28 Novembre 2024

Daily Archives

consigliato per te

  • in

    Quanto impatta il Black Friday sull’ambiente? Le domande che dovremmo porci prima di acquistare

    Mi serve davvero questo prodotto? Forse è la prima domanda da porsi mentre si partecipa alla sfrenata corsa agli acquisti del Black Friday. La seconda invece potrebbe essere: quanto impattano sull’ambiente gli acquisti che sto per fare nel grande venerdì degli sconti? E infine, ci sono alternative più verdi che potrei scegliere a parità di costi? Piccoli ma importanti quesiti che nel giorno del gigantesco shopping online, quello in cui le vendite e di conseguenza anche i trasporti e i consumi energetici aumenteranno vertiginosamente, possiamo provare a porci nel tentativo di capire quanto – il Black Friday – impatti sull’ambiente (e dunque sul nostro futuro).

    Calcolare gli impatti ambientali del Black Friday a livello globale non è semplice e mancano cifre e studi completi in grado di restituirci una fotografia aggiornata: sappiamo però che l’inquinamento avviene sotto forma di emissioni (da quelle per la produzione sino ai trasporti e le consegne), di materiali da imballaggio (come la plastica) e perfino per sprechi e inutilizzo, dato che per esempio negli Usa un quarto degli acquisti effettuati tra il venerdì di fine novembre e Capodanno finisce nel dimenticatoio.

    Il caso

    “Buy now”, altro che Black Friday: il docufilm svela i danni del consumismo sull’ambiente

    di  Paolo Travisi

    28 Novembre 2024

    A livello di emissioni i calcoli sono complessi e per un Paese come l’Italia si stimano circa 500.000 tonnellate di CO2 equivalente nell’arco della settimana a cavallo del Black Friday.

    Come trasporti, in un report di due anni fa a livello europeo, Transport&Envoirement stimava invece 1,2 milioni di tonnellate di CO2 legate ai soli camion che spostano su strada merci in Europa: si parla di 94% in più rispetto a una settimana media, come 7.000 voli da Parigi a New York. Appena fuori Europa, in Gran Bretagna, l’Università di Leeds ha invece stimato solo per il trasporto degli acquisti del Black Friday circa 400mila tonnellate di anidride carbonica, un bel po’ di emissioni, che quest’anno potrebbero oltretutto aumentare secondo le previsioni di altre 30mila tonnellate. Sempre a livello di emissioni dei trasporti, a livello globale, la previsione relativa allo spostamento dei nostri pacchi è di un aumento del 90% durante l’intera settimana di shopping.

    Economia circolare

    Da Ikea a eBay, quando i prodotti di seconda mano aiutano l’ambiente

    di Giacomo Talignani

    27 Agosto 2024

    Tutto ciò lo sappiamo: si traduce in alterazioni dell’atmosfera che portano all’intensificazione della crisi del clima, con eventi meteo sempre più estremi come quelli osservati negli ultimi mesi. Ma se per arrivare fino a noi è inevitabile che questi prodotti contribuiscano all’inquinamento, è ancor più preoccupante pensare quello che con i pacchi appena ordinati finiamo per non fare: ovvero, non utilizzarli nemmeno (motivo per cui vale la pena di chiedersi se è davvero necessario acquistarli). Un report di Green Alliance stima per esempio che addirittura l’80% degli articoli acquistati durante il Black Friday vengano rispediti o persino gettati dopo “pochi utilizzi”, in alcuni casi anche “senza essere stati usati” o tirati fuori dalla confezione. Con lo shopping online tra l’altro, a differenza dell’acquisto in negozio i resi aumentano fino a quattro volte. Più resi significano più trasporti e di conseguenza un aumento dei veicoli per le consegne che sarà esponenziale soprattutto nei prossimi tre anni dato che a livello globale si prevede che il giro d’affari dell’ecommerce supererà gli 8 trilioni di dollari.

    I trasporti ovviamente sono però solo una parte degli impatti ambientali, perché a livello di CO2 per esempio incide molto di più il processo di produzione, che è diverso per ogni materiale o merce. Per dare un’ idea: produrre un comunissimo pc rilascia in atmosfera sino a 200 kg di CO2. Un solo smartphone può emettere oltre 70 kg di CO2, di cui l’80% proprio in fase di produzione. Una maglietta invece rilascia in media più chilogrammi di anidride carbonica rispetto al peso della maglietta stessa e, per realizzarla, si possono arrivare ad usare anche sino a 2.700 litri di acqua.

