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    Lavori green, le mille facce di Fill Pill: ridere con la crisi del clima

    Divulgatore coatto della sostenibilità, come lui stesso si definisce, ma anche musicista, comico, creator e una missione nel cuore: la tutela dell’ambiente. Filippo Piluso, 29 anni, in arte Fill Pill, non ha il profilo esatto del “professionista green”, ma forse lo è più di molti altri. Nei suoi stand up, dove affronta anche il tema […] LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’investimento verde che fa bene alle imprese

    La prima regola della finanza sostenibile è che non è un fight club. O meglio, come spiega Francesco Bicciato, direttore generale del Forum per la Finanza Sostenibile: “È un nuovo modo di fare finanza. Dispiega i suoi effetti a medio-lungo termine, quindi non è finanza speculativa, e mantiene il legame con l’economia reale“. Fin qui sembrerebbe una mano di vernice sul già detto o già fatto, ma in realtà la finanza sostenibile “integra gli elementi sociali e ambientali di buona governance, quelli che comunemente vengono definiti Esg, environmental, social and governance“. Ed è questo l’elemento dirompente, soprattutto se si considera che la specialista Morningstar ha stimato a livello globale un valore patrimoniale per i fondi sostenibili superiore ai 3mila miliardi di dollari.

    “Quando sottolineo il fatto che vengono integrati elementi Esg intendo che non sono complementari rispetto ai fattori economico-finanziari, ma ne sono parte integrante“, puntualizza Bicciato. In pratica entrano in gioco impegni sul fronte ambientale e sociale, oltre alle scelte di gestione. Si pensi ad esempio all’agricoltura biologica, la mobilità sostenibile, le politiche sui rifiuti, le condizioni dei lavoratori, il rispetto delle regole fiscali, il sostegno alle categorie vulnerabili; tutto deve essere oggetto di attenzione. “Si chiama sostenibilità tripartita e si basa sui principi germogliati con il rapporto Brundtland del 1987. Un po’ come la metafora dello sgabello a tre gambe: se ne tagli una, cade. Se l’impresa è virtuosa dal punto di vista sociale e ambientale, ma i fondamentali economici sono insufficienti, non c’è sostenibilità“.

    La finanza sostenibile è esplosa – in senso buono – grazie all’Accordo di Parigi sul clima del 2015 (COP21). “Dove sostanzialmente per la prima volta si è definito bene il tema dell’emergenza legata al cambiamento climatico. C’è stata una presa di coscienza da parte degli investitori, ovvero che è molto più importante investire in progetti green che continuare a pagare per l’effetto delle catastrofi naturali“, sottolinea Bicciato. Ecco, forse quella è la chiave di volta per comprendere che il tema è pre-politico: si tratta di convenienza economica.

    La finanza sostenibile, che si parli di bond, equity o altri strumenti, non è quindi filantropia ma analisi accurata di criteri che vanno incontro a un piano più grande. Il problema, secondo l’esperto, è che quando il settore è aumentato nelle dimensioni ha iniziato ad attirare critiche più o meno giustificate, che peraltro, dati alla mano, “vengono affrontate e smontate, utilizzando un criterio science-based, nel nostro ultimo paper consultabile sul sito ufficiale del Forum“.

    Spesso si dimentica che l’84% della raccolta globale dei prodotti finanziari Esg è in Europa, contro l’11% degli Stati Uniti. Il direttore del Forum ricorda che questa leadership ha connotato l’identità della finanza sostenibile e anche se emergono criticità e correzioni di rotta da compiere ciò non vuol dire sia tutto da riscrivere. “Il rapporto Draghi domanda una semplificazione della normativa poiché troppo corposa. Concordo, ma l’importante è non derogare ai principi fondanti dello sviluppo sostenibile. La tassonomia è in divenire, perché alcuni elementi cambiano nel tempo“ ma il destino di alcuni settori appare segnato. “Il carbone scomparirà con il compimento della transizione energetica, così come il lavoro correlato, ma ci sono già studi, come ad esempio quello dell’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili, che prevede sempre più green jobs, destinati a superare i posti di lavoro persi nelle fossili“.

