22 Maggio 2023

Daily Archives

consigliato per te

  • in

    Traporti: la transizione green passa per la digitalizzazione dei servizi

    La transizione ecologica e quella digitale viaggiano nella medesima direzione, con frequenti occasioni di incontro. Perché l’innovazione offre strumenti inediti per affrontare una questione epocale come la decarbonizzazione dell’economia. Indicazioni in tal senso arrivano ad esempio dal settore dei trasporti, tra quelli maggiormente nel mirino per le emissioni inquinanti nell’ambiente.

    Lo studio europeo sulle traiettorie di settore

    Uno studio realizzato dall’Agenzia europea dell’ambiente sottolinea che le tecnologie digitali consentono di mitigare gli impatti della mobilità: inquinamento atmosferico, rumore, incidenti e tempo sprecato nelle congestioni, consumo di suolo e aumento delle emissioni di gas a effetto serra. Questo in teoria, dato che nella pratica non sempre le soluzioni digitali sono implementate con criterio e il risultato è che buona parte del potenziale resta inespresso. Senza un cambio di rotta, avverte l’organismo comunitario, il Green Deal europeo rischia di mancare gli obiettivi di decarbonizzazione (-90% al 2050) legati al segmento dei trasporti.

    A essere carenti nel Vecchio Continente non sono le tecnologie, bensì le competenze per utilizzarle al meglio e la capacità di mettere a sistema tutte le soluzioni disponibili, in modo da generare un risultato che sia superiore alla somma delle varie componenti. Una mobilità integrata grazie alla digitalizzazione, ricorda il report, può migliorare la sicurezza e l’accessibilità del trasporto passeggeri e potrebbe essere utilizzata per sostenere il passaggio alla mobilità collettiva e condivisa.  

    Le soluzioni che hanno cambiato volto alle città

    Cambiare rotta è necessario, dato che i livelli di congestione nei centri urbani continuano a crescere. Secondo diverse stime, entro il 2050 quasi il 70% della popolazione mondiale vivrà in una grande città rispetto al 55% nel 2018 e al 60% entro il 2031. Il trend dell’urbanizzazione non avrà solo un impatto sull’inquinamento, ma anche sulla vivibilità stessa delle grandi città, nelle quali la capacità delle reti stradali è per lo più satura. 

    I sistemi di trasporto intelligenti (Its) possono fornire risposte importanti in varie direzioni: controllo degli accessi alle Ztl e delle aree urbane a bassa emissione; controllo in tempo reale delle condizioni del traffico e del livello di inquinamento, attuali e a tendere; gestione e controllo predittivo del traffico; sicurezza alla guida, attraverso tecnologie che consentono alle infrastrutture di trasporto di dialogare direttamente con i veicoli, fornendo informazioni e suggerimenti.

    L’esperienza di Yunex Traffic a Londra

    Un esempio in tal senso arriva da Yunex Traffic, acquisita da Mundys nel corso del 2022, le cui infrastrutture e piattaforme di intelligenza artificiale per la gestione dei flussi di traffico e della mobilità urbana sono utilizzate in oltre 600 città (tra cui Londra, Singapore, Miami, Bogotà). Nella capitale inglese gestisce i sistemi di accesso alla Ultra Low Emission Zone e, tramite il suo sistema di smart traffic, ha avviato delle sperimentazioni per gestire tramite intelligenza i semafori di undici aree cittadine, conseguendo una prima riduzione di oltre il 20% delle emissioni da auto (con punte fino al 60%).

