4 Settembre 2023

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    Le specie aliene costano al Pianeta 423 miliardi di dollari all’anno

    Le specie invasive hanno per l’economia globale un costo di 423 miliardi di dollari all’anno. È uno tra i tanti dati significativi del nuovo importante rapporto della Piattaforma Intergovernativa sulla Biodiversità e Servizi Ecosistemici (IPBES), pubblicato oggi. Approvato sabato a Bonn, in Germania, dai rappresentanti dei 143 Stati membri dell’IPBES, il “Rapporto di valutazione sulle specie esotiche invasive e il loro controllo” rileva che, oltre ai drammatici danni per la biodiversità e gli ecosistemi, il costo economico globale si è almeno quadruplicato ogni decennio dal 1970. 

    Tra gli esperti che hanno lavorato al rapporto anche l’italiano Piero Genovesi, Responsabile del Servizio per il coordinamento della fauna selvatica dell’Ispra, che ha avuto il ruolo di revisore del capitolo di riepilogo per i decisori politici. Spiega Genovesi: “Il rapporto è il compendio di uno studio durato 4 anni e una discussione approfondita tra 86 ricercatori da 49 Paesi, che parlavano 15 lingue, e hanno esaminato oltre 13mila fonti tra articoli e rapporti di comunità locali. È un importante documento che sarà indispensabile anche per i lavori della Cop28 di Dubai”. 

    I punti salienti del Rapporto indicano che:

    Più di 37.000 specie esotiche sono state introdotte da molte attività umane in regioni e biomi di tutto il mondo. Questa stima è ora in aumento a tassi senza precedenti
    Le specie esotiche invasive rappresentano una grave minaccia globale per la natura, economie, sicurezza alimentare e salute umana
    Hanno un ruolo chiave nel 60% delle estinzioni globali di piante e animali
    I costi annuali sono ora superiori a 423 miliardi di dollari e sono quadruplicati in ogni decennio dal 1970
    La grave minaccia globale rappresentata dalle specie esotiche invasive è sottovalutata, sottostimata e spesso misconosciuta
    Ci sono prove, strumenti e opzioni per aiutare i governi a raggiungere un nuovo ambizioso obiettivo globale sulle specie aliene invasive

    Nel 2019, il Rapporto di Valutazione Globale dell’IPBES aveva già rilevato che le specie esotiche invasive sono una delle cinque più importanti cause dirette della perdita di biodiversità, insieme ai cambiamenti nell’uso del suolo e del mare, allo sfruttamento diretto delle specie, ai cambiamenti climatici e all’inquinamento. Sulla base di questa constatazione, i governi avevano incaricato l’IPBES di fornire le migliori prove disponibili e le opzioni politiche per affrontare le sfide delle invasioni biologiche, contenute ora, appunto, nel Rapporto reso noto oggi. 

    “I dati raccolti dagli esperti sono stati oggetto di discussione approfondita – sottolinea Genovesi –  e così come è stato indicato anche nella Cop15 sulla biodiversità dello scorso dicembre a Montreal, un ampio spazio è stato dato ai rapporti delle comunità locali, valutando informazioni non pubblicate e non tradizionali. Tutto conferma che le specie invasive sono un fenomeno diffuso e pericoloso, una grave minaccia per la biodiversità e possono causare danni irreversibili alla natura, tra cui estinzioni di specie a livello locale e globale, oltre a minacciare la salute e il benessere umani”. 

    La differenza tra specie aliene e specie invasive

    Gli autori del rapporto sottolineano che non tutte le specie aliene diventano invasive:  le specie aliene invasive sono il sottoinsieme delle specie esotiche di cui si conosce l’insediamento e la diffusione, che causano impatti negativi sulla natura e spesso anche sulle persone. Circa il 6% delle piante esotiche, il 22% degli invertebrati alieni, il 22% degli invertebrati alieni, il 14% dei vertebrati alieni e l’11% dei microbi alieni sono noti per essere invasivi e comportare gravi rischi per la natura e per le persone.

