2 Maggio 2023

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    Più fiducia tra politica e scienza per combattere la crisi

    Per affrontare la crisi climatica serve un dialogo costante tra scienza e politica e la comunità scientifica italiana ribadisce di voler fare la sua parte. In un articolo pubblicato su Nature Italy, Antonello Pasini, dell’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del Cnr, ribadisce la necessità di migliorare la fiducia tra scienza del clima e politica e riferisce di come si stia tentanto di raggiungere questo obiettivo in Italia e all’estero.Pasini, nel vostro testo c’è anche una sorta di autocritica?”Sì, noi scienziati non nasciamo come comunicatori, non abbiamo spesso le competenze per adattare il nostro messaggio al pubblico con cui ora, sempre più spesso, dobbiamo interfacciarci. Negli anni le cose sono cambiate e migliorate molto, abbiamo visto anche come i testi dei rapporti dell’Ipcc si sono affinati per ottenere una maggiore divulgazione, ma ci rendiamo conto che non si può soltanto dare la colpa a chi non ci ascolta e noi vogliamo fare di tutto per essere ascoltati”.Uno dei problemi di questa mancanza di fiducia reciproca deriva dai tempi della politica: le scienze del clima elaborano progetti che hanno bisogno di tempi troppo lunghi per i mandati politici?”Un rapporto costruttivo non significa dover dire a chi governa in quel momento cosa deve fare, ma fornire gli strumenti scientifici. In altre parole, non diciamo ai politici che vogliamo fare il loro lavoro, né mettere in dubbio la loro visione, però vorremmo che contassero su di noi per elaborare dei progetti, senza correre dietro alle emergenze. Siamo un Paese che, grazie anche a un’ottima Protezione civile, sa reagire alle emergenze, ma serve una prevenzione, perché la crisi climatica sta intaccando le nostre risorse”.In altre parole, state dicendo ai politici: “usateci di più”?”La nostra disponibilità l’abbiamo dichiarata con forza anche lo scorso agosto, quando abbiamo elaborato La lettera aperta alla politica (dalla quale era nata una petizione sostenuta da Green&Blue ndr). Ora stiamo lavorando per avviare una collaborazione continua e istituzionalizzata, che vada oltre il modello ampiamente utilizzato della nomina di consulenti individuali per i governi e i ministeri”.Perché questo modello va superato?”Il rischio è che i consulenti scelti non sempre rappresentino la migliore scienza del Paese. Inoltre, come già accennato, c’è il rischio che i consulenti vengano sostituiti quando cambia un governo, mentre questioni come il cambiamento climatico richiedono obiettivi politici pianificati per anni o decenni”.Qual è la vostra proposta?”Alla vigilia delle elezioni politiche del 2018, 18 tra i maggiori scienziati italiani di cambiamenti climatici e ambiente avevano dato vita al Comitato scientifico La Scienza al voto. Ora lo stesso Comitato ha avviato il progetto ‘Scegliamo il futuro’, proponendo un nuovo quadro istituzionale per la collaborazione tra scienza e politica sulla crisi climatica e ambientale. Lo scorso 22 settembre è stato firmato, da pressoché tutte le forze politiche, un accordo trasversale per istituire, all’inizio della legislatura, un organo di consulenza scientifica a Governo e Parlamento, con funzioni preparatorie, nella definizione dei provvedimenti che impatteranno clima e ambiente, e valutative dei provvedimenti presi – con quindi anche una funzione di eventuale stimolo al loro miglioramento.IlL’idea è che qualsiasi visione del futuro, di qualsiasi orientamento politico, debba fare i conti con la risoluzione della crisi climatica, perché altrimenti mancherebbero semplicemente le risorse per attuare quella visione. Vogliamo far capire che dobbiamo metterci tutti insieme per avere politiche che vadano in questa direzione qualsiasi sia il governo. Come scienziati noi diamo un ventaglio di opzioni, di strumenti e la politica deve scegliere come agire. Ognuno fa il lavoro che gli compete”.