    Alla luce di questa esperienza, Transport for London, il principale ente gestore della mobilità londinese, ha assegnato a Yunex Traffic un nuovo contratto da 200 milioni di sterline per l’installazione e la manutenzione dei semafori a intelligenza artificiale in 21 dei 32 distretti di Londra e nella City of London (inclusa l’area di Westminster). Così, a partire da agosto e per la durata di dieci anni, la società gestità le infrastrutture per la regolazione del traffico, creando le condizioni per il raggiungimento degli obiettivi di “Vision Zero for London”, il progetto sulla sostenibilità del sistema trasportistico di Londra, che prevede il sostanziale azzeramento – entro il 2041 – di incidenti gravi nelle strade della città, nonché il raggiungimento dell’80% degli spostamenti cittadini a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici LEGGI TUTTO

  • in

    Smart City? Le priorità degli abitanti

    Di smart city si parla da anni con differenti declinazioni. Tra i filoni più gettonati degli ultimi tempi c’è quello relativo al coinvolgimento dei cittadini, nella consapevolezza che la partita non si gioca tanto sulle tecnologie – ormai ampiamente disponibili, e nella maggior parte dei casi a prezzi accessibili – quanto sull’adozione su vasta scala degli strumenti a disposizione.

    Lo studio del Polimi

    “Il punto di vista dei comuni e dei cittadini italiani” è il titolo dell’ultimo report messo a punto dall’Osservatorio Smart City curato dal Politecnico di Milano. Dallo studio emerge che le iniziative in direzione delle città intelligenti stanno crescendo nella Penisola e le città che hanno sperimentato su tanti ambiti applicativi, grazie ai benefici ottenuti, vogliono continuare a investire. Tuttavia spesso i comuni si focalizzano sull’implementazione di soluzioni adeguate a singoli scopi – come ad esempio l’efficienza energetica dell’illuminazione pubblica – piuttosto che approfondire servizi che abilitino benefici trasversali e che siano integrabili in un vero e proprio ecosistema intelligente.

    Dall’indagine emerge che, con l’aumentare delle progettualità, anche i cittadini iniziano a conoscere il tema. Nonostante sia ancora percepito come un concetto futuristico e legato principalmente a tecnologie avanzate e innovazione, chi abita la città ha esigenze chiare e vede i progetti intelligenti come soluzione alle problematiche più sentite e come strumento per ridurre i consumi e gli sprechi.

    Tra innovazione e inclusività

    I cittadini associano alla smart city in primo luogo il concetto di “città innovativa” (si è espresso così il 66% degli intervistati), in cui la tecnologia è diffusa e abilita l’offerta di servizi molto avanzati. Meno frequentemente, al termine vengono associati i temi della sostenibilità (59%) e dell’inclusività (58%), che vanno comunque a completare il significato dell’espressione.

    Tuttavia, proprio per l’accezione fortemente tecnologica e innovativa che i cittadini associano al termine Smart City, quest’ultima viene ancora vista come qualcosa di futuristico e distante. Così solo l’11% esprime un parere pienamente positivo su quanto implementato, mentre il 47% crede che la città in cui vive abbia adottato alcune tecnologie digitali, ma che si potrebbe fare molto di più.

    Le priorità? Parcheggio e viabilità

    Quanto alle priorità da seguire nella scelta delle iniziative da finanziare, i cittadini puntano su progetti smart che risolvano le problematiche più diffuse. In particolare, le persone intervistate lamentano soprattutto le difficoltà nel trovare parcheggio (54%), le cattive condizioni del manto stradale (53%), la criminalità e il vandalismo (39%), nonché l’eccessivo livello di traffico e il trasporto pubblico carente (entrambi al 37%).  Più indietro, invece, le comunità energetiche rinnovabili (30%), una soluzione dettata dall’esigenza di ridurre i consumi e l’impatto ambientale.

