Anche quest’anno – basta fare un giro sulle varie piattaforme social – non mancano gli episodi in cui i protagonisti sono cinghiali che, per niente intimoriti dall’affollamento delle spiagge, provano ad arraffare gli zaini e le borse dei bagnanti, oppure branchi che scorrazzano indisturbati per le vie di borghi e città in cerca di cibo.
E naturalmente anche quest’anno non mancano le polemiche. Già, perché i cinghiali possono causare incidenti stradali (170 nel 2023, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente), ma soprattutto creano gravi danni all’agricoltura. Coldiretti parla di 200 milioni di euro solo nell’ultimo anno, mentre l’Ispra ha calcolato che nel periodo 2015-2021 la stima complessiva dei danni all’agricoltura è stata di circa 120 milioni di euro. In ogni caso, il danno è evidente. Dal 2022 si è aggiunta anche la minaccia della peste suina africana, una malattia virale altamente contagiosa per i suini e i cinghiali selvatici, ma innocua per gli esseri umani che ne sono immuni, con una letalità alta.
Da una parte, insomma, ci sono gli agricoltori e gli allevatori che si scagliano contro la proliferazione incontrollata dei cinghiali e chiedono a gran voce piani straordinari di contenimento della specie. Dall’altra, ci sono le associazioni animaliste che puntano il dito contro i cacciatori e invocano una convivenza pacifica tra uomo e fauna selvatica. Ora, accertato che il problema esiste ed è complesso, la domanda è: come siamo arrivati a questo punto? Ma soprattutto, come bisogna gestirlo?
Le cause della proliferazione dei cinghiali
In Italia il cinghiale ha avuto una notevole espansione per diversi fattori. Primo fra tutti, l’abbandono delle zone collinari e montane a partire dalla fine degli anni ‘60, che ha causato un aumento della superficie occupata dai boschi. Attualmente, la superficie forestale totale in Italia supera gli 11 milioni di ettari (dati Istat).
Un altro elemento determinante, i ripopolamenti a scopi venatori avviati dagli anni ‘50. Il cinghiale fino a quel momento era infatti rimasto solo in alcune aree dell’Appennino centrale e meridionale. Da qui sono stati prelevati gli esemplari per i ripopolamenti. In alcuni casi (Liguria, Friuli Venezia Giulia) i cinghiali sono ritornati naturalmente dall’estero, in particolare dalla Francia e dalla Slovenia.
La ricerca di cibo
Una delle fake news che si sono diffuse negli ultimi anni è che la maggior parte dei cinghiali presenti in Italia non faccia più parte della specie autoctona, ma sia una specie alloctona nata dall’incrocio con quelle provenienti dall’est europeo, con differenze anche nella morfologia e nel comportamento dell’animale. In realtà, il patrimonio genetico della specie non ha subito particolari cambiamenti. “Il cinghiale è e rimane una specie autoctona. Non è una questione di ibridazione: è tutta una questione di disponibilità di cibo”, afferma Barbara Franzetti, tecnologa dell’Ispra.
La pressione venatoria
Sta di fatto che ormai da tempo la situazione è sfuggita di mano. La pressione venatoria non ha impedito che la popolazione di questi ungulati crescesse a dismisura fino a diventare una delle specie più problematiche nel nostro Paese. Il cinghiale è infatti un animale dotato di una grande adattabilità ed è estremamente prolifico. “Generalmente le femmine partoriscono tra i 4 e i 6 cuccioli una volta all’anno. In condizioni di abbondanza di cibo possono arrivare anche a 7-8”, prosegue Franzetti.
Inoltre, risulta praticamente impossibile fare un calcolo preciso del numero di esemplari presenti sul territorio nazionale. “Nonostante i miglioramenti tecnologici nelle attività di monitoraggio, per esempio attraverso l’utilizzo di fototrappole e termocamere, censire la popolazione di cinghiali è un’operazione molto complicata perché vivono in ambienti impervi, dove ci sono diversi ostacoli naturali e poca visibilità. Per di più, è un animale che ha abitudini prevalentemente crepuscolari e notturne”, aggiunge l’esperta. Anche in questo caso, le cifre variano. Per Coldiretti i cinghiali in Italia sono 2,3 milioni, mentre l’Ispra ritiene plausibile una consistenza minima al 2021 di un milione e mezzo di animali.
Preoccupa la diffusione della peste suina africana
A fare paura però adesso non ci sono soltanto i danni all’agricoltura ma soprattutto quelli al patrimonio suinicolo (stimato in oltre 8 milioni di capi, di cui l’85% è concentrato nella pianura Padana), che rappresenta un asset molto importante per l’economia italiana. La minaccia ha un nome: peste suina africana (PSA).
Il virus, endemico nel continente africano, è entrato in Europa attraverso il mar Nero nel 2007. All’inizio del 2022 è stata confermata per la prima volta la sua presenza nell’Italia continentale, precisamente al confine tra Piemonte e Liguria. Casi di peste suina africana sono stati poi registrati anche in altre regioni: Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Calabria, Campania e recentemente Toscana. Risultato, migliaia di maiali abbattuti per evitare il contagio e perdite economiche per milioni di euro.
