti che si possono recuperare e riaggiustare. Forse ero destinato a lavorare nell’economia circolare, anche se io mi sono unito al gruppo dopo la sua fondazione” racconta. Geometra e laureato in Scienze giuridiche, Bedogni non ha una formazione prettamente green ma “quando ho iniziato ad affiancarmi a una realtà come Packtin ho subito iniziato a lavorare e studiare per applicare al meglio due concetti in cui credo molto, la sostenibilità e il potere dell’economia circolare”. La sua passione per il riutilizzo ha poi avuto “un riflesso anche sulla mia professione attuale. Ho iniziato applicando le mie conoscenze giuridiche per poi virare su tutto quello che comporta la gestione nel mondo del recupero, soprattutto in una realtà, la nostra, che ha sede nel cuore della Food Valley”.

    L’editoriale

    Lavoro, quante balle sulla green economy

    di Federico Ferrazza

    05 Marzo 2025

    Bedogni spiega che per lavorare nel mondo del riciclo agroalimentare bisogna sempre avere “visione ed essere in evoluzione”, ragionare per esempio “sulle opportunità di come recuperare ciò che altrove finirebbe al macero e trasformarlo in un prodotto con un nuovo valore, magari costruendo anche tutto ciò che è necessario per farlo – impianti compresi – per ridare vita ai sottoprodotti”. Ad esempio, nel cuore dell’Emilia-Romagna, regione da 360mila tonnellate all’anno di sottoprodotti dell’agroalimentare, “c’era bisogno di lavorare per ridurre lo spreco e mostrare i vantaggi sia ambientali, sia per la salute delle persone e dell’economia, che può apportare il recupero. Oggi noi per ogni chilo di farina che produciamo recuperiamo cinque chili di prodotti che altrimenti sarebbero stati buttati via, talvolta anche andando ad ingolfare discariche o inquinare falde acquifere”.

    Riuscire ad ottenere questi primi successi, sostiene Bedogni, all’interno di una impresa del riciclo è “sempre frutto di studio e confronti: quelli interni – come nella nostra azienda dove ancora oggi c’è anche il professore universitario che ha formato alcuni dei soci e ha seguito lo spin-off della startup – e quelli esterni che guardano ad altri casi di successo, magari anche esteri, e alle nuove tecnologie oggi a disposizione”. Spesso, aggiunge, quando si ricicla per mestiere “ci si porta un po’ di lavoro anche nelle abitudini di casa, e questo è un bene: abbiamo condiviso ad esempio il fatto di fare più attenzione, durante la raccolta differenziata e lo smaltimento, ai materiali di cui sono fatti i rifiuti, chiedendosi come saranno recuperati”.

    Infine, fra gli scopi attuali e futuri dell’impresa reggiana c’è anche quella di far crescere nuovi professionisti green: “Stiamo già inserendo tirocinanti e studenti: arrivano da percorsi di studio vari e diversi, ma a tutti è richiesto, per fare questo lavoro, un impegno e uno sforzo nel credere nell’importanza dell’economia circolare, qualcosa che la grande industria ancora non ha capito fino in fondo, ma che per noi è il futuro. Speriamo infatti diventi l’economia di tutte le aziende: farebbe bene sia all’ambiente che al portafoglio”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, Realacci: “Le professioni si devono ripensare in modo sostenibile”

    “Tutte le professioni saranno attraversate dal ricambio di competenze richiesto dalla sostenibilità”. Ermete Realacci segue da anni le evoluzioni dell’economia green con la fondazione da lui presieduta, Symbola. Il rapporto annuale GreenItaly, realizzato con Unioncamere, è un osservatorio che permette di monitorare l’emergere di nuovi lavori legati allo sviluppo sostenibile.

    Quanti italiani lavorano nella green economy?
    “Secondo il nostro ultimo rapporto sono 3,1 milioni gli occupati legati a una professione verde, il 13,4% del totale. Tra le nuove assunzioni sono il 35-40%, mentre nella ricerca e sviluppo quelli che devono avere competenze green rappresentano l’86% dei nuovi assunti”.