    Alcuni temi sono di minore interesse per i cittadini, nonostante la centralità del loro ruolo. Un esempio è il citizen engagement, avvertito come prioritario solo nel 19% dei casi: chi abita la città non ritiene ancora necessario, il proprio coinvolgimento nella definizione delle politiche urbane. “Tocca ai comuni fare un passo in avanti in questa direzione e sensibilizzare al tema”, sottolineano gli analisti. “Solo in questo modo le persone, ovvero i veri beneficiari dei servizi erogati, possono comprendere il valore generato, testare le soluzioni, dare suggerimenti puntuali sulla base dell’esperienza vissuta e avviare un circolo virtuoso di miglioramento dei servizi”. LEGGI TUTTO

  • in

    “Piante e animali sono la nostra vera ricchezza, salviamoli per salvare noi stessi”

    “Partiamo da un numero: 2,2 mila miliardi di dollari: è il costo degli investimenti globali in armi ed eserciti che sosteniamo ogni anno. Pensiamo a cosa potremmo fare con una simile quantità di denaro, se lo usassimo per il benessere umano e ambientale”. Parte da questa riflessione Jeffrey Sachs, economista americano e presidente del Sustainable […] LEGGI TUTTO

  • in

    ENEA: un “manifesto” per la Giornata mondiale della biodiversità

    Promuovere il dialogo attivo tra scienza, politica e società, sostenere lo sviluppo di servizi avanzati in chiave di sostenibilità e circolarità e favorire la “transizione agroecologica” attraverso la rivitalizzazione della Dieta mediterranea. Sono alcuni dei punti salienti del ‘manifesto’ presentato da ENEA in occasione dell’odierna Giornata mondiale della biodiversità, dedicata quest’anno al tema “Il nostro cibo, […] LEGGI TUTTO

  • in

    Cosa bisogna fare per ricostruire la biodiversità

    “Biodiversità” è una di quelle parole composite che sembrano spiegarsi da sole: “diversità della vita” intesa, per esempio, come numero di specie diverse in un determinato luogo. Questo aspetto della biodiversità è tuttavia solo quello più facile da cogliere, ma non è l’unico. Occorre fare uno sforzo e guardare oltre il semplice significato etimologico della parola. Infatti, il tema della giornata mondiale della biodiversità quest’anno riguarda l’andare oltre la tutela e impegnarsi a “ricostruire la biodiversità”. Cosa si intende e quali impegni richiede.

    I fenomeni naturali hanno una componente fisica preponderante, comune a tutto l’universo, e una componente biologica talmente rara da essere speciale, in quanto unica ed esclusiva di un solo pianeta (per quel che a oggi sappiamo). Ciò che più distingue la vita dalla componente fisica universale è che essa è “processo” più che “sostanza”. Anche quando prende concretamente forma, in una quercia o in un gatto, non è come quando prendono forma un sasso o una stella. Questo rende difficile descrivere e comprendere la vita in tutte le sue manifestazioni, inclusa la biodiversità. Di certo però sappiamo che senza l’evoluzione la vita sulla Terra non sarebbe così varia.

    A quanto pare è stato proprio un “problema di biodiversità” a fornire a Darwin la chiave per arrivare alla teoria evolutiva. Generazioni di studenti hanno appreso di questa rivelazione attraverso la storia iconografica dell’incontro tra Darwin e i fringuelli delle Galapagos. Al pari della mela di Newton, a questi pennuti e alla loro diversità viene attribuito il merito di aver fatto scattare in Darwin la scintilla che lo avrebbe portato a concepire la sua teoria. In realtà, Darwin non colse la biodiversità dei fringuelli delle Galapagos.

    Darwin era convinto che i fringuelli delle differenti isole fossero varietà di una stessa specie, le cui differenze (per esempio nella conformazione del becco) non erano più apprezzabili di quelle dei piccioni che egli stesso allevava. Quando John Gould, l’ornitologo al quale aveva spedito i campioni, gli riferì che ogni varietà di fringuello era in realtà una specie diversa, Darwin rimase folgorato. “L’eureka” di Darwin non scaturì da quanto i fringuelli si differenziassero (come di solito riportano i libri di testo), ma da quanto erano simili pur appartenendo a specie differenti. Darwin capì che il fatto che specie diverse di fringuelli erano così simili significava che era in atto la frammentazione di quella che prima era un’unica specie in tante specie nuove, ognuna “in via di trasformazione” per adattarsi alle risorse disponibili sulla propria isola. Era la prova che confutava la “fissità delle specie”, che all’epoca era la teoria dominante che escludeva l’evoluzione.

