16 Dicembre 2024

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    Il bello del cotoneaster tra fiori e bacche: i consigli

    Il cotoneaster – noto anche come cotonastro o cotognastro – è un genere di arbusto che fa parte della famiglia delle rosacee. Il cotognastro è diffuso in modo particolare in Europa, Asia (soprattutto Cina e area himalayana) e Africa Settentrionale. Il suo habitat ideale è soprattutto negli ambienti boschivi temperati. Vi sono più di 100 specie di cotoneaster che si possono classificare tra erette, striscianti e, infine, alcune orizzontali: in quest’ultimo caso, la pianta si definisce spesso come cotognastro prostrato. Le foglie sono solitamente di forma ovale, lanceolata con disposizione alternata e, nel caso delle specie caducifoglie, assumono una caratteristica colorazione rossa durante l’autunno. Tra le specie più diffuse, possiamo citare:

    il cotoneaster horizontalis salicifolia, sfruttato soprattutto nei giardini con pendii o terreni che tendono a franare;
    il cotoneaster dammeri, apprezzato per realizzare piacevoli bordure, grazie alla sua delicata fioritura bianca e le bacche di tonalità rosso-aranciata.

    Qual è l’esposizione più indicata per la pianta?
    Il cotoneaster è una pianta particolarmente rustica e senza esigenze colturali impegnative, la cui esposizione ideale è in pieno sole o, in alternativa, in penombra. Nel caso delle specie sempreverdi, evitiamo di esporre gli esemplari alle correnti di aria fredda. Le varietà di cotognastro a foglie caduche possono tollerare senza problemi l’esposizione in pieno sole e sopportano temperature minime fino ai -15 gradi.

    Il terreno ideale per la sua coltivazione
    Il cotoneaster è piuttosto versatile per quanto riguarda il terreno in cui coltivarlo. La pianta predilige i terreni mediamente fertili, sebbene sia in grado di crescere anche in quelli calcarei o argillosi. In ogni caso, è molto importante che il terreno sia ben drenante, in modo tale che non vi sia del ristagno di acqua tra le radici. Il momento ideale per trapiantare il cotoneaster è compreso tra il tardo autunno e la prima metà dell’inverno, quando il terreno non è inzuppato, ghiacciato o innevato. Per la messa a dimora, scaviamo una buca profonda tra i 30-50 centimetri, in fondo alla quale sistemiamo della ghiaia per favorire il drenaggio. Per stimolare la crescita del cotognastro, possiamo anche arricchire il terreno con un po’ di concime stagionato. Durante l’operazione di trapianto, prestiamo attenzione a non danneggiare l’apparato radicale: la stessa accortezza adottiamola anche qualora dovessimo rinvasare la pianta. In quest’ultimo caso, scegliamo un contenitore che abbia un diametro di circa 2 centimetri più ampio rispetto al vaso precedente.

    Innaffiatura, concimazione e potatura
    Il cotoneaster richiede un’innaffiatura regolare nel corso del primo anno di vita, soprattutto durante il periodo compreso tra primavera-estate nelle aree climatiche più siccitose. Seppure sia necessario mantenere un buon livello di umidità, è altrettanto importante evitare di inzuppare il terreno, giacché un eventuale ristagno idrico a livello radicale potrebbe essere molto dannoso per la pianta. Per la concimazione del cotoneaster possiamo usare del concime granulare a rilascio lento, a partire dalla fine dell’inverno e sino alla conclusione dell’estate. Le specie a foglia caduca di cotoneaster possono essere potate quando l’inverno è concluso. Nel caso delle varietà sempreverdi, invece, la potatura deve avvenire al più tardi verso metà primavera. In ogni caso, teniamo presente che le varietà di cotoneaster tappezzante richiedono unicamente degli interventi di potatura per rimuovere i rami morti o danneggiati.