    Che succederà nei prossimi anni?
    “Il cambiamento riguarderà tutte le professioni. Prendiamo l’agricoltura: oggi qualcuno pensa di poter produrre cibo senza incrociare il tema della sostenibilità? Nel rapporto GreenItaly immaginiamo quali saranno le figure professionali più richieste. Tra queste il programmatore agricolo della filiera corta. O il cuoco sostenibile, che dovrà prestare particolare attenzione al tipo di prodotti che utilizza, riducendo al massimo gli sprechi e puntando sul riciclo”.

    I cambiamenti climatici e gli eventi meteo estremi come incideranno sul mercato dei lavori sostenibili?
    “Serviranno architetti di paesaggi sostenibili. Sono professionisti capaci di disegnare spazi verdi e riqualificazioni urbane ispirate all’idea del rammendo e non della demolizione e di nuova cementificazione. In alcune aree del Paese le ondate di siccità richiederanno le competenze di idrologi. Ma serviranno anche professioni capaci di valutare i danni e altri in grado di ripararli…”.

    A cosa si riferisce?
    “Uno dei comparti più investiti dai cambiamenti climatici è quello delle assicurazioni: per le compagnie capire quanto far pagare una polizza è un problema e può diventarlo anche per gli assicurati. In occasione delle grandinate violentissime che hanno colpito il Veneto diversi mesi fa sono state danneggiate molte autovetture che le assicurazioni hanno cercato di non risarcire. Ma anche quando la pratica è andata a buon fine, il tempo richiesto per le riparazioni è stato lunghissimo: ci sono voluti molti mesi. E questo perché c’era la fila dai fornitori di pezzi di ricambio e dai carrozzieri della zona. Mancano figure tecniche e in molti settori ci sarà bisogno di gente formata per intraprendere mestieri legati al cambiamento. Restando alle auto, meccanici ed elettrauti dovranno diventare meccatronici, ovvero professionisti certificati chiamati a integrare le conoscenze tradizionali con l’elettronica e l’informatica”.

    L’economia circolare si basa sul riciclo e il recupero dei materiali: che mestieri si affermeranno in questo comparto?
    “Per esempio, il manager del riciclo, una nuova figura sempre più richiesta dalle aziende per ridurre i costi dello smaltimento. O il ricondizionatore tech, capace di garantire che il prodotto rigenerato sia identico per caratteristiche e prestazioni a quello nuovo”.

    Attualmente quali sono le aree del Paese che cercano più lavoratori green?
    “Secondo i dati del nostro rapporto, la Lombardia è la regione con il maggior numero di contratti relativi a green jobs la cui attivazione era prevista dalle imprese nel 2023. Seguono, ma abbastanza staccati, Veneto, Emilia-Romagna e Lazio. E in queste quattro regioni le attivazioni di posti green sono state 99.710 e rappresentano il 52% del totale”.

    Come si preparano i giovani alle opportunità di lavoro legate alla sostenibilità?
    “Per orientare i giovani, bisogna comunicare quanto loro sta accadendo. E occorre adeguare il sistema formativo: rispetto ai tedeschi abbiamo perso quella grande quantità di scuole professionali di qualità che erano l’ossatura del sistema produttivo italiano. È una partita aperta, ma già leggere il problema è parte della possibile soluzione”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, Piero Genovesi: “La riscossa degli specialisti della biodiversità”

    “Quando ho fatto il mio primo colloquio di lavoro, alla fine degli anni ’80, non avevo mai sentito la parola biodiversità”, racconta Piero Genovesi, responsabile dell’area Conservazione della Fauna dell’Ispra e autore di studi fondamentali sulle specie invasive. “Oggi invece è un ambito dove sono richieste competenze e professionalità molto diverse tra loro. Non è più semplice ricerca scientifica, è gestione, pianificazione, comunicazione e innovazione”. Anche perché la biodiversità non riguarda solo la natura, ma anche la garanzia di risorse sane e redditizie. La Ue stima che ogni euro investito nel ripristino degli ecosistemi possa generare un ritorno economico da quattro a trentotto volte superiore.