    La politica come sta rispondendo dopo aver siglato l’accordo?”In questo momento abbiamo la collaborazione di molti dei rappresentanti politici, che stanno cominciando a discutere tra loro una proposta di legge. Proprio perché vogliamo essere pratici e propositivi tra i firmatari dell’articolo su Nature ci sono Fulco Lanchester, per il comitato giuridico, e Pietro Reggiani, esperto di comunicazione della scienza, in modo che il nostro messaggio abbia una base concreta, un progetto di legge su cui si confronti la politica. Sono ottimista, spero che la politica, al di là del colore, voglia accettare il nostro invito”. LEGGI TUTTO

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    Benessere degli animali ed economia circolare: la crescita dell’azienda La Caliera

    Matteo Marchioron ha 27 anni e da otto gestisce l’impresa di famiglia, l’azienda agricola La Caliera a Bolzano Vicentino, che da tre generazioni produce latte per il Grana Padano. Da ragazzino Matteo non pensava che avrebbe lavorato nello stesso settore del nonno e del padre: “Studiavo meccanica e la mia passione erano le macchine”, racconta. […] LEGGI TUTTO

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    Luca: “L’amore per la nostra terra ha coinvolto tutta la famiglia”

    “Un’azienda tramandata di generazione in generazione, che ha coinvolto sempre più membri della famiglia”. Luca Bortoli, 37 anni, racconta con queste parole la sua attività di allevamento e produzione latte di Piovene Rocchetta, in provincia di Vicenza, che è passata dalle mani del nonno che l’ha fondata nel 1974, a quella del padre e dello zio. Ora a gestirla sono lui e suo fratello e sua moglie e sua sorella vi sono appena entrate con una nuova attività: la fattoria didattica. “La passione per l’allevamento è nata fin dall’infanzia, trasmessa da nonno e papà e alimentata dal senso di responsabilità di far crescere l’azienda di famiglia – commenta l’imprenditore – Mio nonno ha iniziato con trenta vacche da latte, oggi ne abbiamo 120 e in totale duecento capi, in un capannone limitrofo abbiamo deciso di aprire una fattoria didattica”.

    Tramandare le tradizioni

    Uno degli obiettivi è quello di trasmettere lo stesso amore per la campagna e le sue attività alle nuove generazioni: “Quando chiedevamo ai bambini: “Da dove viene il latte?”, loro ci rispondevano: “Dal supermercato”, racconta Micol, moglie di Luca Bortoli. Quella risposta ha acceso una fiamma: “Vogliamo far conoscere ai più piccoli il territorio e le sue attività – continua Micol -, vogliamo mostrare loro che a due passi da casa le tradizioni della loro terra portano frutti e prodotti genuini sulle loro tavole”. Per questo all’interno dell’area adibita a fattoria didattica c’è un’aula che ospita classi di bambini durante la settimana e nel weekend viene utilizzata per feste di compleanno e attività dedicate come esperienze di fattoria, di cucina, di manualità, laboratori di pasta fatta in casa, di insaccati, attività inerenti al mondo agricolo. Dall’anno scorso l’azienda organizza anche un centro estivo e uno durante le vacanze di Pasqua durante i quali i bambini possono giocare e divertirsi in campagna ma anche approfondire la conoscenza degli animali, delle colture e delle tradizioni.

    Il valore famigliare

    Il successo dell’attività è legato soprattutto ai valori umani: “La nostra carta vincente è che facciamo tutto in famiglia – commentano marito e moglie -. Il fatto di lavorare nell’azienda di famiglia, con la famiglia ha aumentato la passione. Le generazioni precedenti, poi, ci hanno lasciato spazio per crescere e per portare innovazione all’interno dell’attività”. E aggiunge Luca: “Penso che se mio nonno e mio padre vedessero il lavoro che abbiamo fatto sarebbero molto soddisfatti, perché nonostante l’evoluzione che c’è stata, le tradizioni rimangono quelle di una volta”.

    Il business del latte

    Il business principale di Bortoli è il latte, la preziosa risorsa che l’azienda conferisce a Latterie vicentine, cooperativa che produce il Grana Padano. “Oggi ad aiutarci c’è la tecnologia – aggiunge l’imprenditore – La stalla è completamente automatizzata, le vacche sono libere e possono uscire all’aria aperta e sono dotate di un collare intelligente che monitora il loro stato di benessere e ci avvisa se per esempio non mangiano abbastanza o non si muovono”.