    Biodiversità

    Individuata una seconda specie di granchio blu nel Mar Adriatico

    a cura di redazione Green&Blue

    29 Agosto 2023

    “Le persone che hanno una maggiore dipendenza diretta dalla natura, come le popolazioni indigene e le comunità locali, sono ancora più a rischio – osserva Genovesi – più di 2.300 specie esotiche invasive sono presenti nelle terre sotto la tutela delle popolazioni indigene e minacciano la loro qualità di vita e persino le loro comunità locali, perché nel 66% dei casi viene colpita la loro disponibilità di cibo.Uno tra gli esempi riportati durante la discussione riguarda i fichi d’india, che nelle nostre regioni del Sud sono ormai una presenza costante. In Africa orientale la loro diffusione ha effetti disastrosi sulle aree dei pascoli, dove soprattutto donne e bambini cercano di estirparlo senza utensili adatti, procurandosi gravissime ferite. Il contributo dato dalle popolazioni indigene al rapporto è stato fondamentale: se molte specie aliene hanno alcuni positivi, per molte comunità indigene gli effetti sono negativi al 92%”.

    Effetti aumentati da cambio climatico e globalizzazione

    Il cambio climatico e la globalizzazione hanno dato impulso alla diffusione di specie invasive. “Un impatto già devastante di per sé sulle specie autoctone e sugli ecosistemi è diventato ancora più drammatico per le sinergie con altri meccanismi come il riscaldamento globale e la modificazione degli habitat – dice l’esperto dell’Ispra – Anche in questo caso c’è un esempio recente: la devastazione degli incendi alle Hawai è stata provocata anche dallla presenza di molte erbe esotiche per le isole, facilmente infiammabili. La globalizzazione dell’economia ha poi fatto sì che il fenomeno si ampliasse negli ultimi due secoli, con l’aumento dei trasporti commerciali. I dati indicano che nel 2050 aumenterà ancora di un terzo”. 

    “Tutto ciò ha un enorme costo – rimarca Genovesi – che quadruplica ogni decennio, perché così come aumentano le invasioni accelerano i costi. In questo bilancio di 423 miliardi di dollari all’anno bisogna sottolineare che il 92% sono costi diretti e soltanto 8% le spese per arginarli”. 

    Le politiche per arginare il fenomeno

    “Il rapporto serve proprio a fornire un quadro dettagliato del problema delle specie invasive e indicare le politiche necessarie ad arginarlo – dice Genovesi – Sebbene si tratti di un fenomeno con un impatto spaventoso, se davvero si impiegassero le risorse adatte sarebbe possibile tenerlo sotto controllo. Anche qui basta un esempio: il granchio blu è stato individuato nel Mediterraneo per la prima volta nel 1948 e se in questi 60 anni si fosse fatto qualcosa non ci troveremmo nella situazione attuale. I nostri governi devono capire che bisogna investire nella prevenzione, come si fa sulla salute, perché è appunto anche un problema di salute”. 

    Gli esperti dell’IPBES sottolineano, infatti, l’insufficienza delle misure adottate per affrontare queste sfide: mentre l’80% dei Paesi ha obiettivi relativi alla gestione delle specie esotiche invasive nei piani nazionali per la biodiversità, solo il 17% ha leggi o regolamenti nazionali che affrontano specificamente questi problemi e il 45% dei Paesi non investe nella gestione delle invasioni biologiche. La buona notizia è però che le future invasioni biologiche, le specie esotiche invasive e i loro impatti possono essere prevenuti attraverso una gestione efficace e approcci più integrati. 

    “Per quasi tutti i contesti e le situazioni, esistono strumenti di gestione, opzioni di governance e azioni mirate che funzionano davvero – sottolinea l’esperto – Le misure di prevenzione, come la biosicurezza alle frontiere e i controlli rigorosi sulle importazioni, in molti casi hanno funzionato. Uno dei messaggi più importanti del rapporto è appunto che i progressi ambiziosi nell’affrontare le specie aliene invasive sono realizzabili con un approccio integrato e specifico per il contesto.

