17 Marzo 2023

Daily Archives

consigliato per te

  • in

    Perché il Ponte sullo Stretto è un progetto fallimentare per l'ambiente

    È fallimentare puntare su un’opera dagli elevatissimi e insostenibili costi ambientali, sociali ed economico-finanziari, come il ponte sullo Stretto di Messina. Il Governo ritiene che la strada sia spianata ma il General Contractor Eurolink (capeggiato da Webuild) che ha progettato il ponte sospeso ad unica campata e doppio impalcato stradale e ferroviario, che si vuole […] LEGGI TUTTO

  • in

    L'Italia è il Paese del Mediterraneo più colpito dalla grandine

    Un anno fa i ricercatori del Cnr-Isac, guidati da Sante Laviola, avevano accertato che le grandinate erano aumentate del 30% nell’ultimo decennio nel Mediterraneo. Oggi, un ulteriore approfondimento del gruppo di Bologna ha portato alla prima mappa dettagliata dei fenomeni grandinigeni che mostra come l’Italia, all’interno dell’area mediterranea, sia il Paese dove le grandinate si registrano con maggiore frequenza.

    I dati raccolti ed elaborati da Laviola, Monte, Cattani e Levizzani sono particolarmente preziosi perché non è facile studiare le grandinate, data la loro natura di eventi di breve durata e di limitata estensione spaziale, fattori che complicano notevolmente l’osservazione se non sono disponibili strumenti di misurazione a terra, come i radar. I ricercatori dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna hanno utilizzato i dati forniti dai satelliti nell’ambito delle indagini sull’incidenza dei temporali grandinigeni nel Mediterraneo, un’area di particolare interesse perché è una di quelle maggiormente colpite dagli effetti del cambiamento climatico. Sono così arrivati a definire la prima mappa globale di grandine ad alta risoluzione, realizzata utilizzando un set completo di dati provenienti dallo spazio.

    “Abbiamo analizzato l’intera rete di sensori satellitari che fanno parte della missione spaziale internazionale Global Precipitation Measurements (GPM). Questo tipo di sensori consentono di utilizzare una vasta gamma di frequenze di sondaggio e hanno un’elevata copertura spaziale, offrendo notevoli potenzialità in termini di rilevamento e di indagine delle grandinate”, spiega Sante Laviola, ricercatore del Cnr-Isac e primo autore dello studio.

    Clima

    Grandine in aumento nell’area del Mediterraneo: +30% in dieci anni

    di Cristina Nadotti

    08 Settembre 2022

    Secondo questa ricerca, l’Italia risulta essere il Paese dell’area mediterranea maggiormente colpito dagli eventi grandinigeni, trainando l’incremento delle precipitazioni nell’intero bacino. “I valori rilevati indicano che negli ultimi vent’anni il Mediterraneo si sta riscaldando il 20% più velocemente rispetto alla media globale, con la conseguente variazione dei regimi delle precipitazioni, che aumentano per intensità e frequenza. Nonostante ci sia una grande variabilità tra un anno e l’altro, in tutta l’area si può notare un trend di aumento, pari al 30%, per quanto concerne le precipitazioni di grandine sia intense che estreme. In particolare, nella nostra Penisola si è raggiunto il numero medio più alto di questo tipo di precipitazioni, che si concentrano maggiormente nel nord durante l’estate, mentre crescono nel centro-sud tra la fine dell’estate e l’autunno”, prosegue il ricercatore del Cnr.