    L’innovazione e l’attenzione al bestiame consentono alla famiglia Bortoli di mantenere gli standard elevati richiesti dal Consorzio Grana Padano: “Siamo orgogliosi di far parte del consorzio che realizza un prodotto conosciuto e apprezzato in tutto il mondo”. LEGGI TUTTO

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    L’allevatore Paolo Faverzani: “La tecnologia al servizio di produzioni sostenibili nel rispetto della tradizione”

    La giornata di lavoro comincia alle 7, tra la gestione zootecnica delle stalle e quella agronomica della campagna. “E non sappiamo a che ora finisce”. Paolo Faverzani è un allevatore di 31 anni, che insieme alla famiglia dirige due aziende agricole nella zona di Stagno Lombardo, in provincia di Cremona. Nel descrivere le attività della propria impresa, dove viene prodotto il latte di alta qualità destinato alla realizzazione del Grana Padano Dop, parla di un “perfetto esempio di economia circolare”. L’azienda infatti produce i foraggi per nutrire le vacche, “tutto a chilometro zero”. E sta costruendo degli impianti di biogas per ricavare dalle deiezioni degli animali il metano per generare energia elettrica pulita.

    La forte sensibilità alle tematiche ambientali e la passione per le tecnologie hanno portato Paolo Faverzani a innovare alcuni processi. L’introduzione di macchine connesse, l’adozione di nuove tecniche di irrigazione e di lavorazione dei terreni hanno reso più sostenibili le produzioni. Ma questi cambiamenti sono avvenuti nel rispetto della tradizione, perché è proprio il mix di esperienze e di valori tra vecchia e nuova generazione che permette di valorizzare e tutelare il nostro patrimonio agroalimentare. “Siamo allevatori a Stagno dal 1795 – ci spiega – fin da bambino ho amato queste attività: prima di fare i compiti, tornato da scuola, andavo con mio padre nei campi e nelle stalle. Anche mio nonno e mia madre mi hanno trasmesso questa passione”. E racconta che, dopo il liceo classico, ha conseguito una laurea magistrale in Agraria a Piacenza, all’Università Cattolica, completando la formazione con l’esame di stato di agronomo.

    Il lavoro di allevatore

    Dopo gli studi universitari, Paolo Faverzani ha seguito dei corsi di perfezionamento negli Stati Uniti, nello stato di Washington, organizzati da alcune aziende americane con la collaborazione di veterinari delle università: un insieme di conoscenze che ha poi portato nel suo lavoro in Italia. “Abbiamo seguito lezioni frontali con professionisti, veterinari e agronomi, che poi abbiamo messo in pratica. Un percorso che ci ha aiutato a entrare nell’ottica di gestione di aziende americane, che hanno dimensioni maggiori rispetto a quelle italiane – ci dice al telefono – Arrivano anche ad avere 7mila capi. La mia azienda, che è grande, munge mille vacche, mentre l’impresa media cremonese arriva a circa 300. Non ci consideriamo comunque un allevamento intensivo, ma moderno e collocato nel proprio tempo, attento al benessere animale, per il quale ogni anno facciamo importanti investimenti”.

    Ogni mattina il giro di Paolo Faverzani comincia nelle stalle, per controllare gli animali e la loro alimentazione: “Il martedì e il venerdì ci sono anche un veterinario e un alimentarista che ci aiutano a gestire la parte sanitaria e dei foraggi. Più tardi, esco sui campi, dove dirigo le operazioni dei dipendenti”. L’allevatore ci racconta che anche le operazioni di semina e raccolta avvengono in autonomia nell’azienda, che possiede le attrezzature necessarie per la produzione dei foraggi per le stalle. “Serve tanta passione per fare questo lavoro e anche coraggio, considerando che con i costi in aumento di materie prime, energia e macchinari, i margini sono sempre più risicati: la spesa alimentare è stata anche del 40% più alta rispetto al 2021”.