    Serve anche maggiore informazione: “La scarsa consapevolezza è un grave problema – conclude Genovesi – L’Eurobarometro indica le specie invasive come la minaccia meno conosciuta dagli europei, per questo speriamo che questo studio serva a portare attenzione sul fatto che i nostri comportamenti possono influire molto sulla diffusione o sulla diminuzione del fenomeno. Ci sono molte specie esotiche che non hanno un grande impatto, ma non si tratta di fermare la circolazione di merci o attività ma di prevenire e disciplinare”. LEGGI TUTTO

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    Clima, quasi 2 milioni di bambini sfollati nell’Africa subsahariana

    Alla fine del 2022, almeno 1,85 milioni di bambini dell’Africa subsahariana hanno subito le conseguenze dei cambiamenti climatici e ambientali: sfollati all’interno dei loro Paesi. Ancora una volta è l’Africa, una regione che ha contribuito in minima parte alle emissioni globali di carbonio, a pagare le conseguenze maggiori. Secondo Save The Children e Unicef, nel giro di un anno sono raddoppiati: erano un milione nel 2021. 

    Proprio mentre i responsabili politici si riuniscono a Nairobi in occasione dell’African Climate Summit 2023, la fotografia di Save The Children e dell’Unicef ci conferma ancora una volta quanto i bambini siano più vulnerabili degli adulti agli effetti dello stress climatici e ambientali. Sono fisicamente meno capaci di sopravvivere e resistere alle ondate di calore, le tempeste, gli uragani. Molti dei bambini descritti nel dossier “Time to act: African chidren in the climate change” sono stati più volte costretti ad abbandonare la propria casa, altri solo una volta, vivendo in campi profughi oppure presso famiglie allargate o in altre strutture temporanee. Su 49 Paesi africani analizzati, 48 sono stati valutati per i bambini “ad alto rischio”. I più a rischio sono quelli che abitano nella Repubblica Centroafricana, Ciad, Nigeria, Guinea, Somalia e Guinea-Bissau.

    Clima

    Unicef: “In Asia Meridionale 3 bambini su 4 esposti a temperature estreme”

    di Fiammetta Cupellaro

    07 Agosto 2023

    Le inondazioni nello Stato di Borno e in altre parti della Nigeria hanno portato il Paese a registrare il più alto numero di nuovi sfollati interni dovuti a disastri climatici di tutta l’Africa sub-sahariana nel 2022, con 2,4 milioni di sfollati. Alla fine dell’anno, erano almeno 854 mila le persone rimaste sfollate a causa del clima, tra cui si stima ci siano 427 mila bambini. Nel frattempo, in Somalia, cinque stagioni delle piogge mancate hanno costretto circa 6,6 milioni di persone – pari al 39% della popolazione – a livelli critici di fame e hanno portato il Paese al secondo posto per numero di sfollati interni, con 1,1 milioni di persone.

    Nel corso del 2022, in tutta l’Africa sub-sahariana il numero di nuovi spostamenti interni causati da questi disastri è stato in totale anche tre volte superiore all’anno precedente, con 7,4 milioni di nuovi spostamenti interni nel 2022 rispetto ai 2,6 milioni del 2021, continua Save the Children. Questa cifra include il conteggio delle volte in cui le persone sono state sfollate – in alcuni casi più volte per un singolo individuo – anche se sono state in grado di tornare a casa entro la fine dell’anno. Si tratta del più alto numero annuale di nuovi spostamenti a causa di disastri climatici mai registrato nella regione, dovuto agli impatti di shock climatici consecutivi e all’esaurimento sia della resilienza del territorio che dei meccanismi di adattamento delle comunità.

    Gli appuntamenti

    L’Unicef chiama i giovani: la Giornata della Terra per un futuro migliore

    a cura di redazione Green&Blue

    18 Aprile 2023

    Questi dati, spiega l’organizzazione, mettono a nudo la cruda realtà che i diritti dei minori in tutta la regione vengono erosi a un ritmo allarmante dagli impatti della crisi climatica. Secondo l’organizzazione, con l’affermarsi del modello climatico che provoca eventi meteorologici ancora più estremi e fa aumentare ulteriormente le temperature globali, è probabile che quest’anno questa cifra sia destinata ad aumentare ulteriormente.