    Strumenti come la mappa e i dati raccolti nell’ambito della ricerca sui fenomeni grandinigeni nel Mediterraneo sono essenziali per migliorare i modelli metereologici e climatici, indispensabili per la gestione del rischio e le strategie per la mitigazione degli effetti della grandine sul territorio e sulle attività dell’uomo. “Una mappa globale di grandine, che può essere prodotta ogni tre ore, fornisce un’informazione – finora inesistente – utile per poter studiare la distribuzione dei pattern grandinigeni su ogni area del Pianeta, e in particolar modo in mare. Se da punto di vista operativo le nostre mappe globali permettono di osservare le grandinate anche su aree del pianeta scoperte da sistemi di misura al suolo, da un punto di vista climatico renderebbero possibile replicare il nostro studio su altri hotspot climatici della Terra”, conclude Laviola. LEGGI TUTTO

  • in

    Il discorso di Mattarella a Nairobi: “Sul clima servono interventi incisivi”

    Eccellentissimi Ministri, Eccellentissimi Cancelliere e Vice Cancelliere dell’Università di Nairobi, Signore e Signori,

    mi rivolgo a voi, care studentesse e cari studenti, buongiorno a tutti in questa splendida giornata di pioggia. Sono davvero molto lieto di potermi indirizzare a Voi oggi in questa prestigiosa Università, che sin dalla sua fondazione ha formato e continua a formare generazioni di giovani kenyoti e di tutto il continente.

    Avverto un sentimento di profonda considerazione nel momento in cui mi rivolgo a Voi nell’Università in cui ha insegnato Wangari Maathai, la prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per il suo instancabile impegno a favore della promozione dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace. Il suo esempio è stato fonte di ispirazione per un gran numero di donne e di uomini in tutto il mondo. È anche grazie alle sue azioni se oggi il dibattito attorno al cambiamento climatico non è più appannaggio soltanto di scienziati e di politici, ma è questione che mobilita le coscienze a livello globale.

    Per troppo tempo abbiamo infatti affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico. Eppure non da oggi siamo consapevoli di come le attività umane abbiano un impatto sull’ambiente e sul clima: basti pensare alla deforestazione che ha caratterizzato lo sviluppo di tante aree in Europa. Una rivista americana, “Popular mechanics”, già nel 1912, oltre cento anni fa, riportava la notizia di come la combustione di miliardi di tonnellate di carbon fossile aggiungesse ogni anno altrettante tonnellate di diossido di carbonio, attribuendo a questo fenomeno nell’atmosfera l’innalzamento delle temperature, i cui effetti, proseguiva l’articolo, sarebbero stati avvertiti nell’arco di alcuni secoli. Era una premonizione.

    Gli effetti del cambiamento climatico si sono addirittura accelerati. Li avvertiamo in maniera più che significativa. Le conseguenze dell’innalzamento delle temperature medie sono gravi, ben documentate e si avvertono ovunque nel mondo. Il drammatico aumento delle ondate di calore, le inondazioni, la siccità, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari sono alcuni dei sintomi più evidenti. Come governare questi fenomeni, sfuggendo a una falsa alternativa tra rinuncia allo sviluppo o cristallizzazione dell’esistente? La risposta è nella espressione sostenibilità. Ambientale, sociale, economica. In altri termini saper considerare come unitari i destini delle popolazioni del pianeta.

    Il cambiamento climatico provoca, come sappiamo, conseguenze nefaste. Si registra ormai da tempo una drammatica diminuzione della biodiversità, in gran parte legata all’abbattimento delle foreste pluviali equatoriali, con la scomparsa di decine di migliaia di specie viventi ogni anno, una perdita irreparabile di varietà genetica, ecosistemi, di habitat. Con importanti conseguenze sulla dislocazione della specie umana su un pianeta che vede diminuire progressivamente le aree di insediamento. Si tratti dell’innalzamento delle acque nei mari – che pone a gravissimo rischio la sopravvivenza di numerose isole e delle popolazioni che le abitano – si tratti dell’allargamento progressivo dei fenomeni di desertificazione, si tratti di abbandono di aree marginali. Il fenomeno dei profughi “climatici”, oltre che di quelli dei conflitti, è drammaticamente davanti a noi.