    Nello specifico l’agenzia ha previsto 139 milioni di posti di lavoro nel settore energetico entro il 2030, di cui oltre 74 milioni nei settori dell’efficienza energetica, dei veicoli elettrici, sistemi di alimentazione e idrogeno. “E l’Italia potrebbe sfruttare questo treno giocando la carta della formazione e riqualificazione perché abbiamo un potenziale incredibile ancora da sviluppare nelle rinnovabili. Scommetto anche su un’Intelligenza artificiale etica e democratica, con un sostanziale impegno europeo. E infine per il grande tema delle terre rare la soluzione a mio parere è nella cooperazione internazionale“, conclude Bicciato. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’educatore ambientale: “Dalla scuola si crea un mondo più sano e equo”

    Un po’ insegnante, un po’ naturalista. Pedagogo, esperto di scienze naturali e di ecologia, guida escursionistica e pure divulgatore. Niente è più attuale della figura dell’educatore ambientale. Nuova perché la materia Sviluppo Sostenibile è da poco entrata nei pro grammi scolastici di ogni ordine e grado, innovativa perché finalmente anche durante le ore di Educazione civica, da settembre 2024 si parla anche di rispetto della natura con la stessa dignità con cui viene spiegata ai ragazzi la Costituzione. Temi che prima erano lasciati alla discrezionalità e sensibilità dei singoli docenti oggi sono diventati obbligatori e termini come “sostenibilità”, “biodiversità”, “raccolta differenziata” e “spreco alimentare” anche per gli alunni più piccoli, sono oggi familiari. Perché, si sa, quando si parla di educare i bambini le parole contano quanto il buon esempio.

    “Il linguaggio è importante per spiegare qua li sono i comportamenti che fanno bene all’ambiente”, spiega Martina Alemanno, responsabile dell’Ufficio Educazione e Formazione per il Wwf Italia. In pratica, definisce la strategia educativa dell’organizzazione e ne coordina l’attuazione a livello nazionale. Un ruolo complesso, visto che si tratta di preparare studenti e insegnanti ad affrontare sfide future come il cambiamento climatico e la sostenibilità ambientale. Tanto per citarne un paio.
    “Educare è come piantare un seme”
    Tenendo anche in conto che ciò che bambini e ragazzi vedranno fare a scuola sarà riportato in famiglia. ”Per questo sono convinta che l’educazione ambientale è come piantare un piccolo seme. All’inizio, può sembrare una cosa da poco, ma con il tempo e le giuste cure può crescere e diventare forte” spiega ancora Alemanno. Bello, ma quanta responsabilità? ”Per fortuna, insegnanti e alunni hanno accolto questa novità con entusiasmo. Certo, ci sono ancora delle sfide da affrontare, come la mancanza di risorse e di supporto, ma la passione e l’impegno non mancano, e i risultati si vedono”, racconta la manager del Wwf che per far capire la professione dell’educatore ambientale porta l’esempio di quanto hanno realizzato i ragazzi di un liceo di Ceccano, in provincia di Frosinone.
    L’esempio dei ragazzi di Ceccano
    Un progetto nato e condotto a scuola durante le ore di Educazione ambientale e che poi ha vinto anche il Contest Urban Nature Wwf 2023-2024. Tema del lavoro dei ragazzi, l’importanza degli insetti impollinatori per l’ambiente. Prima, hanno chiesto al dirigente scolastico di evitare lo sfalcio delle erbe selvatiche in un angolo del cortile, per incrementare la presenza degli impollinatori, poi hanno avviato il loro studio. ”Questi ragazzi non solo hanno presentato un progetto ben strutturato, con interviste, azioni concrete intraprese, ma hanno anche continuato proponendo al Comune dove è ubicata la scuola di praticare lo sfalcio selettivo anche negli spazi verdi del territorio, richiesta tra l’altro accolta. Per noi è stato un grande successo, vedere ragazzi che diventano interlocutori attenti e propositivi con gli enti e U che praticano la cittadinanza attiva e consapevole”.
    “Mostrare le azioni positive”
    Insegnare dunque non basta, bisogna saper coinvolgere i ragazzi e i bambini. Perché niente come questa materia ha bisogno di una parte pratica: mostrare piccole azioni, come ad esempio evitare di sprecare l’acqua, non usare la plastica, fare la raccolta differenziata sono importanti. Ma c’è anche un altro aspetto: riuscire a trasmettere ai cittadini di domani valori come il rispetto per la natura, la solidarietà e la consapevolezza di quanto le proprie azioni sia impor tanti anche per la comunità. ”Ecco perché gli educatori ambientali devono possedere una solida preparazione sia scientifica che pedagogica – sottolinea Martina Alemanno – e non basta ancora, perché è fondamentale avere una profonda passione per l’ambiente e la sostenibilità, oltre la capacità di coinvolgere gli studenti. Per questo al Wwf orientiamo i nostri sistemi educativi su tre momenti interconnessi: insegnare la natura; l’educazione in natura e l’educazione attraverso la natura. L’obiettivo? Fornire a ognuno gli strumenti in grado di prende re decisioni consapevoli”.
    Come diventare educatore ambientale
    Per diventare educatore ambientale ci sono diverse strade: ci si può iscrivere alla facoltà di Scienze Ambientali o Agraria, oppure frequentare un master post laurea di Scienze ambientali. ”’importante, però, è non smettere mai di imparare. Soprattutto dai più giovani”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, il paesaggista Antonio Perazzi: “Restituiamo strade e piazze alla biodiversità”