Il cinghiale è diventato ancor di più un osservato speciale. Ma è corretto considerarlo il principale “untore”? “Il cinghiale è sicuramente un portatore del virus che provoca la PSA. Un virus difficile da controllare, dal momento che non ci sono a disposizione dei vaccini efficaci. Inoltre, il virus rimane vitale per lungo tempo anche dopo la morte dell’animale, rendendo le carcasse ancora infettanti e in grado di trasmettere il virus”, spiega Alberto Meriggi, professore di zoologia all’Università di Pavia. “Tuttavia, a mio parere, il cinghiale sta passando anche per il capro espiatorio. Come fa a portarlo dentro a un allevamento di maiali? Il contatto può avvenire se i maiali vengono allevati all’aperto, ma in Italia la maggior parte degli allevamenti di suini sono stabulati”.
Secondo Meriggi le principali colpe sarebbero da attribuire all’uomo più che al cinghiale. Nel 2007 il virus ha raggiunto la Georgia probabilmente attraverso rifiuti di cucina infetti, scaricati da una nave partita dall’Africa. Il virus, inoltre, si trasmette attraverso il contatto con qualsiasi oggetto contaminato, per esempio veicoli, attrezzatture, indumenti o calzature. “Basta che una persona vada in giro per i boschi e poi entri in un allevamento con vestiti contaminati per causare un potenziale focolaio. In generale, per evitare che il virus si diffonda in maniera incontrollata sono imprescindibili le profilassi per gli operatori negli allevamenti e il rigoroso rispetto delle norme di biosicurezza”, conclude Meriggi.
Quali soluzioni?
Proprio per contenere la diffusione della peste suina africana il governo ha inserito delle misure specifiche nel cosiddetto DL Agricoltura, che è stato convertito in legge lo scorso luglio. Fino al 31 dicembre 2028 è consentita la caccia di selezione dei suidi fino a mezzanotte, anche con l’ausilio dei metodi selettivi previsti dal Piano Straordinario per il contenimento della fauna selvatica:ottiche di mira anche a imaging termico, a infrarossi o intensificatori di luce, con telemetro laser, termocamere, nonché il ricorso al foraggiamento attrattivo. È previsto anche il concorso del personale delle forze armate all’attuazione delle misure di contenimento e contrasto della diffusione della peste suina africana. In particolare, viene autorizzato un contingente massimo di 177 unità di personale delle forze armate impiegati in questo compito, per un periodo non superiore a dodici mesi.
Gli animalisti: la caccia e i piani di controllo della fauna selvatica
Per le associazioni animaliste e ambientaliste si tratta dell’ennesimo favore ai cacciatori. Il punto però è che l’attività venatoria – che va considerata un’attività ludica e non va confusa con i piani di controllo della fauna selvatica – ha già dimostrato di avere un impatto ridotto sulle popolazioni di cinghiali. Lo dice chiaramente anche l’Ispra nelle faq dedicate alla PSA le simulazioni effettuate, per poter rallentare significativamente la diffusione della peste suina africana si dovrebbe rimuovere nel brevissimo periodo la quasi totalità della popolazione di cinghiali (circa il 90%), obiettivo irrealistico da raggiungere nella gran parte dei contesti presenti sul territorio nazionale”.
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“Una strategia sbagliata”
In altre parole, se si vuole invertire la curva e far calare il numero di cinghiali sul territorio occorre che gli abbattimenti siano effettuati in maniera rapida e molto pesante. E i cacciatori chiaramente non bastano. Il loro numero, tra l’altro, è in netta diminuzione: nel 2022 le licenze di porto d’armi ad uso caccia in corso di validità erano 609.527, vent’anni prima erano poco più di 800 mila. “Affidarsi a costo zero ai cacciatori per ridurre i cinghiali è stata una strategia finora inefficace“, sottolinea Barbara Franzetti. “Se non si entra nell’ottica di assoldare dei professional hunters, ovvero delle squadre di professionisti che ricevono una formazione specifica e si occupano delle attività di contenimento del cinghiale, non ci sono i numeri per affrontare il problema”. La riduzione delle popolazioni attraverso la caccia e il controllo rimane dunque una delle soluzioni tecniche a disposizione. E la sterilizzazione? Netto il giudizio da parte dell’esperta di Ispra: “non contribuisce a ridurre la popolazione, è costosa e praticamente inapplicabile allo stato attuale”.
Le attività di monitoraggio
Su una cosa sembrano concordare tutti coloro che si occupano di questo spinoso tema: la necessità di investimenti. “Le attività di monitoraggio, per esempio, andrebbero condotte in maniera costante. È inutile mettere a disposizione un finanziamento per fare uno studio sulla presenza del cinghiale per due anni e poi, una volta concluso, non se ne parla più”, commenta Meriggi. “Se la questione è proteggere le coltivazioni, si possono elaborare dei modelli predittivi di rischio per ciascuna area. Dopo di che si interviene sui campi più a rischio (farlo su tutti sarebbe impossibile) installando delle barriere elettrificate che sono molto efficaci nel tenere lontani i cinghiali”.
C’è da scommettere che il dibattito sulla gestione del cinghiale in Italia proseguirà, con toni anche accesi. Al momento, però, la situazione sembra tutto fuorché sotto controllo. Nel frattempo, si attende di sapere il nome del prossimo Commissario Straordinario alla peste suina africana, dopo che Vincenzo Caputo ha rassegnato le dimissioni lo scorso 31 luglio.