    Questa storia ci dice anche dell’altro: senza qualcosa che perturbi la loro continuità sul territorio e il loro equilibrio con l’ambiente, le specie tendono a rimanere invariate, o comunque a variare molto poco. La biodiversità, come l’evoluzione che la produce, è dunque una conseguenza del cambiamento geologico-ambientale. Se le isole avessero fornito tutte uno stesso ambiente ideale alla specie originaria, probabilmente Darwin avrebbe davvero campionato una sola specie di fringuello. Di fatto, però, Darwin aveva sottostimato la biodiversità alle Galapagos.

    In realtà sarebbe più corretto dire che Darwin aveva sottostimato la “biodiversità tassonomica” dei fringuelli. La biodiversità tassonomica (numero di specie, generi, famiglie, e così via) è quella che noi percepiamo meglio anche dal punto di vista pratico: è la “spia luminosa” del “problema biodiversità”. Ma è solo lo schema semplificato con cui parliamo di una vasta e intricata rete di interazioni tra organismi viventi e contesto fisico: come la vita da cui prende forma, la biodiversità è “processo” (interazione), più che “sostanza” (quantità tassonomica).

    La rete di interazioni da cui emerge la biodiversità di oggi è solo l’ultima di un’infinità di trame tessute nel corso delle ere geologiche; una sorta di tela di Penelope che va avanti da miliardi di anni e alla quale l’evoluzione non dà pace, disfacendola e ritessendola ogni volta con un nuovo ricamo; ogni volta una nuova rete di interazioni dove ogni specie è un “nodo” parimenti essenziale all’integrità della maglia ecosistemica e dei suoi equilibri.

    La biodiversità si presenta come “problema” quando, per qualche motivo, si verifica una rapida perdita o un eccessivo indebolimento dei nodi. Ora, se ci limitiamo a considerare la biodiversità semplicemente come numero di specie, potremmo avere l’impressione che ogni volta che si rompe o si allenta un nodo basta farne un altro qua e là per mantenere la robustezza della rete e “ricostruire la biodiversità”.

    Negli anni Novanta mi sono imbattuto in un libro dal titolo curioso: Lo strano caso del Lago Vittoria. Storia naturale di un microcosmo in bilico, di Tijs Goldschmidt. La presentazione sul retro mi aveva colpito perché descriveva una storia che mi sembrava in contrasto con quella dei fringuelli di Darwin: nel Lago Vittoria, in Africa, da un unico antenato si erano evolute, in pochi millenni, centinaia di specie differenti di pesciolini. Tutta questa evoluzione era avvenuta in un ambiente relativamente uniforme, di certo non discontinuo come quello tra un’isola e l’altra di un arcipelago, ognuna in grado di frammentare, con la sua specificità ecologica, la continuità di una specie e di generarne di nuove da ogni frammento.

    Il focus del libro di Goldschmidt non era però sull’evoluzione ma sul suo punto cieco: l’estinzione. I furu, come vengono chiamati (in lingua swahili) i pesci della famiglia dei ciclidi del Lago Vittoria, stavano passando da una frenetica “radiazione evolutiva” a una repentina estinzione in massa. Si stima che nel Lago Vittoria vivessero fino a 500 specie di ciclidi alla metà del secolo scorso. Una gran bella biodiversità. Poi fu deciso di introdurre un ospite, la Perca del Nilo, molto più redditizia per il mercato della pesca seppur in grado non solo di competere con i ciclidi ma anche di predarli. Già negli anni Ottanta erano sparite tra il 60 e il 70% delle specie. Ecco un “problema biodiversità”: cosa si può fare per salvare le specie di furu rimasta? Possiamo ricostruire la ricchezza di biodiversità che c’era prima?