    La natura è meravigliosa anche perché dimostra come il nostro sistema economico non abbia niente a che vedere con l’economia dell’ambiente. E il paesaggista spesso si trova a metà strada tra due mondi che parlano linguaggi diversi. Può decidere di piantare alberi, ma questa azione ha un costo molto alto, e poi c’è la manutenzione, che è altrettanto onerosa. Oppure può decidere di assecondare la natura, perché gli offre sempre la possibilità di fare da sola. Innamorato del mondo vegetale, Antonio Perazzi, scrittore, botanico e paesaggista milanese d’origine toscana, teorizza il giardino selvatico, dove le piante sono libere di crescere e riprodursi. Le considera organismi affascinanti e generosi, molto più capaci di adattarsi rispetto agli umani. Noi ragioniamo sempre da individui, mentre le piante ragionano come società e pensano alle generazioni successive.

    Un albero, quando è stressato, produce un’enorme quantità di semi, perché sa che i figli hanno maggiori possibilità di adattarsi, di spostarsi quel poco che gli basta per crescere.

    Ma come si forma un paesaggista? Perazzi, oltre allo studio, ha viaggiato molto, fin da giovanissimo, dall’Alaska al Giappone, dalla Cina all’Himalaya, scoprendo sul campo una varietà straordinaria di ambienti e paesaggi. E poi ha fatto del parco di famiglia, sulle colline del Chianti, il suo laboratorio: “Il mio giardino a Piuca è stato una grandissima fonte di ispirazione e lo è ancora”.

    In uno dei suoi libri – Il paradiso è un giardino selvatico – descrive dettagliatamente ogni istante dell’arrivo nel suo Eden, in una notte di primavera. È È una vera e propria immersione in un mondo altro, dove il silenzio è sovrano. Descrive la purezza della notte stellata, la completa mancanza di luce artificiale, il mantra dei grilli, l’aria saporita, umida e fresca. E poi gli animali selvatici: il ghiro, il capriolo, l’airone, le carpe, le lucciole dove l’erba è alta e i fossi umidi, il cardellino, la lucertola. La professione, però, non è tutta poesia e richiede formazione continua. “Il paesaggista deve coniugare il punto di vista dell’agronomo, che vuole produrre il massimo da ogni terreno; quello dell’architetto, che mira a costruire per dare funzioni; quello del forestale, che ragiona di cicli su scala ecologica”.