    Il periodo di fioritura del cotoneaster
    Il cotoneaster giunge a fioritura nel periodo compreso tra la primavera e l’estate, regalando una miriade di piccoli fiori che possono essere di color bianco o rosa, o con sfumature rosate. Nel corso dell’autunno, invece, la pianta produce dei piccoli frutti, drupe, che nell’aspetto ricordano delle piccole mele di una tonalità cromatica tra il rosso-rosaceo o aranciato. Queste drupe sono particolarmente persistenti e molto gradite agli uccelli.

    Come moltiplicare la pianta
    Possiamo moltiplicare il cotoneaster tramite la semina o la talea. Il momento ideale per seminare il cotognastro è nel periodo autunnale, procurandoci i semi dai frutti e sistemandoli in vasetti con terriccio che facilita la germinazione. In alternativa, possiamo ottenere una talea semi-legnosa durante il periodo primaverile. In entrambi i casi, attendiamo l’anno seguente per trapiantare questo nuovo esemplare di cotoneaster.

    Le malattie e i parassiti più comuni
    Il cotoneaster può essere colpito da diversità avversità, tra le quali, il cosiddetto “colpo di fuoco batterico” è quella più pericolosa. Questa malattia, particolarmente infettiva, è causata dal batterio erwinia amylovora, che può essere trasportato da insetti, uccelli o anche utensili contaminati. Quando il cotoneaster è colpito da questa malattia i fiori diventano scuri e tendono a seccarsi velocemente, mentre i tralci e le foglie dell’arbusto si imbruniscono e si seccano. Se la pianta è colpita da questa avversità, purtroppo non resta altro da fare che rimuoverla. Il cotoneaster può essere inoltre attaccato dalla cocciniglia: in questo caso, le foglie presentano delle macchie marroni. Per eliminare l’avversità, possiamo sfruttare un batuffolo di ovatta imbevuto di alcol. Infine, il cotognastro può essere soggetto al marciume radicale causato dall’armillaria mellea, che provoca un aspetto stentato e l’ingiallimento della pianta. Possiamo contrastare questa avversità con un fungicida a base di rame. LEGGI TUTTO

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    Delle foreste pluviali abitate da animali vertebrati solo il 25% è davvero integro

    L’integrità delle foreste pluviali è un fattore determinante per la conservazione della biodiversità. Al di là dell’estensione delle foreste stesse è infatti importante valutare quali di queste aree sono davvero intatte, ossia non soggette a disboscamento, costruzione di infrastrutture o attività di estrazione, e quindi idonee per la sopravvivenza delle specie che le abitano. Un gruppo di ricercatori e ricercatrici ha provato a rispondere a questa domanda: dai risultati dello studio, pubblicato su PNAS, è emerso che solo il 25% delle foreste pluviali abitate da animali vertebrati è davvero integro, nonostante il 90% degli areali delle specie prese in considerazione sia effettivamente coperto da foreste. Ossia, dai risultati emerge una forte sproporzione fra l’estensione delle foreste e la loro integrità.

    Nel dettaglio, gli autori dello studio hanno valutato la disponibilità a livello globale di foreste pluviali tropicali strutturalmente intatte e indisturbate dalle attività antropiche per oltre 16.000 specie di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. Per farlo hanno utilizzato due indicatori: lo Structural Condition Index (SCI) e il Forest Structural Integrity Index (FSII). Il primo è in sostanza una misura della copertura arborea di un certo areale, che tiene in considerazione anche l’altezza (e quindi indirettamente l’età) delle piante. Il secondo combina lo SCI con il cosiddetto Human Footprint, una misura della pressione antropica esercitata sulle aree naturali di tutta la Terra.

    Biodiversità

    Dove vivete ci sono abbastanza alberi? Per scoprirlo c’è la regola del “3+30+300”

    di  Giacomo Talignani

    19 Novembre 2024

    “Complessivamente, fino al 90% della copertura forestale rimane ancora all’interno degli areali di queste specie, ma solo il 25% è di alta qualità, un fattore critico per ridurre il rischio di estinzione – commenta James Watson, docente presso la School of The Environment dell’Università del Queensland (Australia) e co-autore dello studio – Sapevamo che le foreste pluviali ad alta integrità sono vitali per la biodiversità, ma nessuno aveva quantificato quanto limitati fossero diventati questi habitat chiave”.