    L’impronta dell’uomo sui cicli biogeochimici – da quello del carbonio a quelli dell’azoto e del fosforo, a quello dell’acqua e dell’ossigeno – tutti elementi fondamentali della vita, è determinante. Con il crescere della minaccia è aumentata anche la consapevolezza dei gravissimi rischi che l’umanità sta correndo. In primo luogo grazie all’opera delle Nazioni Unite nel quadro dell’Agenda 2030 e, soprattutto, del Programma per l’Ambiente. Lo scorso anno abbiamo celebrato la ricorrenza del cinquantesimo anniversario dalla sua istituzione, che proprio qui a Nairobi ha sede, grazie ad una decisione coraggiosa e lungimirante del Primo Presidente del Kenya, Jomo Kenyatta.

    Passi avanti sono stati compiuti. Dalla Conferenza di Montreal del 1987 sulla riduzione del “buco dell’ozono”, al Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992, fino al Protocollo di Kyoto e all’Accordo di Parigi del 2015, tanti momenti hanno consolidato la determinazione collettiva nel prevenire gli scenari più catastrofici legati all’innalzamento delle temperature globali. Lo scorso anno, qui a Nairobi, nell’ambito dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente è stata raggiunta una storica decisione, che porterà alla definizione di un trattato giuridicamente vincolante per contrastare l’inquinamento derivante dalla plastica. Infine, nei giorni scorsi, alle Nazioni Unite è stato approvato il Trattato che intende proteggere entro il 2030 il 30% delle acque marine.

    Sono risultati importanti, che dimostrano come la lotta al cambiamento climatico non sia più trascurata nelle priorità dell’agenda internazionale. Gran parte del merito di questa nuova sensibilità va attribuito alla società civile e, in particolare, ai tanti giovani come voi che in tutti i continenti – dall’Africa all’Europa, dall’Asia alle Americhe – mantengono alta la pressione sui Governi e sul settore privato, pretendendo azioni immediate e incisive.

    È la vostra generazione a essere interpellata, anzitutto. Perché ne va del vostro futuro. Soprattutto in Africa se ne vivono le drammatiche conseguenze sulla povertà, la malnutrizione, l’accesso alla salute e le prospettive di crescita. Il vostro ruolo è e sarà sempre più esigente ed essenziale.

    La Repubblica Italiana è fortemente convinta della necessità di sostenere la partecipazione attiva delle giovani generazioni ai negoziati sul clima. Lo abbiamo fatto in occasione del forum Youth for Climate a Milano durante la preparazione della COP26. E siamo lieti che sia diventato un foro permanente, che speriamo possa contribuire al successo della prossima COP di Dubai.

    Dobbiamo, tuttavia, chiederci: tutto questo è sufficiente? Credo che, in tutta onestà, sia difficile rispondere positivamente a questa domanda. In segmenti della società e in alcuni Paesi non è presente il senso profondo dell’urgenza e della necessità di interventi incisivi. Eppure, lo aveva sottolineato il Presidente Ruto alla COP27, in un intervento che ho molto apprezzato per lucidità e coerenza: “di fronte alla catastrofe imminente, i cui segnali premonitori sono già insopportabilmente disastrosi, un’azione dai contorni limitati sarebbe poco saggia; l’inazione infedele e sarebbe fatale”.

    Il continente africano è senza dubbio uno fra i più colpiti, pur avendo contribuito molto meno di altri all’attuale degrado della situazione. La tremenda siccità che ha reso aride vaste regioni del Corno d’Africa e anche del Kenya settentrionale, per l’eccezionale durata del fenomeno, assume oramai i contorni di preoccupante nuova normalità piuttosto che di sporadica emergenza. Sono a rischio i laghi, i fiumi, tradizionali veicoli e custodi di biodiversità e ambiti di collegamento tra i territori.

    Il Mediterraneo – mare in cui insiste l’Italia e regione che custodisce un patrimonio fra i più significativi anche in termini di ricchezza socio-culturale, grazie alla sua caratteristica unica di crocevia di tre continenti – è uno dei luoghi maggiormente in pericolo. Quella della siccità è peraltro soltanto una fra le crisi climatiche. Secondo uno degli ultimi rapporti del Panel Internazionale sul Cambiamento Climatico, i ghiacciai sul monte Kenya rischiano di scomparire nel prossimo decennio, mentre quelli sul Monte Kilimanjaro potrebbero non resistere oltre il 2040. È un destino che queste magnifiche vette africane rischiano di condividere con quelle delle Alpi in Europa, dove già oggi la neve è molto meno frequente.