    Innovazione sostenibile

    Una delle ambizioni di Paolo Faverzani, che è anche presidente provinciale di Cremona dei giovani di Confagricoltura, è far evolvere l’azienda, proiettarla nel futuro. Consapevole che “i passaggi generazionali sono complicati, soprattutto nel nostro settore”, il giovane allevatore ha introdotto alcune novità con l’appoggio del nonno e dei genitori. “In campagna siamo passati dal regime arativo a quello di minima lavorazione, una tecnica che consente di rispettare l’equilibrio del terreno evitando gli shock dovuti all’aratura”. Con l’agricoltura conservativa, infatti, si evita una lavorazione intensiva del terreno e i suoi strati non vengono invertiti: così mantiene una maggiore porosità, perché ossigeno e acqua passano meglio attraverso il suolo. “Si ottengono risultati più efficienti e si riesce a stoccare anche più carbonio”, ci spiega, facendo notare che “nel terreno ci sono insetti, microrganismi e un ph ben specifico, è un piccolo ecosistema. Con l’aratura è come se arrivasse un terremoto ogni anno. Grazie a questo metodo di lavorazione, l’azienda non acquista più concimi chimici”.

    Anche a livello tecnologico, le macchine connesse e l’analisi dei dati consentono di registrare ed esaminare le operazioni che vengono fatte in campagna, in modo da evitare sovrapposizioni, ridurre i consumi e tagliare le attività inutili. “Con la tecnologia satellitare, ad esempio, conosciamo perfettamente il percorso fatto dal trattore e non c’è il rischio che si lavori sulla stessa zona due volte, evitando anche gli sprechi di gasolio. Inoltre abbiamo introdotto l’irrigazione goccia a goccia del mais, più efficiente di quella tradizionale: l’acqua viene depositata sulle radici e il terreno riesce ad assorbirla meglio”.

    A livello energetico, infine, Paolo Faverzani ci dice che l’azienda si è dotata anche di un sistema fotovoltaico e sta costruendo degli impianti di biogas – che saranno in funzione il prossimo anno – per sfruttare le deiezioni animali: “Il digestato derivante dal processo verrà usato come concime organico per i terreni, mentre il metano prodotto servirà a generare energia elettrica”. LEGGI TUTTO

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    All’estero è passione per i formaggi made in Italy

    Nella versione a pasta molle o dura, freschi o stagionati i formaggi italiani vantano ormai un’ampia platea di appassionati in tutto il mondo, attratti dalla qualità delle produzioni italiane. Un successo frutto anche dell’ampia possibilità di scelta che il nostro Paese offre, considerato che dalla Valle d’Aosta alla Puglia, passando per le Isole e per la Lombardia, si contano quasi 500 varietà e oltre 300 denominazioni riconosciute d’origine protetta. A confermare la passione crescente per i nostri formaggi sono anche i dati Assolatte relativi all’export lattiero caseario che lo scorso anno ha superato le 550 mila tonnellate, un dato in crescita del 6% sul 2021, mentre il fatturato del settore ha raggiunto i 4,2 miliardi di euro, con un incremento del 19%.

    Tra i Paesi dove le esportazioni sono cresciute di più spiccano la Spagna (+19%), divenuta il terzo mercato in area Ue, la Francia (+12%), i Paesi Bassi (+14%) e la Polonia (+17%). Con 120 mila tonnellate esportate, la Francia è risultata nuovamente primo mercato di sbocco. Mentre in area extra-Ue a fare meglio, con tassi di incremento tra il 20 e il 30%, sono stati Canada, Giappone, Cina e Arabia Saudita.

    Il problema dell’italian sounding

    Un quadro molto positivo sul quale incombe però il fenomeno dell’italian sounding, espressione con la quale si intende l’utilizzo di nomi, loghi, colori e anche slogan per spingere le vendite di prodotti che emulano quelli made in Italy senza esserlo. Un problema che interessa tutto il cibo italiano, compresi i nostri formaggi. Secondo un’analisi della Coldiretti, a copiare il cibo italiano sono soprattutto Stati Uniti e Canada, Australia e Russia. Paesi dove i prodotti tricolore non sono tutelati come all’interno dell’Unione Europea.