    Non solo, un risultato preoccupante emerso dalla ricerca è che l’impatto antropico riguarda soprattutto le specie già a rischio. Per esempio, solo il 9% delle foreste abitate da uccelli considerati a rischio di estinzione è risultato di elevata integrità, rispetto al 26% per quanto riguarda gli areali degli uccelli non minacciati. Analogamente, solo il 6% delle foreste abitate da anfibi con popolazioni in declino è risultato intatto, rispetto al 36% di quelle abitate da anfibi non a rischio.

    Il sondaggio

    Un italiano su tre non sa che gli alberi assorbono CO2 e non solo

    di redazione Green&Blue

    19 Novembre 2024

    “Il semplice fatto di avere una copertura forestale non è sufficiente se la complessità strutturale e il basso livello di disturbo umano necessari per la biodiversità vengono meno – conclude Rajeev Pillay, che ha coordinato lo studio ed è ricercatore presso il Natural Resources and Environmental Studies Institute dell’Università della Northern British Columbia (Canada) – Per proteggere le rimanenti foreste pluviali tropicali ad alta integrità è fondamentale un coordinamento globale per ridurre al minimo il disturbo umano, soprattutto nelle foreste non protette che rimangono vitali per la biodiversità”. LEGGI TUTTO

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    Le città dove il cambiamento climatico ha fatto sparire intere settimane sotto zero

    Ci sono città in Italia dove per effetto della crisi climatica la neve è solo un ricordo. Le nuove temperature globali nel nostro Paese hanno di fatto portato alla perdita di un’intera settimana di temperature invernali sotto lo zero nell’arco della decade 2014-2023. Significa che sempre più realtà stanno sperimentando inverni meno freddi di prima, anche se quello in corso – per via del fenomeno naturale de La Niña che è attualmente in formazione e si farà sentire da inizio 2025 – potrebbe regalare giornate decisamente gelide. A raccontare come la crisi del clima innescata dalle emissioni dell’uomo sta trasformando gli inverni nel mondo è una nuova analisi di Climate Central. All’interno di un report dove vengono analizzati 123 Paesi e 901 città del Pianeta, i ricercatori spiegano come ormai a livello mondiale più di un terzo di tutte le nazioni analizzate e quasi la metà delle città prese in esame sta sperimentando una settimana in più sopra lo zero rispetto al passato, con impatti chiari su ecosistemi, vite, ma anche sport invernali e turismo, accumulo delle risorse idriche, oppure colture e persino su allergie primaverili.

    Meteo

    La Niña potrebbe arrivare presto e portare freddo e neve ma sarà debole e breve

    di  Giacomo Talignani

    12 Dicembre 2024

    All’interno del rapporto diversi dati raccontano anche come sono cambiate le città d’Italia. Nel lungo elenco di oltre novecento metropoli del mondo esaminate ci sono infatti ben tre italiane tra le prime dieci posizioni, con Torino che risulta addirittura la terza città con il maggior numero di giorni sopra lo zero che, di fatto, sono stati “aggiunti” dal riscaldamento globale. Per Torino si parla di ben 30 giorni all’anno in più – sempre sopra lo zero – rispetto al passato. Fra le prime dieci risultano poi anche città come Verona e Brescia e poco dopo, fuori dalla top ten, anche Milano, territori che hanno perso rispettivamente 29, 26 e 22 giorni di temperature sotto lo 0°C. Prima al mondo c’è Fuji in Giappone, seguita da Kujand in Tajikistan. Commentando i risultati riportati nell’analisi, Kristina Dahl vicepresidente di Science Climate Central spiega che “l’Italia fa parte del continente che si riscalda più rapidamente al mondo e il riscaldamento delle città del Paese è evidente: delle 901 città globali che abbiamo analizzato, tre delle prime dieci che hanno perso il maggior numero di giorni invernali di gelo a causa dei cambiamenti climatici sono in Italia. Questa tendenza allarmante dovrebbe servire da campanello d’allarme ai responsabili politici per ridurre rapidamente le emissioni”.