    Le storie raccontate dai bambini

    “Quel fatidico venerdì stavo tornando da scuola e continuavo a sentire dire che stava arrivando la pioggia. Ci hanno dato dei sacchi di sabbia da riempire e posizionare in angoli strategici. All’improvviso ho visto una grande ondata d’acqua che si dirigeva a forte velocità verso le nostre case, tutti erano in agitazione e mia madre ha detto che dovevamo impacchettare le nostre cose e iniziare a correre, ci abbiamo provato ma non siamo riusciti a fare abbastanza. Siamo corsi in una scuola vicino a casa e ci siamo rifugiati con altri membri della comunità colpiti dall’alluvione. Le nostre case erano sommerse”, racconta Falmata, 13 anni, che viene dallo Stato di Borno, nel nord-est della Nigeria, dove l’anno scorso le inondazioni hanno costretto oltre 30.000 persone ad abbandonare le loro case. “La vita è stata dura, ci siamo separati dai membri della famiglia e non abbiamo più avuto loro notizie. Abbiamo trovato una piccola stanza per ripararci, ma la struttura è pessima, perché è stata rovinata dalla pioggia, i soffitti perdono e alcune parti della stanza sono aperte. Quando vedo le nuvole, ho paura e mi torna in mente l’alluvione”.

    “L’esperienza di Falmata con le inondazioni dello scorso anno è purtroppo fin troppo comune”, ha dichiarato Vishna Shah, Direttore di Advocacy, Comunicazioni, Campagne e Media dell’Ufficio regionale di Save the Children per l’Africa occidentale e centrale.”In Nigeria e in tutta la regione, molti bambini sono, come Falmata, terrorizzati. Si aggrappano alla sopravvivenza passando da un evento meteorologico estremo all’altro, incerti se le piogge fuori stagione siano una benedizione per i raccolti in crisi o se spazzeranno via le loro case. Sono impaziente di vedere  come i leader dei Paesi daranno voce alle loro esperienze e alle loro preoccupazioni al vertice sul clima in Africa questa settimana. I bambini non hanno fatto nulla per causare questa crisi – e hanno bisogno che la Comunità internazionale mantenga gli impegni finanziari climatici, comprese le risorse per misure di adattamento e per far fronte a perdite e danni, e si impegni perché questi tengano conto delle esigenze specifiche dei minori.”Perdere la casa per loro significa perdere quasi tutto: l’accesso all’assistenza sanitaria, all’istruzione, al cibo e alla sicurezza. Perdono anche gli elementi fondamentali per la stabilità e il benessere mentale ed emotivo, come il senso di routine, gli amici e il diritto al gioco”, ha dichiarato Kijala Shako, Responsabile di advocacy, comunicazione, campagne e media dell’Ufficio regionale di Save the Children per l’Africa orientale e meridionale”.I dati diffusi sono sufficienti a far breccia in chiunque e auspichiamo che i leader che parteciperanno all’Africa Climate Week prendano consapevolezza di quello che i bambini hanno dovuto vivere in tutta la regione, riconoscano che la crisi climatica sta avendo un impatto disastroso sulle loro vite”. LEGGI TUTTO

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    Ghiacciaio del Miage, dal 2008 persi oltre 100 miliardi di litri di acqua

    Si è appena conclusa la seconda parte della spedizione di Greenpeace Italia e del Comitato Glaciologico Italiano (CGI) su due dei più estesi ghiacciai italiani, per monitorare lo stato di conservazione di questi giganti di ghiaccio, minacciati dall’aumento delle temperature globali.La seconda tappa si è svolta dal 31 agosto al 2 settembre sul ghiacciaio del Miage, che si trova nel versante italiano del massiccio del Monte Bianco, in Valle d’Aosta, al termine di un’estate segnata da ondate di calore eccezionali e temperature record, al punto che luglio che è stato il mese più caldo mai registrato a livello globale. Il Miage è il più grande “ghiacciaio nero” (ovvero ricoperto da detriti) delle Alpi, e uno dei tre ghiacciai italiani con una superficie superiore a 10 km quadrati. La spedizione aveva l’obiettivo di misurare la fusione annuale del ghiacciaio.