    Sostenibilità

    Lavori green, il bioarchitetto: “Costruiamo secondo le leggi della natura”

    di Marco Angelillo

    28 Marzo 2025

    E poi c’è il vento della sensibilità culturale. Molto interessante, a detta di Perazzi, l’attuale passaggio storico: “Fino a ieri c’era ogni buona intenzione di rispettare l’ambiente, di cercare di diminuire l’impatto, di consumare meno terreno, di piantare più alberi. Oggi è scattato qualcosa di opposto: torniamo a trivellare, a estrarre, ci armiamo e chiudiamo i confini. Tutto sta avvenendo con una rapidità straordinaria, da una settimana all’altra”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, la bioinformatica: “Al computer e in laboratorio per innovare l’agricoltura”

    “Definirei la bioinformatica come un campo interdisciplinare che unisce la biologia e l’informatica per analizzare dati biologici tramite modelli matematici e statistici avanzati”, spiega con scioltezza Elena Del Pup, giovane studiosa italiana attualmente dottoranda in Bioinformatica all’Università di Wageningen nei Paesi Bassi e nel 2024 inserita da Forbes nella classifica giovani leader del futuro nella categoria “Impatto sociale”.

    E fin qui potrebbe sembrare un mondo distante dal quotidiano, qualcosa da laboratorio. In realtà ”è una strategia che può voler dire scoprire nuovi farmaci in una maniera completamente diversa”. Magari nuovi antibiotici, considerato che sempre più batteri si dimostrano resistenti alle cure.”Non si tratta più di affidarsi alle librerie chimiche delle aziende farmaceutiche, che vengono impiegate per combinare associazioni già note, ma di ampliare l’orizzonte. Ad esempio, io mi occupo di analizzare i genomi delle piante e usare i Big Data per generare delle ipotesi promettenti poi da validare ovviamente in laboratorio”, spiega la ricercatrice. Come a dire che le aziende tendono a remixare tracce note (delle loro librerie), mentre i bioinformatici fanno jazz, ovviamente senza tradire le regole della musica.

    ”La novità nel campo della bioinformatica forse è il fatto che non si limita più solo all’analisi dei dati, quindi non interviene solo alla fine del percorso di studio del laboratorio ma viene utilizzata sempre di più, grazie ad Intelligenza Artificiale e machine learning, come uno strumento predittivo per generare nuove ipotesi di ricerca, guidando i biologi verso esperimenti più mirati e riducendo i tempi e costi di sviluppo. E poi quando si pubblica una ricerca, di fatto un software, questo è open source e può essere usato potenzialmente da tutti”.

    I settori di elezione oggi – anche per volumi di investimento – sono la farmaceutica, l’alimentare e l’agricoltura. ”Io sono partita con le biotecnologie vegetali, nello specifico la selezione di nuove colture – insomma ricerca nella biodiversità agricola. Non si tratta di ogm, ma solo di un lavoro antico iniziato dalle prime comunità agricole, oggi fatto con strumenti più moderni. Tramite la bioinformatica possiamo scoprire quali sono le zone nel genoma, ad esempio di una patata, dove abbiamo più probabilità che ci sia quella caratteristica agronomica che ci interessa, come la resistenza alle malattie o a stress ambientali”. Del Pup ci tiene a sottolineare che è un gioco di statistica sofisticata più che alchimia distopica: “Perché nell’industria, ogni industria, non ci si può permettere di sperimentare sempre dal vivo ogni percorso o strada possibile. A volte non si riesce neanche a immaginare”.

    E forse non immaginava neanche lei, classe ‘98, che dopo il liceo scientifico la tortuosa ascesa accademica l’avrebbe portata da Scienze agrarie e Biotecnologie vegetali, che ha studiato alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, al master in Plant Sciences con specializzazione in Plant Breeding and Genetic Resources presso l’Università di Wageningen e poi a Stanford, negli Stati Uniti, per un tirocinio di ricerca presso il Carnegie Institution for Science. ”Inizialmente avevo deciso di studiare puramente innovazione più agro che alimentare, ma poi sono passata alla bioinformatica legata all’agricoltura, alla genetica delle piante. Ora sono al secondo anno di dottorato in Olanda, quindi a metà percorso, però sono diventata pienamente una bioinformatica quando sono stata a Stanford. Lì il nostro istituto aveva collaborazioni con colossi come ad esempio i laboratori Google X. E se è vero che in precedenza avevo fatto mille corsi di programmazione, lì ho iniziato davvero a programmare”.