    Giornata internazionale della montagna

    Il 2024 anno difficile e dal segno meno per Alpi, ghiacciai alpini e biodiversità

    11 Dicembre 2024

    Nel ragionare sull’impatto della crisi climatica in Italia, gli esperti di Climate Central ricordano anche come “il calo dei giorni con temperature sotto lo zero non è solo un inconveniente per gli sciatori: è una crisi ambientale ed economica significativa e le conseguenze sono di vasta portata: interrompono il ciclo idrologico, influenzano l’industria del turismo e minacciano gli sport invernali. Con le prossime Olimpiadi invernali che si svolgeranno in Italia nel 2026, le sfide attuali e future poste dal riscaldamento degli inverni non potrebbero essere più rilevanti”. L’analisi – basata sui dati del sistema Climate Shift Index (CSI) e focalizzata sull’ultimo decennio – indica inoltre come “il cambiamento climatico ha aggiunto più giorni invernali sopra lo zero nei Paesi europei rispetto a quelli di altre regioni”, così come i territori con maggiori aumenti sopra lo zero sono stati “Danimarca, Estonia, Lettonia e Lituania, che hanno registrato, in media, almeno tre settimane in più di giorni invernali sopra lo zero ogni anno a causa del cambiamento climatico”. In Europa in media sono una ventina i Paesi che hanno sperimentato almeno due settimane in più di giorni invernali all’anno sopra lo zero, tra cui Polonia, Bielorussia, Germania e Repubblica Ceca. Venticinque invece le nazioni “tra una e due settimane in più di giorni invernali sopra lo zero” ogni anno per via della crisi climatica, tra cui appunto l’Italia ma anche “Francia, Austria, Spagna e Norvegia in Europa, e Afghanistan, Iran e Giappone in Asia”.

    Come dice Dahl, “la nostra analisi mostra che il cambiamento climatico sta causando inverni significativamente più caldi in tutto l’emisfero settentrionale, con oltre 44 paesi che hanno sperimentato almeno una settimana in più di giorni sopra lo zero nell’ultimo decennio a causa del riscaldamento causato dall’uomo. La neve, il ghiaccio e le temperature fredde che un tempo caratterizzavano la stagione invernale stanno rapidamente scomparendo in molti luoghi, minacciando ecosistemi, economie e tradizioni culturali. I giorni invernali di gelo sono cruciali per sostenere la neve e il ghiaccio necessari per la ricreazione e gli sport invernali, per ricostituire il manto nevoso che alimenta le fonti di acqua dolce e per mantenere i cicli vitali di piante, animali e insetti. Per impedire che gli inverni si riscaldino ulteriormente, è fondamentale eliminare con urgenza i combustibili fossili come petrolio, carbone e gas, che sono i principali responsabili dell’aumento delle temperature globali”. LEGGI TUTTO

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    Dai pannelli alle caldaie: aumentano gli impianti finanziati dal “Conto termico”

    Stop ai contributi per l’acquisto delle caldaie a gas e via libera a quelli per i pannelli solari se installati insieme ad un impianto di riscaldamento a pompa di calore. Cambia volto il Conto Termico, la misura che consente di avere il rimborso immediato delle spese per l’efficientamento energetico in alternativa alla detrazione fiscale. La […] LEGGI TUTTO

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    Il congegno che monitora l’auto e insegna a inquinare meno quando si guida

    Ridurre le emissioni inquinanti dei veicoli per raggiungere l’obiettivo decarbonizzazione è un’urgenza. Ma è possibile farlo, senza dover acquistare un nuovo veicolo elettrico o ibrido? A quanto pare si, secondo uno studio del Politecnico di Milano, che ha sviluppato un apposito sistema di monitoraggio di virtual sensing, in grado di stimare sia le emissioni di anidride carbonica (CO?) sia gli ossidi di azoto (NOx), con estrema precisione, e con una strumentazione molto semplice e low-cost.

    Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, offre un punto di vista diverso sulla mobilità sostenibile, ma soprattutto rende consapevole ogni automobilista sia dell’impatto ambientale del suo veicolo, che della possibilità di diminuirne l’inquinamento prodotto solo cambiando abitudini di guida. Come? “L’idea è partita dalla volontà di definire un modo più preciso di calcolare le emissioni clima alteranti e ci siamo concentrati sugli ossidi di azoto, il principale prodotto delle emissioni della combustione, particolarmente nocivo in ambiente urbano perché rimane nell’aria e causa molti problemi respiratori”, spiega Silvia Strada, prima autrice dello studio del Polimi, che si è chiesta “perché l’impatto in termini di emissioni delle auto private debba dipendere solo dalla classe euro e non essere centrato invece sul veicolo individuale? Questo metodo permetterebbe di stimare con maggiore accuratezza quello che produce la singola auto”.

    L’aria nelle città

    L’inquinamento sta migliorando ma il rischio per la nostra salute resta

    di Nicolas Lozito

    07 Ottobre 2024

    La tecnologia per consentire questo cambio di paradigma ed un bel passo in avanti di ogni singolo conducente di veicoli è già disponibile, anche perché “in laboratorio o nei test le emissioni delle auto vengono misurate con degli apparati ingombranti che vengono attaccati al tubo di scappamento e misurano con precisione, ma sono costosissimi, quindi non è possibile che ognuno abbia uno strumento di questo tipo” sottolinea Strada, che invece col suo gruppo di ricerca, si è focalizzata su un piccolo dispositivo dotato di GPS per la localizzazione e di unità inerziale per la misura di accelerazioni, che rileva le emissioni basandosi sul modo in cui ciascuno di noi guida. “Si tratta di una piccola black box, che già si usa per scopi assicurativi, che si installa sulla batteria dell’auto, e misura accelerazioni in maniera continua nel tempo e dopo un certo campionamento i dati sono spediti a un server, raccolti e elaborati. La scatola nera misura velocità, chilometri percorsi e stile di guida contando le accelerazioni o decelerazioni brusche, in base a queste informazioni, abbiamo costruito e definito un algoritmo che calcola le emissioni inquinanti”.

    Per lo studio sono stati raccolti i dati, da oltre 8.000 veicoli privati già dotati di black box che sono stati analizzati per oltre 11 milioni di viaggi, dopodiché gli algoritmi hanno calcolato l’impatto ambientale reale di ogni veicolo. Il sistema, infatti, fa riferimento a tre indicatori di performance principali: il consumo di carburante, le emissioni di CO? e le emissioni di ossidi di azoto. E qui c’è un altro tassello interessante dello studio, che si collega ad un altro fattore, “scientificamente provato” che si chiama green speed, una fascia compresa tra i 50 e i 70 chilometri all’ora, in cui si consuma ed inquina meno, mentre al di sopra o al di sotto di questa fascia, avviene esattamente il contrario per una serie di fattori legati all’impatto ed alle forze aerodinamiche”.

    Non basta il motore elettrico: per la mobilità del futuro servono dati e infrastrutture

    di  Dario D’Elia

    27 Settembre 2024

    La pubblicazione del Politecnico di Milano, senza nulla togliere alla certezza che la transizione ecologica richiede dei veicoli con motorizzazioni meno inquinanti, dimostra però, che anche un’auto più datata può avere degli effetti importanti sulla sostenibilità, se guidata rispettando la green speed e per distanze limitate. Sappiamo, infatti, che l’Ue ha fissato obiettivi ambiziosi, concentrandosi sulla riduzione delle emissioni nei trasporti del 90% entro il 2050, come prevede il Green Deal, ma avere già oggi un sistema ecologico ed economico potrebbe comunque fare la sua parte nel contrasto all’inquinamento.