    Non a caso negli Stati Uniti l’italian sounding rappresenta un’industria fiorente, che vale da sola circa 40 miliardi di euro. A fare il punto sul problema è anche uno studio di The European House – Ambrosetti secondo cui se i prodotti Made in Italy acquistati nel mondo fossero tutti davvero di provenienza italiana l’export agroalimentare passerebbe dagli attuali 50,1 miliardi di euro a quasi 130. L’indagine ha inoltre analizzato le varie cause che sono alla base dell’ampia diffusione dell’italian sounding nel mondo.

    Le cause e i potenziali rimedi

    Tra queste spicca in primo luogo la scarsa consapevolezza del consumatore straniero che spesso porta ad acquistare le imitazioni pensando invece di comprare italiano. A questo si aggiungono le barriere tariffarie e doganali che riducono la competitività dei prodotti made in Italy sui mercati esteri e l’elevata concentrazione di prodotti italian sounding in Paesi, a partire da Australia e Brasile, dove il vero made in Italy, molto ambito dai consumatori, è ancora poco presente tra gli scaffali.

    Lo studio suggerisce anche una serie di rimedi che potrebbero aiutare il nostro made in Italy agroalimentare a riguadagnare le quote sottratte dai prodotti italian sounding. Tra questi, far conoscere e valorizzare con maggiore efficacia il marchio Made in Italy, promuovere la diffusione di etichette impossibili da imitare e chiaramente distinguibili. O, ancora, puntare sugli accordi commerciali come il Ceta, accordo di libero scambio dell’Unione Europea con il Canada che, oltre a riconoscere 41 Dop (denominazione di origine protetta) e Igp (indicazione geografica protetta) italiane, stabilisce anche il divieto di “evocazione” di nomi e simboli che riguardano i prodotti tricolore. LEGGI TUTTO

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    Al via le trattative per la riforma del sistema Dop-Igp

    Potrebbero partire a breve gli importantissimi negoziati sulla riforma europea del sistema delle Dop e Igp. L’obiettivo è quello di trovare l’accordo entro la fine dell’anno. A sottolinearlo è stato di recente il commissario Ue all’Agricoltura, Janusz Wojciechowski, che ha indicato come possibile tempistica l’inizio dell’estate. L’argomento è da diverso tempo sul tavolo di Bruxelles ed è già stato oggetto di un dibattito, a tratti anche acceso, che vede l’Italia in prima posizione. Nessun altro Stato membro vanta infatti un patrimonio agroalimentare d’eccellenza come il Belpaese.

    “Conto sul Parlamento Ue e sugli Stati membri per raggiungere presto un compromesso su tutte le questioni in sospeso della riforma del sistema delle indicazioni geografiche e spero che i primi negoziati possano svolgersi prima delle vacanze estive, in modo da poter disporre di un sistema più forte il prima possibile – ha detto Wojciechowski, intervenendo al convegno dell’Associazione delle regioni europee per i prodotti di origine (Arepo), ospitato a Bruxelles dai locali dell’Emilia-Romagna – In Europa, la qualità e l’origine sono pilastri essenziali della nostra cultura e della nostra agricoltura. In nessun altro luogo questo è più evidente che nel nostro sistema di indicazioni geografiche. Esso si è rivelato solido e di successo, c’è sempre spazio per i miglioramenti”.

    Per l’Italia si tratta di una partita da 17 miliardi di euro, di cui ben 10 riguardano l’export. A tanto ammonta infatti il giro d’affari dei prodotti Dop, Igp e Stg. A livello comunitario, invece, si arriva a un fatturato di 75 miliardi, per un totale di 3.400 prodotti tutelati dal sistema a marchio registrato. La riforma delle Dop e Igp risale al 2006, quando è stato abrogato il precedente regolamento della Comunità europea del 1992.

    Le principali novità che Bruxelles intende introdurre riguardano procedure di registrazione abbreviate, maggiori tutele, in particolar modo online, maggiore attenzione alla sostenibilità e maggiori poteri alle associazioni di produttori. “Le indicazioni geografiche rappresentano la ricchezza e la diversità del patrimonio enogastronomico – ha chiarito il commissario Ue all’Agricoltura – L’Unione vuole promuovere la produzione di prodotti di qualità tradizionali. Ciò andrà a beneficio delle economie rurali in tutta l’Unione, contribuirà a preservare le tradizioni locali e le risorse naturali, e proteggerà ulteriormente la notorietà globale dei prodotti agroalimentari dell’Ue”.

