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Cop16, nessuna intesa per salvare la biodiversità nei paesi più vulnerabili

“Un’occasione persa”. Quando lo raggiungiamo telefonicamente, Lorenzo Ciccarese, responsabile per la conservazione della biodiversità terrestre all’Ispra, è in fila per imbarcarsi sul volo che lo riporterà in Italia dalla Colombia. Per due settimane è stato il vicecapo della delegazione italiana alla Cop16 di Cali, dedicata proprio alla biodiversità. Come è andata? “Si è visto lo stesso copione al quale assistiamo nelle Cop sul clima”, risponde. “Da una parte il Global South che chiede fondi (700-800 miliardi di euro l’anno), dall’altra i Paesi sviluppati che fanno resistenza, reclamando in cambio regole di erogazione più chiare e maggiore trasparenza nell’uso degli aiuti”. Il risultato è un nulla di fatto, o quasi.

Uno degli incontri a Cop16 

Una pace lontana

Nonostante la determinazione del governo colombiano di far passare alla storia questa Conferenza il cui slogan era “Facciamo la pace con la Natura”. Sarà per un’altra volta. Alla fine anche la battagliera ministra dell’Ambiente María Susana Muhamad González si è dovuta arrendere: i tempi supplementari non sono bastati e sabato mattina, quando la maggior parte dei delegati erano ormai a preparare le valige facendo mancare il quorum dei due terzi alla plenaria, ha gettato la spugna.

La ministra dell’Ambiente colombiana Susana Muhammad 

“Ma formalmente i lavori di Cop16 non sono chiusi”, spiega Ciccarese. “Ci potrebbe essere una Cop16 bis, magari non in presenza, ma da remoto”.

Ancora stallo sui finanziamenti

Difficile comunque si possa sanare così la frattura vista a Cali, soprattutto sulle risorse necessarie a mettere in pratica quanto ci si è impegnato a fare con Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework nel 2022: 4 obiettivi per il 2050 e 23 target per il 2030 per raggiungere, entro la metà del secolo, l’obiettivo di un mondo che vive in armonia con la natura. Tra i target, il più noto è certamente quello di proteggere il 30% della biodiversità entro il 2030. Ma per farlo servono soldi, soprattutto in quei paesi che non hanno risorse economiche ma custodiscono tesori naturali. I Paesi contestano perfino la definizione di “donatori”, considerando che l’aiuto economico sia dovuto, visto che i ricchi sono diventati grazie allo sfruttamento per secoli delle loro risorse.

L’Unione europea: un sistema di monitoraggio

E l’Unione europea? “Abbiamo chiesto regole chiare, che dicano senza ambiguità chi ha diritto ai fondi e per farci cosa, con un sistema trasparente di monitoraggio”, racconta Ciccarese. “Ma è un comunque un peccato che non si siano fatti progressi. Cop16 era una occasione importante e questo stop rende molto complicato attuare la misura del 30% di salvaguardia della biodiversità nei tempi previsti. Abbiamo perso altri 5 o 6 mesi”.

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Solo alcuni Paesi ricchi (Norvegia e Gran Bretagna i più “generosi”) hanno contribuito in modo consistente al fondo per l’attuazione del Kunming-Montreal (200 miliardi di dollari entro il 2030). E non si sono fatti passi avanti nemmeno sugli indicatori da usare per certificare che si sia messa in protezione una certa percentuale della propria biodiversità (mappe satellitari o altro). Così come non si è trovato un accordo sulle “soluzioni basate sulla natura”, alternative green alle usuali prassi industriali, agricole, turistiche, che permetterebbero di abbattere di 1/3 le emissioni di gas serra.

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Proteggere il 30% della biodiversità entro il 2030

“In Italia”, sottolinea Ciccarese, “le aree protette rappresentano il 22-23% del territorio. Come finanziamo gli interventi necessari per arrivare al 30%? Una risposta potrebbe essere nel turismo che si sta spostando dalle coste alle aree interne, che sono poi quelle che ospitano i grandi parchi naturali”.

Il Cali Fund e le imprese

L’unico successo del vertice colombiano è il Cali Fund, un fondo per compensare quei Paesi le cui informazioni genetiche sono utilizzate dall’industria per fare profitti colossali. Nel mirino soprattutto aziende farmaceutiche e dell’agritech: “Si calcola che solo il business della statina valga 20 miliardi di dollari l’anno”, conferma Ciccarerse. I big (si parla di aziende con fatturati di decine di milioni di dollari) potranno decidere se versare l’1% del fatturato o l’0,1% dei profitti per alimentare il fondo che aiuterà la protezione della natura e delle popolazioni indigene di Paesi da cui le informazioni genetiche provengono. Il problema è che non c’è alcun obbligo: il contributo al Cali Fund è su base volontaria. Quanti lo faranno?

“Se c’è un aspetto positivo di Cop16, al netto del suo esito, è la grande partecipazione di aziende”, risponde Ciccarese. “Sappiamo che la biodiveristà genera il 50% del Pil mondiale e il mondo del business lo sta capendo, così come sta imparando quanto sia importante investire in natura”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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