    “Nessuna tecnologia di veicolo è vietata a priori. E’ chiaro che se uno sceglie un veicolo elettrico ha una maggiore libertà di utilizzo rispetto alle emissioni, perché ne emette un decimo considerando tutta la catena di produzione, ma questo sistema pone la responsabilità nell’individuo” spiega ancora Silvia Strada, “ciascuno potrebbe avere una sorta di budget annuale in emissioni di CO2 e NOx spendibili nel tempo. Facendo un esempio, se in un giorno si fanno 5.000 km poi il budget a disposizione è finito”. Il sistema sviluppato dal Politecnico di Milano potrebbe avere numerose applicazioni per le amministrazioni urbane, che potrebbero utilizzarlo per gestire le emissioni nelle strade a traffico limitato, regolando accessi e tariffe di parcheggio in base all’impatto ambientale dei veicoli, ma senza vietare a priori la circolazione a nessuno, mentre si potrebbero premiare con incentivi i conducenti più virtuosi. LEGGI TUTTO

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    Natale green, se non si ricicla non lo compro

    Non si ricicla? Allora non lo compro. Il 51% dei consumatori italiani ha confessato che nel momento dell’acquisto cambia brand se il packaging non è riciclabile. Deviando le proprie scelte sulle confezioni più sostenibili. Sì perché secondo le ultime tendenze evidenziate da una ricerca condotta da Pro Carton, l’associazione europea dei produttori di cartone e cartoncino condotta in cinque paesi (UK, Francia, Germania, Italia e Spagna) “non è solo la differenziata a fare la differenza”, ma le dinamiche legate al riciclo. La parola d’ordine per il Natale 2024 è dunque niente sprechi, ma soprattutto ridurre il più possibile i rifiuti e l’utilizzo delle materie prime. Fatto non secondario, visto che secondo gli analisti i consumatori scelgono di fare acquisti in modo sempre più consapevole, al punto da eliminare dal carrello ciò che finisce nell’indifferenziato. Buone consuetudini che stanno coinvolgendo sempre più famiglie: il 59% degli italiani dichiara infatti di riciclare di più rispetto a 12 mesi fa, posizionando l’Italia al primo posto tra i Paesi europei analizzati. In pratica il motto delle 3R “riduci, riusa, ricicla” sembra stia influenzando in misura crescente i modelli di consumo soprattutto dei più giovani sensibili alla sostenibilità ambientale.

    Ambiente

    Festeggiamo il Natale (tanto paga la Terra)

    di  Fiammetta Cupellaro

    05 Dicembre 2024

    A Natale inquiniamo di più
    A Natale si sa, tra cene, regali e luminarie, inquiniamo di più. Il periodo fino al 7 gennaio è infatti uno dei momenti dell’anno in cui i rifiuti soprattutto quelli costituiti dai packaging raggiungono il picco, tra confezioni regalo, imballaggi alimentari e spedizioni. In due giorni, tra il 25 e il 26 dicembre in Italia vengono prodotti 75 mila tonnellate di carta e cartone. Praticamente la capacità di una discarica di dimensioni medie piccole. Secondo Comieco, il consorzio di recupero e riciclo dei materiali cellulosi, 25 milioni di famiglie produrranno ognuna tra Natale e Santo Stefano più di 3 chilogrammi di rifiuti da imballaggi, confezioni di panettoni, scatole di oggetti arrivati online, regali. Ma a leggere i dati della ricerca di Pro Carton un cambiamento è possibile. I consumatori italiani dimostrano di essere particolarmente attenti all’impatto ambientale delle loro scelte di acquisto e alle dinamiche di riciclo. Quel 59% che ha risposto di riciclare di più rispetto a 12 mesi fa dimostra un impegno crescente verso comportamenti responsabili, ancora più evidente se confrontato con altri Paesi, come la Germania, dove solo il 30% degli intervistati ha incrementato le proprie abitudini di riciclo.