    I lavori legati alla biodiversità sono ritenuti quasi un hobby. Ma è davvero così?
    ”No, anzi, vedo una crescente richiesta di professionalità in questo ambito. Il bisogno di monitorare, gestire e conservare la biodiversità sta aumentando. Sono richieste competenze elevate: non si parla più solo di vertebrati e piante, ma anche di funghi, batteri, insetti, suolo e microrganismi. Per questo servono specialisti in grado di analizzare aspetti legati agli ecosistemi sempre più complessi. Inoltre, c’è una crescente domanda di esperti in educazione ambientale, divulgazione e consulenza per diverse aziende, comprese quelle agricole e forestali”.

    Quali sono le competenze più richieste?
    “Quelle con elevate competenze in settori specifici, come la genetica ambientale, la bioacustica, l’analisi dei big data; ma anche l’utilizzo di strumenti avanzati come fototrappole, droni e Intelligenza artificiale. Ad esempio, oggi possiamo raccogliere un bicchiere d’acqua da uno stagno e identificare tutte le specie presenti grazie al DNA ambientale. È fondamentale una grande flessibilità: chi lavora in questo settore deve sapersi adattare e collaborare con climatologi, geologi ed ecologi”.

    Come è cambiato il settore rispetto a quando ha iniziato?
    “Nel 1988 il termine “biodiversità“ era praticamente sconosciuto. Si parlava di protezione della fauna, ma in modo molto più limitato. Negli anni ho assistito a una trasformazione radicale: oggi affrontiamo scenari molto più complessi, con strumenti innovativi e una maggiore consapevolezza. E soprattutto con più urgenza. Secondo gli studi europei, l’81% degli habitat europei si trova in stato ‘povero’ o ‘scadente’”.

    L‘Italia ospita oltre 60.000 specie animali, più di un terzo della fauna europea. Quali sono le principali sfide per la biodiversità nel nostro Paese?
    “La più grande minaccia è la perdita di habitat. Negli ultimi decenni le foreste sono aumentate, ma al tempo stesso coste, fiumi e zone agricole hanno subito una forte devastazione. L’agricoltura intensiva, la cementificazione e l’inquinamento restano le principali cause di perdita di biodiversità. Anche le specie invasive rappresentano un problema crescente. Infine, il cambiamento climatico sta amplificando queste minacce”.
    Eppure abbiamo visto le proteste dei trattori, ma anche il ritorno di Trump e un Parlamento europeo più scettico. Come si può convincere anche i critici delle politiche ambientali?
    ”La biodiversità non è un costo, ma un vantaggio. Senza un suolo sano, l’agricoltura non ha futuro. La perdita di insetti impollinatori, ad esempio, mette a rischio intere filiere produttive. Dobbiamo puntare su pratiche innovative come l’agro-fotovoltaico e l’agricoltura di precisione. Ci saranno rallentamenti politici, ma la strada è segnata e il cambiamento inarrestabile”.

    Cosa consiglia ai giovani che oggi immaginano di lavorare nella biodiversità?
    “Studiate molto, specializzatevi, cercate esperienze pratiche sul campo e non abbiate paura di innovare. Il mondo della conservazione ambientale ha bisogno di persone curiose, aperte al cambiamento e disposte a confrontarsi con nuove tecnologie. Ci sono bandi, borse di studio, contratti di ricerca: le porte sono spalancate”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, Cuppoloni: “Le tecnologie pulite aiuteranno l’Europa a tornare competitiva”

    Federico Cuppoloni è alla guida di Cleantech for Italy, iniziativa lanciata a giugno 2024 con il supporto di Breakthrough Energy di Bill Gates che ha come obiettivo quello di porre le tecnologie pulite al centro della strategia industriale italiana, non solo come leva di decarbonizzazione e sostenibilità, ma come motore di competitività, sicurezza energetica e sviluppo socioeconomico. Il settore ha infatti il potenziale per rafforzare il tessuto industriale del Paese, attrarre investimenti strategici e creare nuove opportunità di lavoro, contribuendo alla crescita di aree chiave per l’economia nazionale.