    In Italia la proposta di riforma è stata accolta con un certo grado di scetticismo. Le principali critiche riguardano due punti cruciali: lo scarso peso dato ai Consorzi e la scarsa chiarezza sul divieto di evocazione, ovvero i riferimenti più o meno velati a prodotti Dop di altri Paesi. Il caso più conosciuto è stato il Prosek croato, che richiamava il Prosecco italiano.

    “È una riforma che dobbiamo assolutamente cercare di guidare, perché per il futuro servono semplificazione e cambi di rotta – fa il punto, Stefano Berni, direttore generale del Consorzio di tutela del Grana Padano – Dovremmo essere riusciti a bloccare lo spostamento delle Indicazioni Geografiche sotto la Euipo, l’ente che regola i marchi industriali. Ma le Dop non sono un marchio industriale, vogliamo essere governati dalla Commissione Agricoltura della Ue. Inoltre, abbiamo bisogno di conferme sugli strumenti di tutela e sul contrasto alle cosiddette evocazioni”. Secondo è necessario che vengano semplificate le procedure: “Non è più ammissibile, con i tempi del mondo attuale, che per modificare il disciplinare di una Dop occorrano più di due anni; abbiamo bisogno di risposte più rapide e più certe”, conclude il direttore generale del Consorzio Grana Padano. LEGGI TUTTO

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    Anna: “Uso la tecnologia e mi faccio valere come donna”

    Molto spesso l’unione tra tradizione e innovazione permette di migliorare un processo produttivo, portando in dote le esperienze migliori del passato con le tecnologie più moderne del presente. Un principio che vale anche nella lavorazione del Grana Padano Dop e nella produzione della materia prima necessaria alla realizzazione di questo formaggio. Anna Guerini Rocco lo sa molto bene. Allevatrice di Cremona, ventottenne, lavora nell’azienda di famiglia da circa sette anni: “Mi occupo della stalla e degli animali, mentre mio fratello Paolo lavora in campagna, ci siamo divisi i compiti”, ci racconta, spiegando che tra i suoi doveri ci sono la mungitura, la cura degli animali, la pulizia delle gabbiette: “Mio fratello invece lavora i terreni, semina e porta a casa il prodotto che serve come alimento per gli animali, come fieno, erba medica, trinciato”.

    Tra i due ci sono sette anni di differenza, appartengono a due generazioni diverse: è il valore aggiunto che portano in questo lavoro deriva anche dal confronto tra i loro approcci e mentalità, spesso differenti e che tengono conto anche dei suggerimenti e dei metodi dei loro familiari. “Sono molto attenta alle nuove tecnologie e quando posso preferisco impiegarle per eliminare i compiti manuali, a differenza di mio fratello, molto più abituato a lavorare in maniera tradizionale”, ci dice l’allevatrice, che è entrata nell’azienda, prima gestita dal padre e dai suoi fratelli, subito dopo la scuola da geometra. “Adesso ho impostato un gruppo di mungitura, si tratta di un robot che munge in autonomia le mucche”, ci dice: un’operazione che ha liberato del tempo prezioso, visto che prima dell’introduzione del robot, “ci dedicavamo manualmente a questa attività ogni notte per tre ore”.

    Un’innovazione che è stata apprezzata dal fratello e che ha portato diversi vantaggi: “Le vacche vengono munte più spesso, tre volte al giorno invece che due, si riduce il rischio di contrarre una mastite e si usano meno antibiotici. Inoltre gli animali sono sottoposti a minore stress”, racconta l’allevatrice, facendo notare che in questo modo si guadagna anche tempo da dedicare ad altre attività: “Posso così aiutare mio fratello nei campi, se serve, o seguire una della mie passioni: le fiere”. E ci dice che nel tempo libero addestra anche le mucche che partecipano a delle competizioni durante le fiere: “L’animale non viene giudicato solo dal punto di vista estetico, ma anche nel modo di camminare e nella sua capacità di seguire le mie istruzioni”.