    Ambiente

    Festeggiamo il Natale (tanto paga la Terra)

    di  Fiammetta Cupellaro

    05 Dicembre 2024

    Packaging sostenibile: un impegno per i brand
    Nel mondo del packaging la sostenibilità rappresenta un tema centrale: ogni step nella fase della progettazione deve tener conto dell’impatto ambientale e della scelta dei materiali impiegati. Su questo punto, il 66% degli italiani ritiene che aziende e retailer stiano facendo progressi per introdurre packaging più sostenibili, ma solo il 13% è pienamente convinto di un impegno deciso. Tuttavia c’è ancora spazio di miglioramento, perché il 34% dei consumatori italiani è ancora scettico sulle iniziative attualmente messe in atto dai brand per progettare soluzioni innovative più sostenibili. Infatti, l’80% dei consumatori preferirebbe che i brand sviluppassero packaging biodegradabili in cartone che possano essere riciclati, rispetto al 20% che privilegerebbe materiali plastici riutilizzabili.

    Alla ricerca di prodotti sempre più green
    E se il packaging non riciclabile è il motivo principale per cui il 51% degli italiani sceglie di cambiare brand. Seguono l’uso eccessivo di plastica (42%) e l’imballaggio superfluo (42%). Invece, il motivo che guida i consumatori esteri a scegliere un altro brand o un prodotto è la considerazione che il prodotto sia confezionato con un imballaggio non necessario. Per aziende e retailer, questo significa una possibilità concreta di rafforzare il legame con i clienti attraverso pratiche più sostenibili, come l’adozione di imballaggi riciclabili come il cartone o il cartoncino che nel 2022 ha raggiunto un tasso di riciclo dell’83,2% (dati Eurostat). In questo contesto, gli italiani dimostrano anche una solida conoscenza dei materiali riciclabili: l’87% si sente sicuro di sapere quali tipi di packaging possono essere riciclati, che si declina nella preferenza per materiali come il cartone ondulato (89%) e la carta e il cartone (86%). LEGGI TUTTO

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    L’Artico da bianco sta diventando blu: fra soli tre anni potrebbe restare senza ghiaccio

    Fra soli tre anni, nella peggiore delle ipotesi, gli scienziati stimano che potrebbe accadere qualcosa di finora inimmaginabile: passare da “un Oceano artico bianco” a un “Oceano artico blu”, in poche parole un Artico senza più ghiaccio. Una previsione inquietante, quella raccontata su Nature da due ricercatrici, Céline Heuzé del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Goteborg e Alexandra Jahn, esperta di scienze atmosferiche e oceaniche dell’Università del Colorado Boulder. Le stime si basano su dolorosi calcoli che, partendo come base dai dati raccolti nel 2023, dimostrano come agli attuali ritmi e tendenze di perdita di ghiaccio se per l’impatto del riscaldamento globale e delle attività antropiche si supereranno (cosa probabile) le perdite raggiunte finora c’è un’alta probabilità che l’Oceano artico rimanga senza ghiaccio “inevitabilmente entro i prossimi 20 anni”, con una possibilità estrema che ciò accada già a partire dal 2027.

    Il ritmo attuale di perdita è già superiore al 12% per ogni decennio, di conseguenza il giorno che simboleggerà una “pietra miliare minacciosa per il Pianeta”, scrivono le esperte, potrebbe essere centrato purtroppo in un lasso di tempo molto breve. Le conseguenze, nel tempo, sarebbero devastanti: non solo la perdita di ghiaccio può influire su circolazioni dell’aria e meccanismi del clima, aggravando determinate condizioni, ma come sappiamo è già letale per la sopravvivenza degli ecosistemi, dagli orsi polari sino alle altre creature che vivono nell’Artico fino alla sussistenza per le comunità che oggi abitano il Nord del mondo. Più in generale il ghiaccio marino mondiale ha un ruolo cruciale nella regolazione delle temperature dell’oceano e dell’aria e nell’alimentazione delle correnti oceaniche che trasportano calore e sostanze nutritive in tutto il mondo, per cui le ripercussioni sarebbero di natura “globale” e non locale. La causa principale della perdita e dello scioglimento è, come noto, legata alle emissioni climalteranti create dalle attività dell’uomo, quelle che contribuiscono al riscaldamento globale: anche se oggi facessimo un immediato passo indietro sulle emissioni di gas serra, i processi che porteranno l’Artico a trasformarsi in un “oceano blu” sono già avviati e molto probabilmente ciò si verificherà “entro nove o vent’anni dal 2023”, con proiezioni estreme che parlano appunto di una scomparsa già entro soli tre anni.