    Non si può fuggire dalla realtà.

    La riduzione delle emissioni nei tempi e nelle modalità indicate dalla comunità scientifica costituisce un obbligo ineludibile, che riguarda tutti. Non ci si può cullare nell’illusione di perseguire prima obiettivi di sviluppo economico per poi affrontare in un secondo momento le problematiche ambientali. Non avremo un “secondo tempo”.

    Se vogliamo lasciare alle future generazioni, a voi che mi state ascoltando oggi, un pianeta dove l’umanità possa vivere e prosperare in pace, dovremo compiere, tutti assieme, progressi decisivi nella transizione verso un’economia decarbonizzata. I Paesi di più antica industrializzazione hanno contribuito in maniera sicuramente preponderante, con quel modello di sviluppo e crescita, alle emissioni di gas ad effetto serra. Negli ultimi decenni, nuovi protagonisti hanno conosciuto una travolgente crescita economica, che li ha portati a raggiungere, e a superare, l’impatto di quelli che hanno generato la prima rivoluzione industriale. Con effetti altrettanto devastanti sull’ambiente.

    Gli sforzi dei Paesi industrializzati, che devono essere significativamente accresciuti proporzionalmente alle loro responsabilità, per essere efficaci devono essere accompagnati da un analogo convinto impegno di Paesi – inclusi quelli emergenti -, il cui peso demografico ed economico è diventato prevalente.

    Care studentesse, cari studenti,

    Lo sviluppo tecnologico e industriale ha permesso all’umanità di modificare in profondità gli equilibri complessivi del pianeta. Il rapporto tra popolazione e risorse fa sì che l’ambiente che ci circonda non sia più uno scenario immutabile, semplice sfondo alle singole vicende umane. Il passaggio da meri spettatori a forza attiva e consapevole, capace di plasmare il mondo in cui viviamo ci impone un’assunzione di responsabilità collettiva, da cui non possiamo e non dobbiamo tirarci indietro.

    Per sottolineare questa circostanza, alcuni scienziati hanno suggerito di chiamare l’epoca attuale “antropocene”. Non entro nel dibattito, tuttora in corso, sulla correttezza o meno di questa definizione, ma trovo il termine uno stimolo interessante se consente di riflettere sulla necessità di un cambio di paradigma per affrontare l’emergenza climatica. Innanzitutto, è evidente come a tal fine la dimensione del singolo Stato sia totalmente inadeguata.

    Gli sforzi di unità e indirizzo, realizzati a partire dalla costituzione dell’Onu, con le organizzazioni di integrazione continentale come l’Unione Africana e l’Unione Europea, non saranno mai sufficienti. Soltanto un’azione collettiva può essere capace di coniugare efficacia e solidarietà per evitare gli scenari catastrofici in atto e quelli che si annunciano. È il momento dell’unità, della coesione, non di divisioni fra Nord e Sud, fra Est e Ovest del mondo.

    Affrontare le sfide che si pongono all’umanità, tutta insieme, significa abbandonare gli scenari di guerra e di conflitto interno che gravano, purtroppo, sui destini di tante popolazioni e progettare congiuntamente il futuro. La brutale aggressione della Federazione Russa all’Ucraina sta riportando i rapporti internazionali indietro di ottant’anni, come se non vi fosse stato, in questo arco di tempo, un mirabile progresso sul terreno della indipendenza, della libertà e della democrazia, della crescita civile di tante nazioni.

    Siamo cresciuti nella interdipendenza tra i nostri destini e gravissime sono le conseguenze degli atti della Federazione Russa sulla sicurezza alimentare, su quella energetica di tanti Paesi, sulla pace, anche nel continente africano, e nel Medio Oriente. Il contrasto al cambiamento climatico è obiettivo unificante che richiama al dialogo multilaterale, al rispetto degli impegni liberamente assunti in sede internazionale. La applicazione di piani per la transizione energetica rappresenta di per sè una modalità che può permetterci di addivenire a un sistema economico globale più equo, più sostenibile, più giusto.