    Il settore cleantech italiano continua a evolversi, mostrando dinamicità in un contesto economico globale complesso. Secondo Cleantech for Italy e MITO Technology, che rilasceranno nei prossimi giorni il Cleantech for Italy 2024 Annual Briefing, nel 2024 gli investimenti complessivi in tecnologie verdi hanno raggiunto i 230,8 milioni di euro. Pur registrando un calo rispetto al 2023, il settore ha mantenuto un’intensa attività di investimento: nel solo comparto Venture Capital si sono concluse 72 operazioni, un record storico sostenuto dalla nascita di nuovi fondi specializzati. Positivo anche l’andamento degli strumenti di debito, trainato in particolare dagli investimenti della Banca Europea per gli Investimenti in Tau Group e BeDimensional.

    “L’Italia ha compiuto progressi significativi nel sostegno alle tecnologie emergenti, grazie alla nascita di veicoli di investimento dedicati. L’aumento dei capitali disponibili sta spingendo sempre più soluzioni fuori dai laboratori e verso il mercato. Tuttavia, la fase cruciale di scale-up resta in gran parte scoperta: le imprese italiane faticano ad accedere a strumenti di blended finance, mentre un contesto regolamentare poco competitivo le penalizza rispetto ad altri mercati. Questo ostacola l’industrializzazione dell’innovazione, privando il sistema produttivo e l’economia italiana di un potenziale trasformativo.

    Il vero paradosso? Mentre gli imprenditori cleantech stanno rivoluzionando la tecnologia, finanza e politica non hanno saputo innovare con la stessa rapidità. La buona notizia è che non è troppo tardi per colmare questo gap: il fermento attorno queste tecnologie in Italia è innegabile e offre un’opportunità concreta per accelerare la transizione industriale del Paese.”

    In Italia, il dibattito è concentrato sull’alto costo dell’energia e sulle implicazioni per il settore industriale. Che ruolo hanno le tecnologie verdi in questo scenario?
    Questo è un tema di grande rilevanza, che necessita di misure emergenziali tanto quanto di una visione di medio e lungo termine per ridefinire lo scenario energetico industriale italiano. La crisi post-2022 ha mostrato chiaramente che la dipendenza dal gas ha reso il nostro sistema industriale fragile e vulnerabile agli shock dei prezzi. Per rendere le imprese più indipendenti da queste dinamiche, è fondamentale accelerare la penetrazione delle rinnovabili, sostenendola con una regolamentazione agile, investimenti in infrastrutture e nuovi strumenti di mercato, come i Power Purchase Agreements (PPA), che garantiscono prezzi più stabili e prevedibili, disaccoppiandoli da quelli del gas.

    In questo contesto, il cleantech diventa un complemento essenziale, permettendo di sfruttare al meglio l’energia rinnovabile e ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Le tecnologie più immediate sono quelle legate all’accumulo energetico – incluso quello a lunga durata (Long-Duration Energy Storage, LDES), fondamentale per integrare le rinnovabili, migliorare la stabilità dell’approvvigionamento e ridurre la volatilità dei prezzi – e le soluzioni di potenziamento della rete, per la modernizzazione e il rafforzamento della rete elettrica. Allo stesso tempo, ci sono opportunità concrete legate all’elettrificazione diretta della domanda industriale, con tecnologie già disponibili per l’industria, come pompe di calore industriali e batterie termiche, che possono già oggi fornire calore a basse e medie temperature, abbattendo i consumi di gas. Grazie a processi di innovazione in corso, le batterie termiche potranno arrivare fino a 1.500°C, aprendo la strada alla decarbonizzazione di settori hard-to-abate.