    Ed ecco il punto: se vediamo il “problema biodiversità” limitatamente al livello in cui si manifesta, ovvero come scomparsa di specie, siamo portati a cercare una soluzione concentrandoci solo su quel livello. Perciò ci attiviamo per recintare, proteggere, ripristinare la biodiversità. In questo impeto protettivo ci dimentichiamo però della biodiversità come rete, e del fatto che la nostra protezione e i nostri tentativi di ricostruzione possono rivelarsi inutili, se non impattanti quanto le nostre azioni all’origine del problema. Questa visione più complessa della biodiversità ci spaventa perché ci fa sentire impotenti. Ci fa capire che forse i nostri mezzi potrebbero non bastare, che non sarà piantando alberi su un lato di una foresta che potremo compensare lo squilibrio causato dal disboscamento sul lato opposto. Anzi, così facendo probabilmente avremo solo innescato un altro disequilibrio. Ciò non significa, però, che allora tanto vale restare con le mani in mano; significa che è necessario puntare maggiormente su approcci preventivi basati sul rispetto della biodiversità, in quanto fenomeno meraviglioso, che possiamo proteggere ma non possiamo ripristinare a posteriori.

    Prima che sull’ambiente dobbiamo intervenire su noi stessi. Non bastano gli investimenti economici e gli interventi mirati (che pure sono indispensabili); serve soprattutto un profondo cambiamento culturale. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che abbiamo trasformato il pianeta in un lago tutto per noi, e che siamo molto più numerosi e voraci della Perca del Nilo. Se non ci siamo ancora arrivati allora è questa la consapevolezza alla quale dovremmo puntare, nella giornata mondiale della biodiversità e in quelle successive.

    *Domenico Ridente è ricercatore dell’Igag (Istituto di geologia ambientale e geingegneria) del Cnr LEGGI TUTTO

  • in

    Se le persone non conoscono il significato della parola ‘biodiversità’

    “La prova è inequivocabile: la biodiversità, importante di per sé ed essenziale per le generazioni attuali e future, viene distrutta dalle attività umane a un ritmo senza precedenti nella storia”. Con queste parole Sir Robert Watson, presidente dell’IPBES, la piattaforma intergovernativa dell’ONU sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, commentava nel 2019 i risultati appena pubblicati nel Global Assessment, che riunisce i contributi di oltre 1.000 scienziati da tutto il mondo.

    Per quanto autorevole, l’allarme lanciato dall’IPBES non era che l’ultimo dei tanti che si erano susseguiti a partire dal 1986, l’anno di “nascita” della parola “biodiversità”, pronunciata per la prima volta a Washington in occasione di un convegno organizzato dalla National Accademy of Sciences e dallo Smithsonian Institute. A raccontarcelo è il grande naturalista americano E.O. Wilson, scomparso nel 2021, che quella parola tenne a battesimo, proprio raccogliendo gli interventi del convegno in un volume uscito nel 1988 e intitolato BioDiversity, divenuto negli anni un vero best seller.

    Ma cos’è la biodiversità? Bella domanda. Se si cerca una definizione si rischia di perdersi. È un concetto multiforme che non si presta ad essere formulato in modo univoco, come dimostrano le numerose definizioni utilizzate dallo stesso Wilson nel corso degli anni. Sulla sostanza però gli scienziati concordano: la biodiversità è la varietà della vita sulla Terra, costituita dalle piante, dagli animali, dai microrganismi, dalle informazioni genetiche che contengono, dagli ecosistemi che formano e dalle relazioni che tra tutti questi elementi intercorrono.