    Proprio l’abbigliamento e gli accessori, insieme all’elettronica, sono i prodotti che molto probabilmente acquisteremo di più durante questo Black Friday. Come fa notare però l’associazione Friends of the Earth con un nuovo rapporto sul fashion, in meno di 40 anni in paesi come la Francia ad esempio il consumo di abbigliamento è più che raddoppiato. A livello mondiale, praticamente, se la produzione di abbigliamento si fermasse oggi l’intera umanità avrebbe “abbastanza vestiti da indossare fino al 2100”. E mentre cresce la produzione di vestiti (ormai siamo tra i 100 e i 150 miliardi di capi l’anno), cresce anche il contributo del settore moda e soprattutto fast fashion per le emissioni globali, ormai oltre al 10%. Solo in Francia, per dare un’idea , un quarto di tutte le consegne postali è per pacchi dei colossi cinesi Temu e Shein.

    L’inchiesta

    Fast fashion dei veleni, Greenpeace: “Il Ghana inquinato dagli abiti usati che arrivano dall’Europa”

    di redazione Green&Blue

    12 Settembre 2024

    A questo punto, anche se le cifre spesso non aiutano a identificare la reale portata dell’inquinamento da shopping legato al Black Friday, ci si può sempre chiedere se ci sono alternative più sostenibili da cavalcare. In rete si trovano tante proposte, ma alcuni marchi specifici proprio per il Black Friday hanno deciso di prendere posizione radicali nel tentativo di aiutare l’ambiente e mostrare un’altra strada da poter percorre. Ad esempio Patagonia – che da anni fa campagne anti-Black Friday – anziché grandi sconti incoraggia i clienti alla riparazione degli articoli e donerà l’1% delle vendite a cause ambientali. Oppure Asket, marchio di moda svedese, per il BF ha deciso di chiudere il suo negozio online per il settimo anno consecutivo. Altri, come Monki, evitano gli sconti e fanno campagne per acquisti di seconda mano, o addirittura c’è chi come Citizen Wolf, azienda australiana di abbigliamento, offre un servizio per rinnovare i vecchi vestiti con nuovi colori anziché acquistare nuovi prodotti. Al netto di alcuni esempi, gli esperti di sostenibilità consigliano sempre di seguire quattro passaggi nel caso si voglia vivere un venerdì un po’ più green e meno black: il primo è acquistare meno e riparare ciò che si ha e, per questo, è anche stata lanciata la campagna Buy Nothing Day che invita proprio ad astenersi dagli acquisti per 24 ore. Il secondo è usare le cose, perché molti prodotti vengono appunto acquistati e nemmeno mai utilizzati. Poi si può sempre fare attenzione ai materiali: meglio quelli sostenibili in cui grazie a etichette trasparenti si conosce la composizione. Infine, come sempre, vale la pena acquistare localmente per ridurre sprechi ed emissioni legati alle spedizioni. LEGGI TUTTO

  • in

    Ai negoziati per il Trattato globale sulla plastica la carica delle lobby dei combustibili fossili

    A Busan, mentre i rappresentanti di tutto il mondo discutono su un problema enorme che non possiamo più ignorare, l’elefante nella stanza è talmente grande che si teme per l’effettiva riuscita del vertice. Esattamente come alla Cop29, conferenza delle parti sul clima appena conclusa a Baku e presidiata da migliaia di lobbisti dei combustibili fossili, anche in Corea del Sud il paradosso è lampante: mentre fino al 1° dicembre si negozierà per ottenere un Trattato globale sulla plastica, in modo da limitare l’inquinamento di questo materiale che potrebbe raddoppiare al 2050, nei corridoi del summit è pieno di lobbisti dell’industria della plastica.

    Il report

    Più lobbisti dei combustibili fossili che delegati dei paesi vulnerabili alla Cop del clima

    di  Giacomo Talignani

    15 Novembre 2024

    C’è di tutto: dai rappresentanti del petrolio a quelli della chimica, da quelli degli imballaggi alla cosmetica sino ai lobbisti della componentistica auto. Il numero è da record: circa 220 manager e uomini di aziende che hanno come intenzione primaria quella di garantire che la plastica vergine possa ancora essere prodotta e che l’industria della plastica non incappi in battute d’arresto. Mai, ai negoziati sul Trattato – che vede attualmente opposte le posizioni di Paesi produttori di combustibili fossili come Arabia Saudita, Russia e Iran a un gruppo di circa 60 nazioni che invece chiedono passi indietro sulla produzione di plastica – c’erano stati così tanti lobbisti, impegnati a frenare tentativi di porre limiti alla quantità di plastica che in futuro potrà essere prodotta.