    Parlando di industria agricola e alimentare verrebbe da chiedersi perché, per approfondire il percorso di studi scegliere l’Olanda e non l’Italia, che su questi fronti esprime tradizionalmente eccellenze riconosciute in tutto il mondo. ”So che sempre più poli universitari italiani offrono percorsi in bioinformatica, anche master. Ma in Olanda c’è una relazione diversa tra ricerca e imprese. Anche le piccole hanno fiducia nell’innovazione, mentre in Italia c’è un po’ di diffidenza. Se parlo con un agricoltore o un selezionatore di sementi olandese dimostrano di avere competenze da genetista e bioinformatico. È un altro mondo che mette insieme i piccoli e anche grandi multinazionali come Unilever – che ha un centro ricerche proprio qui”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, il guardiaparco: “Insegniamo a vivere a contatto con la natura”

    “La regola numero uno per una guardiaparco? Saper gestire la solitudine. Intendiamoci: è bellissimo vivere in simbiosi con la montagna, ma si può finire con l’assuefarsi alla sinfonia della natura, e disabituarsi ai rumori dell’uomo. Ecco, il rischio è di diventare un po’ orsi, ma quello può accadere anche se vivi in città”. La bambina che sognava di diventare guardia parco – era, in fondo, anche il desiderio di papà Diego, certe passioni sono questione di Dna – si chiama Raffaella Miravalle ed è oggi una delle otto donne in servizio per il Parco Nazionale Gran Paradiso. Ha casa, si fa per dire, a duemila metri, nella Valle Orco, che – a sud della Valle d’Aosta e a nord delle Valli di Lanzo – congiunge Pont Canavese al Colle del Nivolet: ogni guardiaparco è assegnato a una zona specifica, i turni possono durare fino a 5 giorni.

    “La montagna non è un parco giochi”
    Lo scenario è da fiaba, ma guai a idealizzare la montagna: ”No, non è sempre tutto rose e fiori, camosci e stambecchi. – precisa – viviamo interi mesi con temperature sotto zero, con un vento sferzante, è cresciuto il rischio temporali improvvisi, siamo chiamati a prove fisiche ardue. Ma questo – sorride – resta il lavoro più bello del mondo”. Perché può accadere di trovarti a soccorrere un’aquila reale (”Tenerla in braccio, che emozione!”) o monitorare lo storico ritorno del gipeto: ”Non ci sono ferie o giorni di riposo che tengono, quando la natura chiama”.

    E in fondo Raffaella sola non lo è mai: a seguirla come un’ombra è Marì, una cucciola di pastore tedesco addestrata a interagire con la fauna selvatica: ”Rappresenta la terza generazione di cani a cui mi sono accompagnata, ha sostituito la vecchia Jodie, oggi in pensione. Con loro instauri un rapporto quasi simbiotico”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, la stilista: “Progettare abiti sostenibili richiede nuove competenze”

    Stilista, imprenditrice, attivista, ma soprattutto ambasciatrice della moda sostenibile nel mondo. Difficile definire con una sola parola Marina Spadafora, che oltre ad essere una designer è la coordinatrice nazionale di Fashion Revolution, il movimento globale che ha come obiettivo quello di rendere l’industria della moda “trasparente e che metta al centro la persona”. Nata a Bolzano, 66 anni, la sua è una vita “mai ferma”. Studi tra Italia e Stati Uniti, carriera nei brand del lusso da Ferragamo a Prada, l’inaugurazione di una propria collezione, l’apertura di boutique monomarca con il suo nome a Milano e Firenze. Viaggi, incontri, progetti, sfilate.