    Il termine “biodiversità” dovrà aspettare la storica prima conferenza mondiale dell’ONU sull’ambiente, l’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, per acquisire una risonanza mondiale. A Rio 150 stati firmano la Convenzione sulla diversità biologica (oggi sono 196) e riconoscono la biodiversità come bene globale di enorme valore per le generazioni presenti e future. Da quel momento il termine “biodiversità”, nonostante nel testo del trattato venga utilizzato solo nella sua forma estesa (diversità biologica), acquisisce anche una rilevanza politica e istituzionale che, nel nostro Paese, arriva all’apice nel 2022, con il suo ingresso nella Carta costituzionale. Con la modifica dell’articolo 9, la tutela della biodiversità (“anche nell’interesse delle future generazioni”) va ad aggiungersi a quella di “ambiente” ed “ecosistemi”, introdotta con la Riforma del Titolo V nel 2001, tra i principi fondamentali della Costituzione. 

    In quasi 40 anni di vita la parola “biodiversità” è diventata di uso comune in tutto il mondo, non solo in ambito scientifico. In alcuni casi ci è scappata un po’ la mano e tutto è diventato biodiverso: biodiversità alimentare, biodiversità umana, biodiversità culturale, perfino biodiversità linguistica. La biodiversità è entrata nelle nostre vite, nel nostro lessico prendendo il posto, sempre più spesso, di quella che una volta chiamavamo “natura”. Eppure, moltissime persone non sanno nemmeno cosa significhi.

    I dati pubblicati nel 2019 dall’Eurobarometro, lo strumento attraverso il quale la Commissione europea indaga l’opinione dei cittadini dell’UE, sono preoccupanti: la maggioranza degli europei non ha mai sentito la parola “biodiversità” (41%) o non ne conosce il significato (30%). In Italia le cose vanno anche peggio perché la percentuale complessiva sale al 76%. Ma la carenza conoscitiva sembra essere un problema globale, come conferma uno studio australiano del 2019 coordinato dall’ecologo Michael A. Weston della Deakin University di Melbourne, nel quale circa il 50% degli intervistati ha risposto alla domanda “cosa significa per te il termine ‘biodiversità?” ammettendo di non conoscere il significato del termine, oppure fornendo una risposta che aveva poco a che fare con la definizione di biodiversità; un altro 18% ha invece risposto in modo vago, citando piante o animali o descrivendo concetti come armonia ed equilibrio.

    Se la maggior parte del grande pubblico non conosce il significato del termine biodiversità, una fetta non trascurabile del mondo scientifico sembra farne un uso discutibile. Uno studio da poco pubblicato sulla rivista Current Biology, infatti, ha rilevato la tendenza ad un utilizzo inappropriato del termine “biodiversità” nella letteratura scientifica. Con una logica simile al clickbaiting, oltre un quinto degli articoli scientifici analizzati, pur contenendo la parola “biodiversità” nel titolo, non la tratta o la tratta in modo molto parziale nel testo; così facendo si sfrutta l’appeal del termine per guadagnare visibilità e citazioni. Un utilizzo improprio che, a detta degli stessi autori, può rivelarsi rischioso in quanto catalizza l’attenzione sulle cose più vendibili e introduce una distorsione che può influenzare in modo errato le politiche di conservazione della biodiversità e l’utilizzo delle esigue risorse disponibili.

    Se il termine “biodiversità” stenta ad affermarsi tra il grande pubblico lo si deve anche al fatto che il suo significato non è affatto facile da comprendere. Se ne è accorta la testata inglese The Guardian che nel 2019 l’ha inserito nella sua Guida di stile tra i termini che sarebbe meglio evitare nel linguaggio corrente perché ritenuto poco comprensibile per il grande pubblico. È un concetto dinamico, complesso, che richiama scale spaziali e dimensionali diverse e richiede uno sforzo di astrazione per mettere in relazione i diversi elementi che lo compongono. E non si scappa: la complessità richiede riflessione, la riflessione richiede tempo e il tempo non c’è in questa società sempre meno abituata al pensiero profondo, tiranneggiata dalla semplificazione e dalla banalizzazione dei contenuti per renderli adatti alla fruizione veloce.