    Riscaldamento globale

    Danni irreversibili alla criosfera, lo scioglimento dei ghiacciai non è più sostenibile

    di  Pasquale Raicaldo

    13 Novembre 2024

    “Il primo giorno senza ghiaccio nell’Artico non cambierà subito le cose in modo radicale ma mostrerà che abbiamo fondamentalmente alterato una delle caratteristiche distintive dell’ambiente naturale nell’Oceano Artico, ovvero che è coperto da ghiaccio marino e neve tutto l’anno, attraverso le emissioni di gas serra” ha spiegato la coautrice dello studio Alexandra Jahn. Nell’Artico che oggi si sta riscaldando quattro volte più velocemente rispetto ad altre zone del mondo, il passaggio da bianco a blu potrebbe inoltre significare la perdita dell’effetto albedo, dato che superfici più scure riflettono meno la radiazione solare. Lo studio, che si basa su dati e osservazioni satellitari, oltre che su 11 modelli climatici e algoritmi elaborati dalle ricercatrici, indica come l’impatto della crisi del clima potrebbe portare diverse aree dell’Artico oltre il limite di ghiaccio di 0,3 milioni di miglia quadrate, cifra che viene considerata per definire un’area libera dai ghiacci. Rispetto al periodo tra il 1979 e il 1992, quando si contava una estensione di ghiaccio di almeno 2,6 milioni di miglia quadrate, ora siamo già passati a 1,6 milioni e il declino è costante. Nove delle simulazioni (su 366 totali) effettuate dalle ricercatrici stimano che se i tassi attuali di perdita peggioreranno, cosa possibile dato che anche il 2024 è stato un nuovo anno da record per temperature medie globali elevate, allora il primo giorno di “Artico senza ghiaccio” potrebbe arrivare già “tra tre e sei anni”. Dunque prima o poi, entro il 2030, questo giorno arriverà ma, stimano gli esperti, non tutto è perduto. Lavorare a livello planetario sulla riduzione delle emissioni infatti “contribuirebbe a preservare il ghiaccio marino” sostiene Jahn. Parallelamente, proprio nel tentativo di preservare i ghiacci, un gruppo di scienziati e imprenditori sta anche sperimentando nell’Artico candese un nuovo sistema per provare a pompare acqua marina sottostante e congelarla in superficie.

    Crisi climatica

    La fusione dello strato di ghiaccio sull’Artico potrebbe influenzare le correnti oceaniche

    di Sara Carmignani

    01 Novembre 2024

    Nella zona di Nunavut sta operando infatti la start-up britannica Real Ice e, con l’obiettivo di rallentare o addirittura invertire la perdita di ghiaccio estiva e primaverile il gruppo punta – anche se con metodi criticati perché secondo alcuni non potrebbero funzionare su larga scala – a congelare sempre più acqua estratta per invertire quella rotta che ha portato dagli anni Ottanta ad oggi a ridurre la quantità di ghiaccio spesso di quasi il 95%. Per ora, come ha raccontato l’italiano Andrea Ceccolini, che è co-Ceo di Real Ice, si tratta di un tentativo arduo ma “possibile” per “lasciare un mondo migliore ai miei figli” anche se altri scienziati criticano la possibilità che questo metodo possa funzionare appunto su larga scala. L’unica certezza, osservando i modelli attuali, resta purtroppo l’attesa di un giorno: quello da passaggio da “bianco a blu” che appare sempre più vicino. LEGGI TUTTO