    È una grande opportunità per dare vita a forme di cooperazione internazionale equilibrate, che affrontino il tema dello sviluppo in modo sostenibile, con il necessario trasferimento tecnologico da parte dei Paesi più avanzati e mettendo a disposizione le risorse finanziarie necessarie a beneficio dei Paesi più vulnerabili.

    Il tema della giustizia climatica è fondamentale e l’Unione Europea sostiene l’iniziativa, lanciata in occasione della recente COP 27 a Sharm El Sheikh di istituire un meccanismo per sostenere i Paesi più esposti agli eventi estremi derivanti dal mutamento climatico, tramite la creazione di un Fondo sulle perdite e i danni, che agisca sulla base del principio di solidarietà e non del mero risarcimento. Particolarmente rilevante è il ruolo delle Istituzioni Finanziarie Internazionali per il sostegno alle iniziative finalizzate a ridurre le emissioni e consentire l’adattamento della società alle nuove condizioni.

    Care studentesse, cari studenti,

    in uno degli ultimi scritti, dell’Arcivescovo e Premio Nobel Desmond Tutu si legge: “Essere i custodi del creato non rappresenta un titolo vano; impone di agire e con tutta l’urgenza che la situazione richiede”. La tutela dell’ambiente e il contrasto al cambiamento climatico rappresentano responsabilità ineludibili, che ricadono su tutta l’umanità, nessuno escluso. Ciò detto, sono fermamente convinto che su questo tema, così come su molti altri, Africa ed Europa possano e debbano assumere congiuntamente un ruolo di guida. La cooperazione fra Europa e Africa – il cui futuro è in comune – è determinante per promuovere obiettivi ambiziosi. L’Africa detiene chiavi essenziali per il successo delle strategie di de-carbonizzazione del pianeta.

    La produzione di energia pulita e la sua efficace distribuzione sono fondamentali per lo sviluppo dell’Africa, come indicato nella strategia dell’Unione Africana sul clima. La transizione energetica, con la sua enfasi sulle energie rinnovabili e sull’economia circolare, apre nuovi e promettenti orizzonti di collaborazione per i nostri continenti. A questo riguardo, con l’istituzione di uno specifico Fondo per il Clima, l’Italia intende proporsi come soggetto di primo piano per interventi di finanza climatica.

    Dai grandi progetti per l’utilizzo dell’energia solare ed eolica, all’agricoltura 4.0, fino alla produzione di idrogeno verde, le potenzialità per il partenariato fra Africa e Europa sono numerose e tutte altamente promettenti. La chiave di un successo, che per essere durevole non potrà che essere comune, sta nel rafforzare la consapevolezza della complementarietà fra Africa ed Europa, complementarietà che un frangente storico così complesso rende ancora più evidente.

    Condividiamo la tensione verso un nuovo umanesimo, che ponga al centro, a livello nazionale e internazionale, l’uomo e la sua aspirazione a vivere con dignità in società più eque, inclusive e sostenibili. Nel percorso di intensificazione dei rapporti, l’Italia e l’Unione Europea contano sulla interlocuzione con quei Paesi, come il Kenya, con cui costruire un partenariato fondato, oltre che sulla convergenza verso comuni interessi, su valori condivisi. Quali il rispetto per la dignità di ogni persona e di ogni comunità, la promozione dei valori democratici, l’attenzione per la crescita e lo sviluppo delle giovani generazioni, la cura dei beni comuni globali, a cominciare – appunto – da quello, preziosissimo, dell’ambiente.

    Come affermò la stessa Wangari Maathai in occasione della cerimonia di consegna del Premio Nobel, “non può esserci pace senza sviluppo; e non vi può essere sviluppo senza una gestione sostenibile dell’ambiente in uno spazio pacifico e democratico”.