    Crisi climatica

    Il ghiacciaio della Marmolada dimezzato in 25 anni

    a cura di redazione Green&Blue

    30 Agosto 2023

    “Le misure effettuate fino ad oggi ci dicono che negli ultimi 14 anni il ghiacciaio del Miage ha perso complessivamente oltre 23 metri di spessore a causa della crisi climatica. Purtroppo, temiamo che il monitoraggio di quest’ultima spedizione ci restituirà una fotografia ancora peggiore. Se la situazione non cambierà, qui come nel resto dei ghiacciai alpini, perderemo grandi masse di ghiaccio e preziose risorse idriche. Ciò significa che avremo a disposizione sempre meno acqua dolce durante le estati secche e calde dei prossimi anni”, racconta Walter Alberto, operatore glaciologico per il ghiacciaio del Miage e membro del CGI.Dal 2008 al 2022 il ghiacciaio del Miage ha perso 100 miliardi di litri d’acqua. Per avere un’idea, si tratta di un quantitativo di poco inferiore all’acqua potabile erogata ogni anno all’intera città di Milano. Rispetto alla perdita di superficie, il ritiro dei ghiacciai sul massiccio del Monte Bianco è visibile a colpo d’occhio: basti pensare, ad esempio, che nei primi anni Duemila le fronti dei ghiacciai si trovavano circa 500 metri più a valle.

    Carovana dei Ghiacciai 2023

    I ghiacciai che soffrono ci mostrano come il clima sta cambiando in quota

    di Vanda Bonardo*

    30 Agosto 2023

    “I ghiacciai italiani che si fondono sempre più rapidamente sono l’ennesimo sintomo di un’emergenza climatica senza precedenti, accelerata dalla nostra dipendenza dai combustibili fossili. Dobbiamo smettere al più presto di estrarre e bruciare petrolio, gas e carbone e promuovere le fonti rinnovabili, se non vogliamo assistere a stravolgimenti senza precedenti”, dichiara Elisa Murgese, Investigations Officer di Greenpeace Italia, presente alla spedizione. “Per limitare inoltre la perdita delle nostre riserve d’acqua è urgente ridurre le emissioni di gas serra e proteggere gli ecosistemi chiave per il ciclo dell’acqua come i ghiacciai riducendo gli sprechi di risorse idriche, a partire dai settori a più alto consumo, come l’agricoltura intensiva praticata nel distretto del Po, legata in particolare alle coltivazioni mangimistiche”.Luigi Perotti, segretario generale del CGI, aggiunge: “La riduzione della disponibilità idrica dei serbatoi glaciali obbligherà il sistema agricolo a cambiare le abitudini, i tempi e le quantità di acqua usata nell’irrigazione, in particolare per i sistemi agricoli della Pianura Padana, come le risaie e le coltivazioni di mais. Inoltre, una seconda conseguenza della fusione dei ghiacciai è legata alla sicurezza: infatti, l’acqua di fusione dei ghiacciai può raccogliersi in laghi, che a loro volta possono tracimare in maniera improvvisa e pericolosa nella zona sottostante. In generale, le aree lasciate libere dai ghiacci possono diventare a rischio e, come dimostrano anche alcuni tragici eventi di cronaca, rendere la montagna un territorio non più per tutti”.La prima tappa della spedizione di Greenpeace Italia e del CGI si è svolta dal 21 al 24 agosto al ghiacciaio dei Forni, in Alta Valtellina, nel Parco Nazionale dello Stelvio, durante l’eccezionale ondata di calore che in quegli stessi giorni aveva sconvolto le alte quote di tutta Italia. LEGGI TUTTO

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    Mare sempre più violato, 19.530 reati ambientali nel 2022

    Cemento illegale, inquinamento e maladepurazione, pesca di frodo mettono sotto scacco il mare italiano e le aree costiere. Sono 19.530 reati ambientali accertati nel 2022 lungo le coste italiane, il 3,2% in più rispetto al 2021, mentre gli illeciti amministrativi, 44.444, sono cresciuti del 13,1%. Il nuovo report Mare Monstrum 2023 di Legambiente indica che oltre un milione di controlli delle Capitanerie di porto e delle forze dell’ordine hanno accertato, tra reati e illeciti amministrativi, 8,7 infrazioni per ogni km di costa (erano state 7,5 nel 2021), una ogni 115 metri.Nel rapporto, presentato alla vigilia dell’anniversario dell’uccisione del sindaco pescatore Angelo Vassallo, per tenere viva la memoria del suo impegno contro speculazioni e illegalità, si legge inoltre che il 48,7% dei reati si registra nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, con la Campania che guida la classifica nazionale con 3.345 reati (il 17,1% del totale nazionale), seguita da Puglia, Sicilia, Lazio e Calabria. Basilicata è, invece, in testa per numero di infrazioni per km di costa (32,7 per ogni km) seguita dall’Emilia Romagna, dal Molise, dall’Abruzzo e dal Veneto. LEGGI TUTTO