    Poi improvvisamente, all’inizio degli anni Duemila, la svolta. Ha mollato tutto, per dedicarsi completamente alla moda eticamente sostenibile sia dal punto di vista ambientale che sociale. Così oggi racconta la sua scelta: “Cercavo la mia strada, volevo trovare qualcosa che mi aiutasse a stare meglio, che abbracciasse la mia passione per la natura, la giustizia, i diritti dell’uomo. Che combaciasse con i miei interessi e i miei valori: la moda sostenibile lo è assolutamente. Volevo fare qualcosa che mi assomigliasse di più e che fosse al servizio di principi più alti che non quelli del mercato del fashion. Per rendere il mondo un posto migliore”. Essersi lasciata alle spalle una carriera consolidata nel mondo del fashion, sentendola parlare sembra sia stata per lei la cosa più semplice del mondo. “Solo quando ho deciso di disegnare abiti rispettando l’ambiente, solo in quel momento lavoro e passione si sono unite veramente”. Così ha lasciato i brand di lusso e ha messo la sua esperienza a disposizone di Altro Mercato, l’organizzazione del commercio equosolidale. Non solo, oggi è anche la direttrice creativa di una ong calabrese attiva contro la ‘ndrangheta per la quale ha realizzato “Cangiari”, il primo marchio di moda etica di fascia alta in Italia.Non è un caso dunque che il titolo scelto per il suo libro sia “La rivoluzione comincia dal tuo armadio” (edizioni Solferino), che poi, spiega, è anche la sua filosofia di vita. “Sì, perché è come decidiamo di investire i nostri soldi a finanziare chi inquina e chi no. Comprare un abito non è mai un gesto neutrale, ma è un atto poliico – spiega Spadafora – perché il tessile è tra i settori più responsabili dell’impatto ambientale. L’arrivo del fenomeno del fast-fashion, insostenibile per definizione, e tutte le sue conseguenze su vaste aree del pianeta, la bulimia dei consumi, i marchi low cost. Quando scegliamo un capo di abbigliamento bisognerebbe chiedersi sempre: ‘di cosa è fatta questa maglietta?’, ‘chi ha cucito i vestiti che sto per indossare?’”. Non si può non essere d’accordo quando diciamo che il futuro della moda può essere solo la sostenibilità”. Secondo la stilista e attivista lo hanno capito bene i giovani designer che vogliono intraprendere la carriera nel mondo del fashion oltre ai consumatori più consapevoli della crisi climatica che preferiscono brand green. “C’è una vasta gamma di opportunità di lavoro nel settore della moda sostenibile”, spiega Spadafora che al Naba insegna come diventare un sustainable fashion designer.

    Ed è così che di fronte alla crisi ambientale e al fatto che l’industria della moda è una delle più inquinanti, diverse aziende hanno preso coscienza orientando le loro pratiche verso la sostenibilità, dando vita a nuove opportunità di lavoro e carriera. “Grazie alle nuove tendenze che riguardano la riparabilità, durabilità, second life, il passaporto digitale di un capo di abbigliamento, la sostenibilità è entrata nel mondo della moda dalla porta principale. Non solo. I brand, tutti, sono stati costretti grazie alla normativa europea che impatta anche sull’aspetto finanziario delle aziende, a ripettare i principi dell’economia circolare. Che in questo settore si traducono essenzialmente in due fattori: puntare su prodotti che durino più a lungo o utilizzare materiale riciclato. Oltre a sviluppare l’uso di tecnologie che facilitino processi produttivi sostenibili”. Ecco così che le aziende sono alla ricerca non solo di creativi, ma anche di tecnici specializzati in sostenbilità come ingegneri, chimici o bioingegneri per la progettazione di nuovi tessuti e materiali; ricercatori ambientale; responsabili di risorse umane, ruolo che incorpora pratiche di diversità e inclusione e sicurezza dei lavoratori; esperti di marketing per lo sviluppo di progetti etici; consulenti in materia di sostenibilità. Ma sono solo alcune. Le scuole? Tutti gli istituti pubblici e privati prevedono corsi sulla sostenibilità, così lo IED di Milano, lo IAAD di Torino, lo IUAv di Venezia, l’Accademia a Firenze, la Sapienza di Roma, lo IUAD a Napoli. LEGGI TUTTO