Dal 1995 a oggi, non ne ha persa una. Le prime 26 Cop le ha vissute da attivista, molte nel ruolo di direttrice di Greenpeace International. Le ultime tre come inviato speciale per il clima del governo tedesco. Pochi nel panorama internazionale hanno l’esperienza di Jennifer Morgan, 59 anni da Ridgewood, New Jersey, in fatto di Conferenze Onu sul clima. “Sarò anche a Belém, come ricercatrice senior della Fletcher School, istituto di relazioni internazionali all’interno della Tuft University, poco lontano da Boston“.
Nonostante la fine dell’incarico a Berlino, dopo le elezioni che hanno relegato i Verdi all’opposizione, Morgan continua nel suo impegno. Le parliamo mentre è in attesa di un volo per Pechino: “Vado per partecipare all’incontro Amici dell’Accordo di Parigi. Un meeting che per molti anni è stato organizzato dallo storico inviato speciale cinese per il clima Xie Zhenhua. Qualche settimana prima della Cop riunisce molte delle persone che parteciparono ai negoziati di Parigi, perché si confrontino su come ottenere il miglior risultato possibile“.
Jennifer Morgan, come ottenere il miglior risultato possibile alla Cop30 di Belém?
“In Brasile non ci saranno grandi decisioni da prendere, come è stato per il fondo per il loss and damage nel 2022 a Sharm o per la transition away dai combustibili fossili nel 2023 a Dubai. Questa volta si tratterà soprattutto di accelerare l’attuazione delle decisioni prese in passato e di capire come colmare il gap tra gli Ndc presentati dai Paesi e i tagli alle emissioni necessari per essere in linea con l’Accordo di Parigi e il limite di 1,5 °C di riscaldamento“.
Glielo chiedo in un altro modo: cosa deve accadere a Belém perché si possa considerare Cop30 un successo?
“Per le ragioni che ho esposto, sarà una Cop sfidante soprattutto per la politica. Cop30 sarà un successo se ci saranno dichiarazioni forti da parte dei leader, che riaffermeranno l’impegno a rispettare l’Accordo di Parigi, accelerandone l’implementazione. E poi se ci saranno decisioni e azioni importanti che confermino questo impegno“.
Che tipo di azioni?
“Per esempio il Brasile ha proposto un dialogo tra consumatori e produttori per una effettiva e giusta transition away dai combustibili fossili. Molti Paesi stanno cercando di lavorare insieme per rimuovere le barriere che ostacolano la diffusione delle rinnovabili, per esempio per quanto riguarda le reti elettriche e gli accumuli. E poi naturalmente la finanza, con la riduzione del costo del denaro per la realizzazione di impianti rinnovabili in Africa“.
Sarà la sua trentesima Cop. Qual è stata la più importante?
“Quella di Parigi nel 2015. Perché riuscì a creare un accordo legalmente vincolante tra tutti i Paesi. Un accordo che poi è stato ratificato rapidamente ed è entrato in vigore. Prima c’era stato il protocollo di Kyoto, ma non era accettabile da abbastanza nazioni perché potesse avere un vero impatto“.
Però in questi 10 anni molto è cambiato nella lotta alla crisi climatica…
“È vero, ma non solo in senso negativo. La crescita delle temperature c’è, ma ha rallentato la sua corsa: le misure di decarbonizzazione prese dalle nazioni, pur insufficienti, hanno modificato verso il basso la traiettoria del riscaldamento. Le energie rinnovabili sono esplose, a un livello che non era nemmeno immaginabile dieci anni fa. E il loro successo è soprattutto dovuto a fattori economici: costano meno“.
E cosa è cambiato in negativo da Parigi a Belém?
“Il riscaldamento globale ha mostrato i suoi effetti in modo più rapido e intenso. Stiamo vedendo i costi enormi che la crisi climatica comporta in tutto il mondo, inclusa l’Europa: solo l’estate scorsa, eventi estremi legati al clima, come ondate di calore e alluvioni, sono costati all’economia europea 43 miliardi di euro. Ma la cosa più negativa di questi anni è che il clima ha iniziato a essere usato dai partiti di destra per polarizzare le opinioni pubbliche. Le persone dovrebbero essere preoccupate per il clima così come lo sono per l’inflazione o per il costo dell’elettricità, e invece stiamo assistendo al deliberato tentativo della lobby dei combustibili fossili di rallentare il declino del loro business. Il risultato è appunto una polarizzazione della discussione sul clima in alcuni Paesi“.
Una polarizzazione che avrà ripercussioni su Cop30?
“A differenza delle altre volte in cui gli Usa sono usciti dalle trattative sul clima, in questo caso Washington sta mettendo in atto una serie di misure di contrasto. L’amministrazione Trump sta agendo in modo da rallentare il declino dei combustibili fossili per conto delle compagnie petrolifere americane. Per fortuna ci sono altre voci negli Stati Uniti, che io spero di sentire a Belém. Mi riferisco ad alcuni governatori, a rappresentanti del mondo del business: il 60% dell’economia Usa è ancora dentro l’Accordo di Parigi. E poi ci sono le altre nazioni, anche se la tattica di Trump è di mettere in difficoltà chi punta a rinunciare ai combustibili fossili americani».
Aldilà delle politiche Usa, c’è chi sostiene che sia il modello delle Cop a non essere più adeguato, con decisioni troppo lente rispetto all’emergenza.
“Ha fatto bene Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc, a iniziare un lavoro sulle riforme che si potrebbero attuare, d’altra parte sono passati 30 anni dalla prima Cop. Detto questo, non penso che le Cop siano in crisi. Le decisioni sono state prese in questi anni. E c’è un gran bisogno di queste conferenze multilaterali, perché sono l’unica occasione in cui i più piccoli e vulnerabili, come gli Stati insulari, siedono al tavolo dei negoziati. Ma in effetti i meccanismi di voto potrebbero essere più efficienti. E dovrebbe essere più efficace la trasformazione in azioni concrete dei tanti impegni presi“.
Pensa che l’Ue possa ancora ambire a riempire il vuoto lasciato dagli Usa come leader climatico?
“Potrebbe certamente farlo. La proposta di tagliare del 90% le emissioni entro il 2040 era un chiaro segnale all’industria europea e andava in quella direzione. Inoltre, l’Europa continua a lavorare con i Paesi più vulnerabili per trovare strumenti finanziari da dedicare all’adattamento. Un’altra possibilità per la Ue è stringere collaborazioni sempre più strette con le economie emergenti“.
E la Cina?
“Pechino ha indicato chiaramente che vede il suo futuro nella energia pulita, nei veicoli elettrici, nella decarbonizzazione. Gli Ndc cinesi annunciati da Xi Jinping all’Onu sono da un lato molto importanti perché mettono un vero limite alle emissioni, però dall’altro non consentono a Pechino di assumere la leadership che potrebbe avere. La Cina deve dimostrare a Cop30 che davvero sta spingendo per l’addio ai combustibili fossili e che vuole contribuire finanziariamente all’adattamento ai cambiamenti climatici. Ma sono certa che a Belém vedremo anche molti Paesi in via di sviluppo spingere su Brasile, Indonesia, India, perché aumentino la loro ambizione“.
Dunque resta ottimista, nonostante i diversi segnali di disimpegno da parte di governi, banche, imprese?
“La transizione energetica è inevitabile e non c’è possibilità di dietrofront. Esiste però un problema di velocità nell’attuazione e di scala. A Dubai ci si impegnò a triplicare le rinnovabili e l’efficienza energetica. E non è successo. Ma succederà, fosse anche solo perché conviene dal punto di vista economico“.