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    Nel 2022 riciclato il 71,5% dei rifiuti di imballaggio

    Nel 2022 il 71,5% dei rifiuti di imballaggio in Italia è stato riciclato. Su 14 milioni e mezzo di tonnellate di imballaggi immessi al consumo, 10 milioni e 400mila hanno trovato una seconda vita. A renderlo noto è CONAI con la sua nuova Relazione Generale consuntiva che, da quest’anno, adotta in anticipo la nuova metodologia di calcolo prevista dalla Decisione 2019/655 dell’Unione Europea: un metodo più restrittivo che sposta a valle il punto di misurazione dei quantitativi riciclati, eliminando dal conteggio alcuni scarti industriali legati al trattamento delle plastiche.

    Economia circolare

    Il pregiudizio del riciclo può anche far danni

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    15 Agosto 2023

    L’Italia, così, ha già raggiunto gli obiettivi di riciclo complessivi che l’Europa chiede ai suoi Stati entro il 2025, quando ogni Paese dovrà riciclare almeno il 65% degli imballaggi ogni anno, ed entro il 2030, quando l’asticella si alzerà al 70%. Lo ha confermato anche la Commissione Europea che, nella relazione di segnalazione preventiva sull’attuazione delle Direttive sui rifiuti, inserisce il nostro Paese fra i nove non a rischio per il raggiungimento degli obiettivi di riciclo.”L’attenzione al design sostenibile degli imballaggi, alla raccolta sempre più di qualità, al riciclo ed alla prevenzione sono al centro delle azioni del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, anche grazie ai fondi messi a disposizione dal PNRR” afferma il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin. “I risultati del CONAI sono frutto di un’eccellenza italiana in Europa e nel mondo che è uno stimolo anche per questo governo a guardare avanti con determinazione verso un’economia circolare intelligente e sostenibile: un importante elemento di competitività del sistema imprese del nostro Paese su scala nazionale ed internazionale”.