    Ma è proprio il mix di competenze legate alle diverse generazioni di allevatori che fornisce i contributi migliori all’attività di allevamento. “Noi siamo più tecnologici, ma i più anziani hanno tanta esperienza, conoscono i campi meglio di me e di mio fratello, e così ci aiutano. Ad esempio, ci suggeriscono cosa seminare, quale tipo di mais scegliere per avere una resa migliore”.

    In questa attività riuscire a emergere e a imporsi può essere duro: servono passione e dedizione, perché “non c’è sabato o domenica, non ci sono feste, lavori tutto l’anno, d’estate anche 14 o 15 ore al giorno”. E quando si è donna a volte si aggiungono delle difficoltà in più, come ci racconta Anna Guerini Rocco: “Può essere pesante. Ad esempio, quando un rappresentante viene in azienda per vendere la sua merce, preferisce parlare con mio fratello o mio padre perché sono uomini. Ma io mi sono fatta rispettare, grazie anche all’aiuto dei miei familiari che mi hanno sempre appoggiata. Così se il rappresentante vuole vendere, deve trattare con me”. LEGGI TUTTO

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    Consumi sotto pressione. Le famiglie italiane iniziano a intaccare i risparmi

    L’ultimo Bollettino di Bankitalia è stato accolto con un certo sollievo dalla maggior parte degli analisti sebbene lo studio abbia rilevato una stazionarietà dei consumi da parte delle famiglie nel primo trimestre dell’anno. Non ci sarebbe molto da festeggiare se non fosse che questo trend arriva dopo un quarto trimestre 2022 fortemente negativo (-1,6%), che aveva riportato l’indicatore al di sotto del livello pre-pandemico e a fronte di una recessione data per scontata fino a poche settimane fa. Una certezza venuta meno dopo le ultime rilevazioni su produzione industriale e investimenti, che lasciano immaginare un prosieguo di 2023 all’insegna della crescita economica, per quanto su livelli contenuti.

    Verso un anno di transizione

    Secondo le ultime stime elaborate dal Centro Studi di Confindustria, quest’anno i consumi delle famiglie italiane rimarranno quasi fermi (+0,2% rispetto al 2022), grazie a una leggera ripresa nel corso del secondo semestre (complice l’attesa frenata dell’inflazione) che dovrebbe fare da traino per il 2024, atteso in progresso dell’1,4%.

    Anche se, come dimostrato dalle tendenze degli ultimi anni, lo scenario è in continuo divenire e molto dipenderà dall’andamento delle incognite geopolitiche e dalla dinamica dei prezzi. Sta di fatto che già oggi, secondo l’Osservatorio “Sguardi Familiari” di Nomisma, il 43% delle famiglie italiane dichiara di avere risorse appena sufficienti per i bisogni primari e di vivere in una sorta di equilibrio precario, mentre un altro 13% fatica a fronteggiare le necessità primarie, come la spesa per i generi alimentari e quelle legate alla casa come affitto, mutuo e bollette.

    Dopo che nei primi due anni della pandemia le famiglie italiane hanno messo fieno in cascina, aumentando in maniera considerevole i risparmi, nel corso del 2022 vi è stata un’inversione del trend, con la propensione al risparmio scesa al 7,1%, nove decimali meno del 2019. Significa che gli italiani hanno smesso di essere formiche? Probabilmente no. Secondo la lettura degli analisti, è più probabile che molti abbiano dato fondo alle risorse accumulate nel tempo per non dover rinunciare al proprio tenore di vita a fronte dell’impennata inflazionistica.

    Cresce l’attenzione al prezzo

    In questa direzione va anche la crescente attenzione prestata al fattore prezzo, come dimostra la crescita continua del canale discount, che nel 2022 hanno visto crescere le vendite a volumi del prodotti di largo consumo confezionato (+2,5%), mentre gli altri canali (libero servizio piccolo, supermercati e ipermercati) cedevano l’1,6%. Un andamento differente, rilevato da Iri International, che consolida quanto emerso già in precedenza. LEGGI TUTTO