    Inquinamento

    Trattato mondiale della plastica: ultima chance per liberarci dall’inquinamento

    di  Giacomo Talignani

    25 Novembre 2024

    Non è una novità che ai vertici mondiali ci sia una tale ingerenza: è accaduto alla Cop16 sulla Biodiversità, dove erano presenti per esempio lobbisti del mondo della pesca e della caccia, è accaduto nuovamente anche alla Cop29 sul clima, con 1773 rappresentati dell’oil&gas presenti laddove bisognava discutere di uscita graduale dai combustibili fossili. Ora, l’analisi del Center for International Environmental Law (CIEL), mostra come anche ai colloqui sulla plastica guidati dalle Nazioni Unite a Busan a primeggiare siano i lobbisti: se presi come gruppo, sarebbero addirittura la delegazione più numerosa ai colloqui dato che si parla di 220 persone, mentre la delegazione del Paese ospitante, la Corea del Sud, è di “appena” 140 persone.

    Numeri che sono più del doppio persino degli 89 delegati dei piccoli stati insulari in via di sviluppo del Pacifico (PSID), quelli che oggi sono più sommersi dalla plastica. I lobbisti superano, per numero, perfino i delegati della Coalizione degli scienziati che punta ad ottenere un trattato efficace sulla plastica, preoccupati dal fatto che ormai ogni anno vengano prodotte 460 milioni di tonnellate di plastica, materiale di cui riusciamo a riciclare pochissimo (intorno al 10%). Proprio 900 scienziati indipendenti di recente hanno firmato una dichiarazione per chiedere ai negoziatori di accelerare e trovare un accordo per un Trattato globale che limiti la produzione di plastica, cosa che invece i rappresentati delle aziende presenti non auspicano affatto. I produttori infatti non vogliono “limiti” e, sulla spinta di Arabia Saudita, Russia, Iran e anche Cina continuano a insistere sulla necessità di evitare tagli alla produzione e migliorare invece la gestione dei rifiuti, aspetto che finora però non è mai funzionato.

    “I limiti alla produzione e la riduzione della quantità di materiale nel sistema avrebbero un impatto maggiore su coloro che meno se lo possono permettere” sostiene per esempio Stewart Harris, portavoce dell’International Council of Chemical Associations (ICCA). Questa retorica è però quella che preoccupa attivisti e scienziati perché ci porta verso qualcosa, il recupero e riciclo, che finora non ha dato alcun frutto concreto. Per Delphine Levi Alvares del CIEL “abbiamo visto i lobbisti del settore circondare i negoziati con tattiche tristemente note di ostruzione, distrazione, intimidazione e disinformazione, una strategia progettata per preservare gli interessi finanziari dei Paesi e delle aziende che antepongono i loro profitti derivanti dai combustibili fossili davanti alla salute umana, ai diritti umani e al futuro del Pianeta”.

    La sola presenza dei lobbisti fra i corridoi Onu fa temere dunque per una riuscita reale degli accordi: ci si chiede per esempio cosa ci facciano a Busan i rappresentati di aziende come Dow o Exxon Mobil, grandi produttori di plastica, gli stessi che insieme ad altre ditte avevano firmato una alleanza volontaria per “porre fine ai rifiuti di plastica” nonostante si sia poi scoperto che proprio quelle aziende avevano prodotto fino a 1000 volte più plastica nuova rispetto ai rifiuti che hanno smaltito in cinque anni. Anche per questa ingerenza ci sono forti dubbi sulla possibilità di raggiungere un accordo per un trattato “giuridicamente vincolante” entro la fine della settimana quando, come sostiene Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, “gli Stati membri dovranno definire un trattato globale sulla plastica che dia priorità a un ambiente vivibile per noi e per le future generazioni, piuttosto che ai compensi di un manipolo di amministratori delegati. E per farlo serve un accordo ambizioso e legalmente vincolante che riduca la produzione della plastica e ponga fine al monouso”. Un accordo che però senza pressioni da parte della società civile, anche vista l’ingerenza dei lobbisti, rischia di non trovare terreno fertile: eppure, avvertono scienziati e associazioni guidate dalla Plastic Health Council, ignorare l’impatto della plastica sulla salute non solo degli ecosistemi ma anche umana, è ormai “delirante”. LEGGI TUTTO

  • in

    Black friday, un venerdì nero… anche per la sostenibilità

    Uno dei significati della parola “consumare” è “distruggere, deteriorare”. Qualcosa su cui dovremmo tutti riflettere. Il consumo eccessivo, ben lontano dal soddisfare i nostri bisogni primari, risulta essere non a caso un fattore determinante dell’emergenza climatica ed ecologica che stiamo vivendo a livello globale. E il Black Friday è probabilmente il momento in cui la cultura del sovra-consumismo trova la sua espressione più estrema.?Anche in una settimana di acquisti pre-natalizi come questa, il WWF ricorda che si può cercare di approfittare degli sconti senza abusare inutilmente delle risorse del Pianeta.