    E anche gli sforzi di chi in questi anni si è adoperato per divulgare il significato e il valore della biodiversità, servendosi di una terminologia semplice ma corretta, sfruttando la potenza della narrazione e cercando di stimolare perfino l’utilitarismo dell’essere umano spiegando quello che “la biodiversità fa per noi”, evidentemente non hanno dato i risultati sperati. Almeno fino ad ora e sicuramente con le persone adulte.

    Come si fa a comprendere l’urgenza degli allarmi lanciati dalla comunità scientifica se non si conosce il significato e il valore della biodiversità? Semplice: non si può. Il fatto che così poche persone si rendano conto di ciò che si sta perdendo riduce la speranza di riuscire ad invertire la tendenza, tanto da essere considerato da alcuni uno dei fattori che contribuiscono alla crisi di estinzione della biodiversità. Non è un caso che il testo dello storico accordo raggiunto alla recente COP15 di Montreal si chiuda con un’intera sezione dedicata alla necessità di “migliorare la comunicazione, l’educazione e la consapevolezza sulla biodiversità” come premessa irrinunciabile per ottenere il cambiamento dei comportamenti, promuovere stili di vita sostenibili e arrestare la perdita di biodiversità.  

    Vietato alzare bandiera bianca, quindi. Lo aveva capito anche E.O. Wilson che nel suo The Diversity of Life del 1992 a tal riguardo citava le parole pronunciate nel 1968 da Baba Dioum, ingegnere forestale senegalese, di fronte all’assemblea generale dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura: “alla lunga, conserveremo solo ciò che amiamo, ameremo solo ciò che comprendiamo e comprenderemo solo ciò che ci insegnano”.

    *Andrea Monaco è uno zoologo ricercatore dell’Ispra LEGGI TUTTO

  • in

    Una giornata per la biodiversità al festival di Green&Blue

    Per una Terra che sia davvero per tutti, proteggere e incrementare la biodiversità è indispensabile. La giornata finale del Festival di Green&Blue, a Milano dal 6 all’8 giugno, si propone appunto di far riflettere su come raggiungere l’obiettivo fissato dall’UE di proteggere il 30% di biodiversità entro il 2030, con particolare attenzione alla salvaguardia degli oceani, di cui proprio quel giorno si celebra la Giornata mondiale.

    Gli incontri dell’8 giugno sul palco degli IBM Studios a Milano saranno un momento di confronto tra tutti gli attori impegnati in questi obiettivi e si apriranno con un intervento di Mario Tozzi, ricercatore e volto televisivo, che spiegherà perché il clima sta cambiando. Alla tavola rotonda dal titolo “Il capitale naturale da proteggere” parteciperanno l’economista Paolo Quattrone, autore di ricerche sull’importanza di riconoscere alla Natura un valore nelle valutazioni economiche, Il responsabile fauna selvatica dell’Ispra, Piero Genovesi, il presidente del Wwf, Luciano Di Tizio, Anna Pirani, capo dell’Unità tecnica dell’international Panel on Climate Change e Giorgia Gaibani, responsabile del Settore Natura 2000 e Difesa del territorio della Lipu.

    A seguire si parlerà di riforestazione, soprattutto in ambito urbano, con Serena Milano, coordinatrice dei progetti di Slow Food biodiversità, e Maria Chiara Pastore, direttrice scientifica del progetto “Forestami”. Sarà il direttore di Affari e Finanza di Repubblica, Walter Galbiati a dialogare con Andrea Illy, in un panel da titolo “La miscela della sostenibilità”, sulle politiche dell’azienda in uno dei settori più impattanti, quello della produzione di caffè.