    Ambiente

    Gli italiani rinuncerebbero volentieri alla plastica per frutta e verdura

    a cura di redazione Green&Blue

    28 Agosto 2023

    Nel dettaglio, hanno trovato una seconda vita 418mila tonnellate di acciaio, 60mila di alluminio, 4 milioni e 311mila di carta, 2 milioni e 147mila di legno, un milione e 122mila di plastica e bioplastica, 2 milioni e 293mila di vetro.Sommando ai numeri del riciclo quelli del recupero energetico, il totale di imballaggi recuperati sale a 11 milioni e 700mila tonnellate, pari all’80,5% dell’immesso al consumo.”Un risultato che dimostra come l’industria del riciclo italiana funzioni e si imponga per efficacia ed efficienza” commenta il Presidente CONAI Ignazio Capuano. “Il nostro modello continua a fare scuola in Europa: è ormai appurato che l’Italia è uno degli Stati in cui si ricicla di più e a costi inferiori, con un altissimo livello di trasparenza. I numeri del 2022 lo confermano, nonostante un nuovo procedimento di calcolo più severo. Le quantità di materia riciclata e quelle di immesso al consumo si mantengono sostanzialmente stabili rispetto al 2021. Lo scorso anno, infatti, abbiamo avuto un primo semestre caratterizzato da una forte accelerazione dell’immesso e delle attività di riciclo, e un secondo semestre in frenata, soprattutto a causa della contrazione della produzione industriale nelle principali economie”.I quasi 10 milioni e mezzo di tonnellate di imballaggi effettivamente riciclati sono un risultato raggiunto per il 47% grazie al lavoro dei Consorzi di filiera del sistema CONAI, per il 51% grazie agli operatori indipendenti e per il restante 2% grazie all’operato dei sistemi autonomi.L’intervento del sistema si è ridotto di circa un punto percentuale rispetto allo scorso anno, com’è normale in momenti favorevoli per il mercato: il Consorzio interviene infatti in modo sussidiario al mercato, quando riciclare i materiali di imballaggio non risulta economicamente conveniente, garantendo la libera concorrenza sul mercato delle materie prime seconde.Un quadro in cui gioca un ruolo importante il lavoro svolto con i Comuni, attraverso l’Accordo Nazionale con ANCI 2020/2024. Nel 2022 sono stati 7.655 i Comuni italiani che hanno stipulato convenzioni con il sistema consortile, affidandogli tutti o parte degli imballaggi provenienti dalle raccolte differenziate. Una copertura della popolazione italiana che raggiunge così il 99%.Per coprire i costi che i Comuni sostengono nel ritirare i rifiuti di imballaggio in modo differenziato, nel 2022 CONAI ha riconosciuto alle amministrazioni locali italiane 688 milioni di euro. Sono 440 i milioni, invece, destinati dal sistema alla copertura dei costi per attività di trattamento, riciclo e recupero.Anche nel 2022 CONAI ha posto particolare attenzione alle aree del Mezzogiorno in cui la raccolta differenziata dei rifiuti di imballaggio è più lenta e fatica a raggiungere standard quali-quantitativi. Gli interventi del Consorzio in queste zone, grazie agli strumenti dell’Accordo Quadro ANCI-CONAI, vogliono accelerare il raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata, colmando il divario tra le Regioni più virtuose rispetto a quelle più in ritardo.Nel biennio 2021/2022 i progetti territoriali per lo sviluppo di una raccolta differenziata di qualità nel Centro-Sud hanno coinvolto 18 milioni e 700mila abitanti, di cui 4 milioni e 900mila in Campania e 4 milioni e 800mila in Sicilia. LEGGI TUTTO

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    Il fascino secolare dell’olmo campestre

    Molto diffuso in Europa, Asia e Africa, l’olmo campestre (Ulmus minor) è un albero della famiglia delle Ulmaceae. Il suo ambiente naturale sono i boschi e i terreni incolti. È un albero di grandi dimensioni dall’aspetto maestoso e solenne.L’olmo vanta una significativa longevità, può arrivare infatti fino a 500 anni, anche se in questi ultimi decenni molti esemplari soprattutto i più vecchi versano in decadimento a causa dell’azione di un fungo chiamato Grafiosi che infetta proprio la specie campestre. L’olmo campestre resiste bene sia al freddo che alla siccità, in Italia sono diffuse soprattutte le specie campestre e montano.L’olmo campestre è una albero che può raggiungere altezze importanti, parliamo di venti o trenta metri, il suo tronco è liscio in giovane età di color grigio scuro che però tende a squamare col passare degli anni. Le foglie sono decidue, alternate, inoltre sono dentate, lunghe 5 centimetri e larghe 3. Nella parte superiore sono lucide e ruvide mentre nella parte inferiore presentano una leggera peluria; il tipico verde brillante delle foglie dell’olmo, lascia il posto al giallo nel periodo autunnale prima di staccarsi dalla pianta. I fiori dell’olmo sono molto piccoli privi di picciolo e riuniti in fascetti sui rami spogli, sono di un bel colore rosso vivo.  

    Cosa simboleggia

    L’olmo campestre sin dai tempi antichi ha sempre rappresentato il bene inteso come bene fraterno, amicizia, sostegno, amore coniugale. Questo significato gli fu attribuito soprattutto per il suo uso, infatti i coltivatori la utilizzavano a supporto degli alberi di ulivo, poiché essa non assorbiva dal terreno quelle sostanze nutritive necessarie al sostentamento delle piante da uva. In assoluto a questa pianta sono state sempre associate figure sacrali come ad esempio per i sacerdoti druidi la pianta dell’olmo simboleggiava la Dea ovvero la femminilità sacra.La corteccia massiccia e fitta dell’olmo campestre, poiché resistente all’acqua, veniva in passato utilizzata per la fabbricazione di barche e ponteggi sul mare, ma anche di mobili, porte, pavimenti, suppellettili. Oggi la drastica diminuzione degli alberi di olmo a causa di una malattia fungina ha di fatto bloccato il loro utilizzo a scopo di arredo.