    Dalle sue origini americane, il Black Friday ha guadagnato popolarità in tutto il mondo. Il 70% degli italiani dichiara che anche quest’anno effettuerà almeno un acquisto – principalmente prodotti di elettronica, scarpe, moda e cosmetici – e lo farà attraverso piattaforme online. Ma, sebbene i prezzi siano vantaggiosi per i consumatori, il Black Friday è caratterizzato anche da un costo ambientale significativo. Durante la settimana di sconti il trasporto su gomma delle merci verso magazzini e negozi di tutta Europa rilascia nell’atmosfera oltre 1 milione di tonnellate di CO2, il 94% in più di una settimana media. Questa stima manca, peraltro, delle emissioni per le consegne degli acquisti online che, come abbiamo detto, in Italia rappresentano la maggior parte degli acquisti. Ammonterebbero a circa 500.000 le tonnellate di CO2eq rilasciate nell’atmosfera in Italia durante la settimana del Black Friday. La CO2 equivalente è una misura utilizzata per confrontare l’impatto ambientale di diversi gas serra, traducendoli in un’unica unità di misura basata sul loro potenziale di riscaldamento globale (GWP, Global Warming Potential). In pratica, indica quanta CO2 avrebbe lo stesso effetto sul riscaldamento globale di una determinata quantità di un altro gas serra.

    Con un budget medio di 230 euro per italiano, che arriva fino 300 euro nei Millennial, è evidente l’esistenza di meccanismi che hanno reso cool il consumo e il conseguente ricambio frequente degli oggetti. C’è invece scarsissima consapevolezza dell’impatto ambientale che porta con sé ogni acquisto: soltanto 1 italiano su 10, infatti, ha contezza dell’alto costo ambientale che si nasconde dietro il prezzo basso dei prodotti. I più attenti al tema sono risultati essere i ragazzi della GenZ, fanalino di coda invece i Boomers dai 59 anni in su.

    Gli impatti del sovra-consumo di prodotti elettronici
    Un solo smartphone può emettere oltre 70 kg di CO2, di cui l’80% in fase di produzione. E non solo: dentro ciascun dispositivo elettronico che utilizziamo c’è una piccola miniera di risorse rare e preziose. Basti dire che la maggior parte degli smartphone può contenere l’80% degli elementi stabili della tavola periodica! Il mix di metalli presente in uno smartphone spazia da quelli comuni, come rame e zinco, a metalli preziosi come oro e platino, fino a metalli esotici come terre rare e germanio. Date le dimensioni ridotte degli attuali telefonini, la quantità di uno qualsiasi di questi metalli è bassa. Se si considera, però, che quasi 3 miliardi di persone, ovvero circa il 40% di tutti gli individui sulla Terra, ne possiede almeno uno, le piccole quantità si sommano. Inoltre, la gran parte degli elementi in questione ha la caratteristica di essere distribuita in modo disuguale nei vari continenti e di trovarsi spesso in piccole quantità nei minerali dai quali viene estratta, il che richiede processi molto impattanti che causano la devastazione di territori e l’uso di sostanze chimiche estremamente tossiche con conseguenze gravi quali perdita di biodiversità, inquinamento idrico ed erosione del suolo.

    Ne consegue che le nostre miniere del futuro non sono solo in Cina e in Africa, le aree più ricche di molti di questi elementi, ma sono nella spazzatura! In Italia si producono circa 1,1 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici all’anno, 19 kg a testa, di cui sono correttamente raccolti solo 6 kg, lasciando senza traccia tonnellate di risorse naturali potenzialmente recuperabili e aumentando i rischi di inquinamento per le comunità di tutto il mondo. Da questi rifiuti, infatti, possono essere recuperate circa 70 diverse Materie Prime Seconde (come rame, ferro, alluminio, ma anche indio, silicio, tantalio e terre rare) da reintrodurre in nuovi cicli produttivi senza generare impatti negativi sulle risorse vergini del Pianeta.