    Nel pomeriggio, la sessione incentrata su acqua e oceani sarà aperta da Roberto Danovaro, uno dei maggiori esperti al mondo per la ricerca su mari, con un intervento su “Cosa fare dopo lo storico trattato delle Nazioni Unite sugli Oceani”. La presidente di Marevivo, Rosalba Giugni, e Giulia Visconti, direttrice dell’Area Marina Protetta “Capo Milazzo”  approfondiranno il tema della salvaguardia del mare. Il tema della gestione dell’acqua sarà affrontato da Alessandro Russo, CEO del Gruppo CAP, società che gestisce il servizio idrico integrato della città Metropolitana di Milano. La chiusura della giornata sarà affidata a ministro per la Protezione Civile e le Politiche del mare, Nello Musumeci. LEGGI TUTTO

  • in

    È una rana il primo anfibio impollinatore mai visto

    Chi ha detto che gli unici animali impollinatori sono quasi esclusivamente gli insetti? Già sapevamo che di questa famiglia fanno parte anche piccoli vertebrati come lucertole, uccelli, pipistrelli e altri mammiferi; uno studio appena pubblicato sulla rivista Food Webs, condotto da un’équipe i scienziati dello Amphibians Natural History Lab alla University of Campinas, in Brasile, ha appena allargato il novero a un altro animale, il cui nome scientifico è Xenohyla truncata. Si tratta di una piccola rana arancione che, a quanto pare, sembra essere ghiotta del nettare di una melastella (Chrysophyllum cainito) e che, dopo essersene cibata, trasporta il polline da un fiore all’altro. Si tratterebbe, insomma – il condizionale è ancora d’obbligo, e potrà diventare indicativo solo in capo a ulteriori osservazioni del comportamento dell’animale – della prima specie anfibia a essere identificata come impollinatrice.”È un comportamento del tutto nuovo”, ha spiegato Luís Felipe Toledo, uno degli autori dello studio, “nel senso che finora nessuno aveva mai visto X. truncata comportarsi in questo modo”. “Questa prima osservazione è eccitante e interessante”, gli ha fatto eco, parlando al New York Times, Ruth Cozien, esperta di interazioni tra animali e piante della University of KwaZulu-Natal, in Sudafrica, non coinvolta nello studio, “e sebbene siano necessarie ulteriori indagini, le prove finora raccolte sono incredibili ed estremamente preziose per comprendere quanto sia concreta questa possibilità”. La maggior parte delle rane è carnivora, e si nutre di piante solo accidentalmente, più che altro per aprirsi la strada quando va a caccia; ma in questo scenario X. truncata è sempre sembrata un’eccezione, perché diverse osservazioni, risalenti a una ventina di anni fa, avevano già suggerito che la specie mangia intenzionalmente e spesso frutti, foglie e fiori, disdegnando gli insetti.Questi primi indizi hanno trovato conforto nell’ultima scoperta di Toledo e colleghi, che battendo la zona delle foreste di Restinga, nel Brasile occidentale, si sono trovati di fronte a due rane X. truncata che hanno trascorso quasi un quarto d’ora leccando il nettare dall’interno dei fiori. Una delle rane è “riemersa” con il dorso coperto di polline, il che ha portato il gruppo di scienziati a ipotizzare “con alta probabilità” che la specie aiuti l’impollinazione degli alberi di C. cainito trasportando accidentalmente il polline da un fiore all’altro: sarebbe, per l’appunto, il primo anfibio noto ad avere un comportamento simile.Oltre a proseguire nelle osservazioni, resta ancora da indagare anche l’interazione tra il polline e il muco secreto dalla pelle della rana, per comprendere se il primo resti “fertile” durante il trasporto, nonché da capire perché proprio questa specie abbia sviluppato una predilezione (apparentemente) così spiccata per il nettare. Non sarà facile, anche perché sia X. truncata che C. cainito sono entrambe specie in via di estinzione. E forse è proprio per questo – almeno così ci piace pensare – che hanno deciso di aiutarsi in questo modo. LEGGI TUTTO