    In queste sue parole ci riconosciamo pienamente.

    Grazie. LEGGI TUTTO

  • in

    Wsense, i nodi sottomarini per scoprire i segreti del mare

    Internet of Underwater Things (Iut), ovvero l’Internet delle cose sottomarine. La romana Wsense opera in questo settore. Anzi, ad esser precisi lo sta di fatto costruendo. Nata nel 2017 come costola dell’Università La Sapienza di Roma, è specializzata in comunicazioni subacquee senza fili. Con tecnologie brevettate, sviluppa sistemi che utilizzano le onde acustiche, simili a […] LEGGI TUTTO

  • in

    “Il grattacielo dei maiali in Cina? Liberiamo gli animali e mangiamone meno”

    “Non c’è tempo da perdere”. Perché – udite udite – potrebbero rimanere solo sessanta raccolti prima che i suoli della Terra siano talmente impoveriti da portare a una carestia mondiale e definitiva. Le folte sopracciglia si aggrottano e il tono si fa grave: Philip Lymbery non ama i mezzi termini. Direttore esecutivo di Compassion in world Farming, organizzazione internazionale per il benessere degli animali allevati a fini alimentari, e presidente dell’Eurogruppo per gli animali con sede a Bruxelles, è in libreria in Italia dal 17 marzo con Restano solo sessanta raccolti. Come raggiungere un futuro in armonia con la natura (480 pagine, 20 euro), edito da Nutrimenti per la collana Igloo (di Dora Di Marco la traduzione).Un titolo apocalittico, ma all’interno c’è una ricetta per invertire il trend. Ripristinando il nostro pianeta per un futuro rispettoso della Natura. E insieme agli inquietanti focus sulla catena alimentare globale, sui mega-allevamenti, sull’abbandono delle campagne e sui prodotti chimici, si fanno largo, così, le storie di chi combatte per riportare alla vita i paesaggi rurali. O ripensa nuovi metodi di agricoltura e allevamento. Classe 1965, visiting professor nell’Università di Winchester, appassionato ornitologo, Lymbery racconta a Green&Blue perché non è ancora detta l’ultima parola. Forse.

    Sostenibilità

    Dieci storie di agroecologia circolare: rinnovabili, km zero e stop ai pesticidi

    di Giacomo Talignani

    25 Novembre 2022

    Suggerisce l’approccio delle ‘tre R’: rigenerazione nell’agricoltura, riduzione degli alimenti di origine animale e rinselvatichimento del suolo. A che punto è la consapevolezza dell’opinione pubblica sulla necessità di adottare questo paradigma? E davvero la politica è disposta a investire in questa rivoluzione culturale?”Se la consapevolezza sull’urgenza di combattere il cambiamento climatico è cresciuta enormemente, lo stesso non si può dire per la necessità di allontanare il sistema alimentare dall’agricoltura intensiva. Purtroppo, la verità è che se non ci si allontana dall’agricoltura intensiva – con la sua forte dipendenza da pesticidi, fertilizzanti chimici e gabbie per animali – sarà difficile affrontare il cambiamento climatico o il degrado dell’ambiente.Per questo motivo sono convinto che la nostra unica certezza per gli anni a venire è che un cambiamento radicale è inevitabile. L’agricoltura intensiva è una delle principali cause proprio della scomparsa di ciò che è indispensabile alla produzione della maggior parte del cibo nel mondo: il suolo. Il terreno si sta deteriorando a un ritmo tanto veloce da rischiare di diventare inutilizzabile o perso del tutto entro il tempo di una vita umana. Secondo le Nazioni Unite, se continuiamo così il mondo potrebbe avere a disposizione ancora solamente sessanta raccolti. E poi? Niente suolo, niente cibo, fine dei giochi. La scomparsa del suolo, la sofferenza degli animali e il futuro delle nuove generazioni sono interconnessi: ecco perché dobbiamo mettere fine all’industrializzazione delle campagne, all’agricoltura intensiva e all’allevamento intensivo”.