    Un Pianeta alla moda, ma sempre meno sano
    Il Black Friday è anche il fascino della moda, che attrae gli acquirenti con promesse di capi a prezzi imbattibili. Tuttavia, sotto la superficie di questo settore spesso frenetico e guidato dalle tendenze, si nasconde un lato oscuro che merita una riflessione. Negli ultimi 15 anni, si è ridotto del 36% il tempo di utilizzo dei?vestiti, che sono diventati spesso articoli usa e getta, con gravi problemi di uso insostenibile di materie prime e produzione di rifiuti. In Italia, per abbigliamento, calzature e tessuti, vengono immessi sul mercato 23 kg di prodotti l’anno per abitante. In questo siamo primi in Europa, a fronte però di una raccolta di rifiuti di soli 2,7 kg pro-capite, che corrispondono a circa 160mila tonnellate di rifiuti tessili prodotti in Italia. Una delle maggiori criticità del settore, infatti, è la gestione del fine vita dei vestiti e delle fibre tessili non riutilizzabili.

    A livello globale meno dell’1% dei rifiuti tessili viene riciclato per fare nuovi vestiti. Gran parte di questi rifiuti viene esportato e finisce in grandi discariche in Asia, Africa e Sud America. L’industria tessile è tra le più impattanti per l’ambiente e tra quelle che maggiormente incidono sul cambiamento climatico. L’industria tessile è la seconda a livello mondiale per inquinamento delle acque, secondo le Nazioni Unite. Per produrre una semplice T-shirt di cotone sono necessari circa 2.700 litri d’acqua, l’equivalente della quantità d’acqua che una persona beve in circa due anni e mezzo. I tessuti sono una delle principali fonti di inquinamento da microplastiche, che hanno in genere una forma di fibra. I nostri abiti sintetici, invece, possono rilasciare nelle acque di superficie 13mila tonnellate di microfibre tessili, pari a 25 grammi per persona.?Questa enorme diffusione ambientale fa sì che quantità di micro e nanoplastiche siano poi presenti in molti organi del corpo umano, anche nel cervello. In alcuni casi è stata anche dimostrata l’incidenza di queste sostanze nelle cardiopatie, nell’ictus e persino nell’Alzheimer.

    La frenesia degli acquisti determina un ulteriore impatto imprevisto: i resi.?Quando si acquista da negozi fisici, i resi rappresentano meno del 10% dei prodotti venduti, quando lo shopping è online i resi aumentano fino a 4 volte. I resi hanno un peso sulle emissioni che può essere del 30% maggiore rispetto alla consegna iniziale, dovuto alla logistica ad alta intensità energetica. Ad aggravare il peso ambientale è che oltre il 25% dei resi viene buttato via dai rivenditori.?

    “Il consumismo si scontra con i limiti della capacità del nostro pianeta di sostenere la vita. Quest’anno, invitiamo i consumatori a pensare oltre gli sconti e a dare priorità ad un consumo più sostenibile e responsabile. Gli acquisti eccessivi, specialmente nei settori ad alta intensità di uso di risorse come elettronica e moda, hanno un elevato?impatto ambientale. Niente è più importante per gli esseri umani di una biosfera ecologicamente funzionante e che sostenga la vita sulla Terra. È l’unico posto abitabile che conosciamo.” afferma Eva Alessi, Responsabile Sostenibilità del WWF Italia. “Il Black Friday può essere un’opportunità per ripensare le abitudini di consumo e adottare scelte più sostenibili. Evitando di fare acquisti impulsivi o anche solo facendo acquisti in modo consapevole, supportando marchi attenti alla sostenibilità e concentrandosi su acquisti basati su reali necessità, possiamo contribuire a ridurre la nostra impronta ambientale”.

    Per uno shopping più sostenibile, il WWF Italia quest’anno propone la sua Conservation Collection che garantisce risparmi sicuri per il nostro Pianeta. Nello specifico del 92% di CO2, il 98% di acqua e il 76% di energia. I prodotti della WWF Conservation Collection sono infatti realizzati in 100% lana riciclata certificata GRS. Inoltre, sono creati a partire da vecchi indumenti, da cui è ricavata la lana per la realizzazione dei capi WWF: questi indumenti vengono selezionati per colore; perciò, non è necessaria una nuova tintura che rappresenta il processo più impattante di tutta l’industria della moda. All’interno della Collection ci sono tanti articoli per tenersi al caldo durante l’inverno come maglioni e sciarpe. Il tutto con fantasie che richiamano anche non scontati per il periodo natalizio, come elefanti e tartarughe. La collezione completa è disponibile a questo link. LEGGI TUTTO