    L’Italia ha eccellenze in molti di questi ambiti, da Energy Dome per lo stoccaggio a Magaldi per le batterie termiche, e un tessuto industriale con le competenze per guidare questa transizione. Tuttavia, per arrivare a un’adozione su larga scala, serve una politica industriale ambiziosa che mobiliti risorse finanziarie (sia pubbliche che private) e coordini gli incentivi in modo efficiente e mirato, evitando frammentazioni. Allo stesso tempo, è essenziale una regolamentazione agile e stabile, capace di costruire business case solidi per le imprese e attrarre investimenti di lungo periodo. Senza un intervento strategico, il rischio è che la transizione industriale avvenga in modo disordinato o che l’Italia resti indietro rispetto ai Paesi che stanno già consolidando filiere industriali competitive.

    Qual è il ruolo di Cleantech for Italy in questo disegno di politica industriale e quali sono le vostre raccomandazioni per i decisori?
    Cleantech for Italy nasce per riunire i principali attori della catena dell’innovazione verde in Italia e contribuire a definire un percorso che permetta al nostro Paese di coniugare la decarbonizzazione con nuove opportunità economiche, industriali e strategiche. La nostra coalizione accoglierà università, centri di ricerca, aziende leader nelle tecnologie pulite, fondi di investimento e banche, coprendo così l’intero ciclo di sviluppo dell’innovazione.

    L’Italia ha compiuto passi importanti nello sviluppo tecnologico, ovvero nella fase intermedia tra la ricerca scientifica e la dimostrazione industriale. L’emergere di fondi specializzati e il ruolo di CDP Venture Capital hanno rafforzato questa fase, dotando il Paese di risorse adeguate per sostenere gli innovatori fino alla maturazione della tecnologia. Tuttavia, restano due lacune fondamentali da colmare.

    La prima riguarda il passaggio dalla ricerca all’impresa. Nonostante l’alta qualità della ricerca scientifica, l’Italia genera ancora troppo poche aziende cleantech. Un ostacolo chiave è la frammentazione dei meccanismi di trasferimento tecnologico tra università e centri di ricerca, che limita la capacità di trasformare l’innovazione in progetti imprenditoriali concreti. È essenziale armonizzare questi processi, creando un ecosistema più coordinato e accessibile per i ricercatori e i primi investitori.

    Un’altra lacuna cruciale riguarda il mix di strumenti finanziari e regolatori necessari affinché una tecnologia possa superare le fasi critiche di dimostrazione tecnologica, tipicamente associate a progetti First-of-a-Kind (FOAK). Per colmare questo divario, è fondamentale potenziare gli strumenti di blended finance, combinando equity, debito e grant in modo da ridurre il rischio percepito dagli investitori e incentivare l’ingresso di capitali privati.

    Per questo motivo, proponiamo con forza la creazione di strumenti di garanzia dedicati. Queste garanzie non solo attrarrebbero capitali privati, ma ridurrebbero anche l’esposizione dello Stato, rendendo l’intervento pubblico più efficiente e scalabile. Parallelamente, è necessario rafforzare le politiche di incentivazione della domanda, affinché queste tecnologie possano accedere a mercati di sbocco e diventare investimenti competitivi su scala industriale.

    Se vogliamo che l’innovazione verde prodotta in Italia si trasformi in un vantaggio competitivo per il Paese, dobbiamo costruire un percorso che le permetta di arrivare sul mercato e affermarsi su scala industriale. Creare un contesto più favorevole per la nascita di startup, sbloccare strumenti di finanziamento adeguati per la fase di dimostrazione e rendere il quadro regolatorio più attrattivo per gli investitori sono azioni imprescindibili per fare dell’Italia un hub industriale nel cleantech.

    Ha citato il Clean Industrial Deal. Qual è la vostra posizione su questo nuovo programma politico europeo?
    L’attuale crisi industriale in Europa lascia pochi dubbi sull’importanza del Clean Industrial Deal per rilanciare la competitività del nostro continente. Il focus sulla competitività annunciato dalla Commissione Europea attraverso la sua Bussola per la competitività è un segnale positivo. Da tempo, nel settore sottolineiamo la necessità di affiancare alle politiche di net zero un’attenzione costante alla creazione di un ecosistema industriale competitivo, capace di generare nuovi campioni europei in settori emergenti.