    Ha scritto, a margine dei suoi viaggi nell’Italia rurale, che l’immagine prevalente è quella di una terra ormai completamente priva di animali al pascolo. Gli animali sottratti alla terra per essere allevati al chiuso. Come è potuto succedere secondo lei?”Nei giorni in cui attraversavo i campi, le valli e le pianure della ricca campagna italiana, in Pianura Padana, non ho visto neanche un animale allevato all’aperto. È un paradosso che mi è rimasto impresso fin da allora. Ho scoperto che gli allevatori della regione agricola più ricca d’Italia avevano dimenticato come tenere gli animali all’aperto. Avevano proprio un gap. Non riuscivano a capire perché non fosse giusto tenerli chiusi tutto il giorno, tutti i giorni. Non riuscivano a vedere il paradosso di far crescere e tagliare l’erba, per poi darla da mangiare a delle vacche rinchiuse nelle stalle. Avevano perso di vista il fatto che a suini e galline piace sentire l’aria fresca e il sole proprio come a noi. E sa qual è la cosa più paradossale di tutte?”.

    Startup

    Bill Gates ci crede: investe nelle alghe per fermare le emissioni di metano delle mucche

    di Giacomo Talignani

    26 Gennaio 2023

    Ci dica: quale?”Non riuscivano a comprendere come ciò compromettesse la qualità del cibo stesso. È una situazione che negli ultimi decenni è stata aggravata dalla diffusione dell’agricoltura intensiva di stampo statunitense nelle campagne italiane ed europee, dove animali che dovrebbero pascolare sono stati portati via dai campi e confinati al chiuso. Privati delle loro diete naturali a base di erba e foraggio, vengono alimentati con cereali coltivati in enormi distese di terreno in cui si utilizzano sostanze chimiche che hanno distrutto gran parte della fauna selvatica della campagna. Se vogliamo un sistema alimentare sostenibile, dobbiamo riportare gli animali allevati alla terra, in fattorie a rotazione, lasciati liberi di nutrirsi al pascolo come Natura vuole e intervallati da colture. Questo, insieme a una riduzione della quantità complessiva di carne e latticini che vengono consumati, è fondamentale per impedire che il nostro sistema alimentare diventi la causa della rovina della nostra società. Tutto ciò mi fa tornare in mente una frase pronunciata da Giorgio Locatelli, chef italiano di fama mondiale: ‘È meglio mangiare dell’ottima carne una volta alla settimana, che riempirsi ogni giorno di carne scadente e proveniente da animali allevati senza cura. Dobbiamo abituarci alla qualità, non alla quantità'”.

    In Italia si sta molto parlando dell’apertura del mercato al ‘novel food’ costituito dagli insetti, che incontra la resistenza di una parte del Paese, molto tradizionalista. Lei solleva anche alcune perplessità sulla sostenibilità degli allevamenti degli insetti. Perché non crede sia la strada giusta per un consumo di proteine più etico?”La ragione principale addotta per l’allevamento di insetti è la necessità di nutrire una popolazione in crescita, un’argomentazione fasulla in quanto nel mondo si coltiva già abbastanza cibo per sfamare il doppio dell’attuale popolazione umana. Una delle cause principali che porta le persone a soffrire la fame a livello globale è che il cibo che potrebbe servire a nutrire quattro miliardi di persone viene somministrato ad animali allevati, sia che si tratti di polli, vacche o grilli. Come altri animali allevati in modo intensivo, gli insetti sono comunemente nutriti con cereali e soia. L’allevamento di insetti, sia per l’alimentazione umana che per quella animale, consuma più cibo di quanto ne produca. L’allevamento di insetti su scala industriale mina quindi la nostra capacità di produrre cibo a sufficienza per tutti, oggi e in futuro”.