    Il frutto dell’olmo si chiama Sàmara, è un frutto indeiscente ovvero che non si apre al momento della maturazione, ben protetto nel suo insieme da una membrana che appare come due sottili ali ai margini. Essi maturano nel periodo compreso tra luglio e agosto. I fiori dei frutti crescono verso fine inverno e anticipano la crescita delle foglie. Questa particolarità consente ai semi di estendersi in aree nuove, facilitando la riproduzione e la propagazione degli olmi. Le samaras degli olmi possono cambiare di dimensione e forma a seconda della varietà, ma rimangono una caratteristica comune di questa specie. I frutti dell’olmo campestre possono essere aggiunti ad insalate arricchendole così oltre che di un aspetto esotico, anche di un sapore molto particolare.

    La crescita dell’olmo campestre può andare, a seconda della varietà, da un range minimo di 20 a un massimo di 40 metri nell’arco della sua lunga esistenza. Le varietà di olmo esistenti sono dodici, oltre al campestre e al montano abbiamo l’Olmo Americano, il Camperdown, l’Olmo Siberiano, l’Olmo sdrucciolevole, l’Olmo Cinese, l’Olmo David, l’Olmo Europeo Bianco, Olmo Cedro e l’Olmo corteccia di ciliegia.   

    Come piantare l’olmo

    L’olmo può essere piantato per seme, per innesto o per talea. É una pianta che predilige terreni ricchi di sostanze organiche e ben drenati. Anche la posizione gioca un ruolo fondamentale nella coltivazione dell’olmo che necessita di una esposizione diretta al sole. Nonostate ciò sopporta bene anche climi abbastanza rigidi. È una pianta che ha un alto grado di adattabilità sia a crescere in solitaria che in boschi o in viali circondato da altri esemplari. Il periodo migliore per la semina è l’inizio della primavera.Per la coltivazione con seme, vanno prelevati i semi freschi appena raccolti e posti in un vaso con misto di terriccio, sabbia e ghiaia. Mantenendo sempre umido il substrato dopo un paio di settimane appariranno i primi germogli che andranno trapiantati in vasi più grandi nei quali resteranno per un paio di anni. A seguito di questo tempo si procederà con la messa a dimora direttamente in giardino.Per la coltivazione con innesto, è necessario estrarre una parte di radici o polloni alla base di una pianta adulta, e coltivarli  in vaso almeno per un paio di anni prima di metterli a dimora, in autunno.Per la coltivazione a talea basterà prelevare talee lunghe una ventina di centimetri e radicarle in un misto di torba e sabbia in parti uguali mantenendo sempre umido il terreno fino alla comparsa di nuove foglie che segnaleranno l’avvenuta radicazione. Le talee radicate vanno trasferite poi in vasi singoli e dopo due anni potranno essere impiantate a dimora permanente.

    Potatura e cura

    Come abbiamo detto fin’ora l’olmo campestre non richiede particolari cure per la sua crescita, anche la potatura è semplice da eseguire poiché basta tagliare i rami più secchi e lunghi, quelli danneggiati dal freddo o dai parassiti. Inoltre vanno asportati i polloni basali che se da una parte potrebbero essere utili per la riproduzione della pianta, dall’altra tolgono nutrimento fondamentale per la sua crescita in salute. LEGGI TUTTO

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    Come catturare acqua dall’aria: il sistema sperimentato nella Death Valley

    L’acqua non è di certo tra le prime cose che vengono in mente quando si parla della Death Valley. Eppure, anche nel deserto californiano si nasconde un po’ di acqua, anche se trovarla, o meglio catturarla, non è così semplice. C’è però riuscito un team di ricercatori coreani e americani che ha ideato un sistema per catturarla dall’aria, anche in condizioni apparentemente sfavorevoli come quella della Death Valley, in maniera pulita, grazie alla luce solare. Dimostrando così che la tecnologia per estrarre acqua sicura, in modo sostenibile, passo dopo passo cresce. LEGGI TUTTO