    L’Europa ha già dimostrato la sua capacità di innovare e competere sui mercati globali con esempi di eccellenza, come la già citata Energy Dome. Tuttavia, per far crescere il cleantech europeo e consolidare una leadership industriale, il Clean Industrial Deal deve innescare due segnali di mercato decisivi, che abbiamo ribadito in una lettera indirizzata alla Commissione Europea e firmata insieme a oltre cento innovatori e investitori europei.

    Anzitutto, un forte shock della domanda per accelerare l’adozione di tecnologie innovative nel tessuto industriale europeo. Questo permetterebbe di rafforzare settori chiave, come l’acciaio, i trasporti e la chimica, mitigando gli effetti dei costi energetici delle catene di approvvigionamento globali. In secondo luogo, meccanismi di de-risking pubblici per attrarre capitali privati su larga scala. Oltre a garanzie pubbliche e veicoli di blended finance, strumenti come i Carbon Contract for Difference (CCfD) sono essenziali per sostenere gli investimenti in infrastrutture critiche e nuovi impianti produttivi. LEGGI TUTTO

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    Lavoro, quante balle sulla green economy

    In una delle scene più iconiche di “The Apprentice”, il film sulle origini di Donald Trump, l’allora giovane tycoon dice: “La verità è solo quella che tu dici”. Non contano i fatti e la realtà, insomma. L’importante è la propaganda. E di quella contro la green economy ce n’è a tonnellate. Lo schema è sempre lo stesso: c’è un problema (nel caso specifico: la crisi economica, soprattutto della classe media occidentale), si individua un nemico immaginario e gli si dà addosso per trovare consenso. Anche se gli elementi a supporto dell’attacco non hanno alcun riscontro. Per esempio: l’energia da fonti rinnovabili non è conveniente; e infatti lo abbiamo visto con i costi alle stelle del gas importato dalla Russia e altre democrature. Oppure: le vetture elettriche stanno mettendo in ginocchio l’industria automotive; con la crisi dei consumi, siamo sicuri che, se sul mercato ci fossero solo auto a benzina o diesel, i concessionari sarebbero tutti pieni?

    Le verità e soprattutto i fatti sono altri. Proviamo quindi a smontare uno dei principali miti degli avversari dell’ambiente: l’occupazione (e quindi anche la crescita) è penalizzata dalla green economy. Ma in Italia, per esempio, i numeri dicono che i lavoratori green sono quasi 3,2 milioni, il 13,4% del totale, e il 35% dei nuovi contratti nel 2023 sono stati per professionisti verdi: ingegneri, bioinformatici, certificatori, installatori, designer, chef e altre figure le cui storie trovate nelle prossime pagine.Per questo anche le università si stanno attrezzando per formare le nuove professionalità richieste dal mercato. Ma non basta: se le cose non cambieranno, il divario tra domanda – più alta – e offerta di talenti green sarà sempre più ampio, raggiungendo il 101,5% nel 2050 (dato globale).E le cose possono cambiare solo con una visione politica e strategica dei prossimi decenni. Per guardare in casa nostra, l’Europa ha un’occasione storica. Presa nella morsa di due potenze ostili – Cina e Usa (le prime mosse dell’amministrazione americana non sono certo quelle di un alleato) –, può decidere di investire su ricerca scientifica e green economy per rilanciarsi e competere alla pari. Come? Nelle prime settimane della sua presidenza, per esempio, Trump ha firmato una serie di decreti che minano la ricerca pubblica statunitense, con tagli ai fondi e limitazioni alla sua libertà di azione. È un’opportunità unica per l’Europa: portare da questa parte dell’Atlantico i tanti ricercatori penalizzati dalle decisioni della Casa Bianca. Servono soldi per attrarli e un progetto (sociale e industriale) per il futuro. E il denaro non è il primo dei problemi.

    Il nuovo numero di Green&Blue, dedicato alle professioni green, sarà in edicola mercoledì 5 marzo con Repubblica e anche online LEGGI TUTTO