    Sostenibilità

    Legno e compost per le mucche: nell’ecostalla il benessere animale fa la differenza

    di Dario D’Elia

    04 Marzo 2023

    Molto interessante il capitolo dedicato agli oceani. In Italia la tutela della pesca artigianale, per sua natura sostenibile, è un tema cruciale. Come può essere competitiva, secondo lei, con la pesca industriale?”È fondamentale che i decisori politici al governo si rendano presto conto della necessità di sostenere pratiche sostenibili, e non quelle che danneggiano il pianeta. Per questo, bisogna garantire sussidi e incentivi a pratiche realmente sostenibili e toglierne a quelle che minacciano la nostra capacità di nutrirci in futuro. Un approccio sostenibile ai nostri mari è fondamentale tanto quanto l’allevamento sostenibile. Entrambi sono essenziali se vogliamo garantire un futuro ai nostri figli”.

    Tra le possibili soluzioni cita il ricorso alla carne coltivata, purché si abbattano i prezzi e se ne aumenti la produzione. Che prospettive ci sono?”La carne coltivata si preannuncia come elemento perturbatore del mercato globale della carne. È prodotta a partire da cellule staminali prelevate in modo innocuo da animali vivi, poi coltivate in una miscela di nutrienti in un bioreattore. Non sono necessari componenti animali. Una replica della natura, ma senza la macellazione. Si tratta di un’idea che per molto tempo è rimasta nel mondo della fantascienza, apparentemente fantasiosa e impossibile da realizzare. Ora è diventata una grande industria che ricerca, coltiva e già mette prodotti in tavola a clienti paganti. Ha superato i confini della fantasia e ha attirato l’attenzione dei politici, come dimostra il via libera dello scorso anno in un executive order del governo statunitense. Secondo le ultime previsioni, la carne coltivata potrebbe assicurarsi il 10% del mercato della carne entro il 2030 e addirittura il 35% entro il 2040″.

    Un ampio capitolo riguarda la pandemia: quale ritiene sia la principale lezione che dovremmo fare nostra?”Forse uno dei più grandi insegnamenti che possiamo trarre dalla crisi del Covid-19 è che, se non mettiamo fine agli allevamenti intensivi, la prossima pandemia potrebbe nascondersi nel nostro piatto. Ci ha dimostrato che il benessere delle persone, degli animali e del pianeta sono interconnessi. Proteggere le persone significa proteggere anche gli animali. Sebbene si ritenga che il Covid-19 sia nato dal maltrattamento degli animali e dal commercio illegale di animali selvatici, presenta forti analogie con altri virus che hanno avuto origine in allevamenti intensivi. Sia l’influenza suina che l’influenza aviaria – che hanno origine nei maiali e nei polli – sono state devastanti. Si stima che la pandemia di influenza suina del 2009 abbia ucciso circa mezzo milione di persone in tutto il mondo. La prossima pandemia potrebbe provenire da un maiale o un pollo rinchiuso in spazi ristretti, animali trattati come merce e nutriti con i frutti della deforestazione”.

    Spazi ristretti, appunto. In questi giorni sta facendo notizia l’apertura, in Cina, di un grattacielo di 26 piani con oltre 600mila maiali. Non abbiamo compreso la lezione?”Il passaggio ai cosiddetti allevamenti multipiano di suino è uno sviluppo particolarmente preoccupante. L’obiettivo della Cina è quello di allevare più suini in un unico sito di chiunque altro al mondo: circa dieci volte più grande di una tipica struttura di allevamento americana. Qualcosa come più di due milioni di suini all’anno. L’impulso a creare questi mega-allevamenti è arrivato in risposta a una massiccia epidemia: la peste suina africana, che ha spazzato via circa la metà della produzione dell’industria suinicola cinese. Tenere gli animali confinati in numero sempre maggiore rischia solo di aggravare la minaccia di malattie. Piuttosto che ripetere gli errori dell’allevamento intensivo, un modo di gran lunga migliore di procedere è quello di riconnettere la produzione alimentare alla natura, abbracciando un’agricoltura rigenerativa e agroecologica. Un’agricoltura rispettosa della natura in cui gli animali, in quanto esseri senzienti, possano muoversi liberamente senza soffrire, e provare la gioia di essere vivi”. LEGGI TUTTO